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Vito Benicio Zingales e il Truccatore dei morti: intervista all’autore

Inserito Mercoledì 11 marzo 2009

Interviste

Da Inservibili Resti

Dacché è partito ho preso il suo posto. La vita e gli affari di Lui. Dalle otto di sera lavoro per i morti. Restauro cadaveri. Da vent’anni riappiccico pezzi mortali. Ho a che fare con resti. Da lì, solitamente mi giungono uno alla volta… smembrati, edulcorati. Mi tocca assemblarli. Altrimenti risulterebbero inservibili. Perfino alla morte. Gli lenisco lo scempio e ne vivifico le parti avariate. Li cucio e ne pompo le pupille, li tonifico o li detergo a seconda dei livori. Li svuoto, ove si rendesse necessario. Ne riempio i visceri, all’occorrenza. Comunque la si volesse discutere, la mia materia gli risulterà sempre conveniente. Una passata di rimmel ed uno strato di cerone ne allontana tanfi e rinunce. Per la ricomposizione dell’istinto risultano sufficienti una foto recente ed alcune sommarie notizie prima del commiato. Il resto è affar mio. Tocca alle mie mani… e li faccio che sognano. Mi piace renderli… vivi. Li scarto e li riordino poggiandone delicatamente i pezzi sul piatto della lastra. Li lavo e li sciacquo depurandone i guasti. Quando m’arrivano, zampillano ancora… di rabbia e di tutte quelle cose che per una banale o maledetta circostanza non sono riusciti ad afferrare. E’ questa la parte che compete alle mie mani. La mia non è un’arte di poco conto. Dalle zero sette esercito lo Stato, alla sera sono più di Dio.
Non è stato difficile. Per certe cose basta organizzarsi. Lui ora è da me. Abitiamo nel medesimo segreto. Siamo la perfezione del doppio contenuta nell’alito di una morale unica. E ci bastiamo. Ulteriori faccende che non siano legate alle nostre semplici necessità non godono del nostro interesse. Dio e colpa e altre simili magre vicende sono solo annotazioni irrilevanti. A margine. Traiettorie poco probanti, paradigmi indiziari che sollecitano solo lusinghevoli, ma illusorie e manchevoli eternità.
Mi chiese di confessarne il motivo. E io gli risposi che era venuto il tempo del comando. La questione avrebbe dovuto sbrigarla solo uno. Uno dei due. Non ricordo se a quel tempo ne avesse colto la necessità. Ma la fede, talvolta, si propaga piano. Chiese se mi era concesso farlo. Si convinse che era più giusto di quanto non avesse mai ragionato, ma ciò che intese gli derivò forse dal terrore. Si procurò il convincimento per placare la sua antica indole e la furia di Dio. Volle che della cosa gli chiarissi le differenze. Ammise d’aver paura e che il fatto di dover rendere ciò che risultava necessario al nostro futuro compimento gli procurava quel certo sgomento. Della questione forse non ne capì a fondo la logica. Chiese se fosse possibile speculare altre vie alternative alla perfezione e semmai al mondo vi fosse certezza morale più grande di quel delitto. In ultimo chiese da chi gli venisse accordato il permesso di piangere.
Venni in mio possesso del mio perfetto inverso alla fine di quel terzo giorno. Ero me. Più del doppio. Più di quanta morale avrebbe potuto contenere la vita di un uomo giusto. Mia madre ebbe coscienza di me. Finalmente dritto. In piedi, sbilanciato verso il sole. Di lato alle manopole della carrozzina.
L’indomani sarebbe stato il suo primo giorno di lavoro, suo di Lui: di Silvio Buonanotte, Il truccatore dei Morti. Io… ormai, ero Me.
Io e Lui governiamo un regno. Siamo fratelli. Imprescindibili. Parti di un corpo e metà di un tutto.
Attraverso l’interzona non appena il buio comincia ad annerire l’accadere tra vicoli, comparse e passanti. Mi piace andare a piedi. Fare due passi prima che incontri la morte mi riempie di pace. Il tragitto è il sempre solito di sempre. Sono un tipo abitudinario io. Mi piace che le cose stiano sempre al loro posto. Non amo le novità. Talvolta recano svantaggi e poco igienici contrattempi. Sono uno preciso a cui piace fare le cose per bene. Scelgo da me il tiro, la logica e gli effetti che ne derivano. Le conseguenze mi piace addomesticarle anziché ferinamente subirle. La mia natura è complessa; semplice invece è il mio orientarmi tra le cose. Mi eccita tutto ciò che è miserabile; siffatta materia si lascia meglio argomentare dal ricatto. Mi piace convincere e non obbligare. Ci sono cose che s’intendono dopo la morte, ma se ci si ricrede solo dopo essere stesi e silenti non mi riguarda affatto. La pietà deriva da un fallo: la morte ne esalta il proprio apodittico fallimento. A chi resta compete la colpa, ma non il giudizio.
Una volta chiesi ad un abitante dell’interzona perché avesse così tanto desiderato la morte. Fu lesto a rispondermi. Di quello, ricordo, mi giunse prima il torso. Dopo 36 ore, impacchettati arrivarono gli altri resti.
“Non fa più male… sbaglio?”
Mi lasciò intendere che in morte può essere afferrato ciò che in vita può essere solo supposto. Cercai d’indovinarne il fallo. Ma quello disputò su bellezza e perfezione. Argomentò che non esiste forma più perfetta della morte e che gli accadimenti della vita mostrano meno di quanto non possa la morte con un solo atto. Ho creduto che volesse dirmi che nonostante la vita, l’idea della bellezza in ogni uomo svanisce non appena perisce quel tenue impulso che della bellezza ne è il fondamentale alimento: l’innocenza.
Lui voleva dire, invece, la bellezza della vita in quell’accadere che è prima dell’esistenza: nel virulento espellersi della nascita e nel perfetto accogliersi della morte. Non si può capire la vita inseguendone solo il riflesso. Commisurata al suo succedere è la morte che in quel processo si determina.
Ecco di cos’altro vive la morte.
Mi alzai, lasciando alla carrozzina la sua gelida coscienza. Abbandonai le emozioni del momento al primo rapido inseguirsi della brezza. Avvertivo la disfatta più di quell’alba illune. Andai alla balaustra. Cominciai ad osservare l’interzona. Sterminata e disseminata da fluorescenze pallide e da taglienti guglie di ruderi. Dal mio osservatorio il mare era ancora troppo lontano per percepirne il senso dell’acqua.
Tra noi era quel poco di fetida luce sgocciolante dalla lampada, ma la distanza che si opponeva era pari al doppio della potenza del fallimento vissuto. Sentivo di dover agire. Avrebbe potuto essere la colpa, invece venne dalla coscienza. Immaginavo il suo affanno. Era come se tendesse la vita e ne spalancasse lo sfintere dentro. Accadeva da piccoli quando la violenza del vecchio detonava sulla pelle di uno, ma per la collera che a quello causava l’altro. Identici… anche nel preferire il dolore all’orgoglio. Talvolta il terrore dilagava senza logica, ma a scatenarsi in noi non era la paura. Suppongo che fosse fede. Invece la vita avrebbe voluto schiantarci dentro il suo seme migliore. Così a generarsi non era conflitto. “Chi” mediava per noi sapeva ben temperare tra ragionevole disperazione ed eccepibile speranza.
Così alla fine l’uno venne attratto dalle debolezze dell’altro. Se la perfezione mostrava un certo interesse per la brutalità, l’immoralità della questione si legava alla coscienza dei due per attribuirgliene all’uno il peso della colpa e all’altro il senso predatorio del potere. Forse avrebbero dovuto dimostrare alla coscienza e alla brutalità insieme di essere solo casualmente parte di quella combinazione assurda. Eludersi a vicenda per la paura di immaginarsi mostri e legarsi morbosamente per celare alla coscienza il danno della colpa risultò… mortale.
Lui adesso era alle mie spalle. Sentii le molle della carrozzina afflosciarsi sul suo peso.
“Ci sono giorni… in cui mi sento sprofondare… Mi perdo tra le vertigini di un abisso senza fondo. Risalire verso la luce è la maggiore tra le incertezze. Mi cattura l’oblio… e l’ignoto afferra dalla mia pelle la mia identità. Fratello: Io ho paura. Cos’è che mi agisce? A quale vincolo soggiace la mia esistenza? E chi è il tiranno che regola il mio affanno? Ma soprattutto: di chi è la voce che “poi” mi tiene a galla”?
“Ascoltami: fratello mio, tu possiedi già la grazia. Devi soltanto avere fede: una si rammenterà dell’altra. Da lì riformulerà l’immensità!”.

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