un racconto di Roberto Sturm
[illustrazione di
Giulio Baldan]
La piattaforma spaziale fremeva di attività.
La solita massa informe di persone si spostava
da una zona all’altra dando l’impressione, a chi arrivasse dall’alto, di uno
sciame di insetti che mutasse continuamente direzione. Parecchi cargo erano
parcheggiati nei pressi della stazione di rifornimento aspettando il proprio
turno per il pieno di propellente. Alcuni venditori di olo vietati stazionavano
nei soliti posti, oramai neanche troppo nascosti. I video che vendevano,
nonostante le nefandezze e le violenze che proponevano, erano solo nominalmente
clandestini, visto che le autorità ne ignoravano l’evidente commercio da alcuni
anni. I chip da inserire nella presa neurale che i compratori di tali prodotti
si erano fatti impiantare dietro un orecchio a volte funzionavano male e,
seppure raramente, procuravano danni permanenti al sistema neurovegetativo, ma
non era mai stato motivo sufficiente per far recedere quei depravati dai loro
propositi. E alle autorità governative faceva comodo che stupri, atti di
violenza e pedofilia fossero sensibilmente diminuiti da quando coloro che li
praticavano riuscivano a sfogarsi mediante realtà virtuale. Ma è una cosa che a
me non è mai andata giù.
Stairway to stars
è l’ultima stazione di servizio prima delle
infinite rotte interstellari, dei lunghissimi voli spaziali da affrontare alla
velocità della luce che non permette più fermate intermedie.
Sentire chiamare piattaforma la più
grande stazione spaziale del sistema solare suona strano a tutti, la prima
volta, e io non avevo fatto eccezione. Agli albori dell’era spaziale, qualche
centinaio d’anni fa, era veramente una piattaforma e neanche tanto grande.
Servizi essenziali: rifornimento, bar e cessi. Solo alcuni pionieri si
avventuravano verso le rare e piccole colonie extra solari, avanguardie degli
insediamenti attuali. Ma gradualmente, con l’esaurimento delle risorse del
pianeta e i cambiamenti climatici, frutto di scelte dissennate di un’umanità
sull’orlo del crollo economico, la colonizzazione dello spazio riprese a ritmo
elevato. E la piattaforma lentamente ha assunto proporzioni sempre più
gigantesche, dimensioni da vera e propria base spaziale. La sua enorme cupola si
riesce a distinguere da molto lontano, adesso, arrivando con le navi. Però il
nome è rimasto, una tradizione che si è consolidata nonostante il passare del
tempo, e chi si dà appuntamento qui per un caffè o due chiacchiere prima del
grande balzo, dice semplicemente “ci vediamo alla piattaforma”.
Mi avviai verso il bar, pieno come al solito,
per bere qualcosa di fresco. I conducenti dei cargo parlavano del più e del
meno, degli ultimi viaggi, dei compensi che bastavano a malapena a coprire le
spese, delle paghe sempre più basse. Solo una decina di loro erano nei pressi
dei bagni a contrattare con le solite quattro prostitute che battevano da tempo
la zona. Non erano un granché, pensai, né mai lo erano state, ma non è che
avessero troppa concorrenza da quelle parti. Stairway to Stars era il
buco del culo del sistema solare, ai margini del sistema stesso e non era una
scelta facile neanche per una puttana decidere di stabilirsi in un posto come
quello. Non c’era mai troppo da fare una volta entrati dentro la cupola. Oltre
al rifornimento, le uniche cose da fare - come dicevo - erano due chiacchiere
con qualche collega, bere qualcosa di fresco o di forte oppure una veloce e poco
gratificante sveltina prima del viaggio.
Le replicanti, da poco immesse nel mercato,
erano tecnologicamente troppo sofisticate e troppo costose, ma non occorreva
avere doti di preveggenza per indovinare che nel giro di poco avrebbero
soppiantato quelle vecchie maschere. Alte, slanciate, disponibili e soprattutto
sintetiche. Sarebbe bastato scegliere il tipo preferito e nient’altro.
Avevo notato che almeno il novanta per cento
dei cargo in attesa di rifornimento aveva il marchio della Fastway. Non
era più una sorpresa da quando la multinazionale che possedeva la maggioranza
del mercato dei trasporti aveva deciso di creare un regime di monopolio dei
trasporti. La Fastway, da un giorno all’altro, aveva cominciato la
politica di abbassamento dei prezzi per accaparrarsi la fetta rimasta ai piccoli
proprietari, che sopraffatti da una concorrenza che non riuscivano a combattere
stavano cadendo ad uno ad uno.
-Ci penseranno poi a rialzare i prezzi,-
pensai. -Dopo tutti questi anni di sacrifici del cazzo, fra un po’ ci
ritroveremo tutti in mezzo alla strada con un pugno di mosche in mano.-
Cercai con lo sguardo qualcuno che conoscessi,
per aggiungermi al suo tavolo e scambiare almeno una parvenza di conversazione,
ma appena vidi Joe in fondo alla sala, con il suo grande e inimitabile tatuaggio
interattivo sul braccio, mi sentii chiamare da una voce femminile.
-Jack.-
La vita dei trasportatori è veramente dura.
Fino a qualche anno fa, c’era chi la sceglieva con il miraggio di un guadagno
che in pochi anni ti risolvesse definitivamente il resto dell’esistenza. Cinque
anni di duri sacrifici, di rinunce a una vita normale, agli affetti più
cari, ti consentivano di vivere per sempre da nababbo.
Le cose a cui devi rinunciare sono veramente
tante e sono un fardello che ti puoi portare dietro per il resto dei tuoi
giorni, a volte. Perdi tutti i parenti e gli amici, non hai la possibilità di
farti una famiglia e, anzi, è fortemente consigliabile evitare di innamorarsi
nel periodo di lavoro. Dopo il primo viaggio, infatti, avresti una moglie madre
e un figlio fratello. Dopo il secondo, be’... E’ qualcosa da evitare
assolutamente, sono situazioni che non fanno parte dell’ordine naturale delle
cose.
Il problema è che ogni volta che torni ti
ritrovi in una realtà visibilmente differente da quella che hai lasciato. Un
viaggio alla velocità della luce, per chi rimane ad aspettarti, dura in media
una trentina d’anni. Il tempo per coprire la distanza per raggiungere le colonie
extra solari. Ma per chi lo compie è più o meno un lampo, quasi un battito di
ciglia a parte i tempi morti di preparazione e consegna della merce.
Dopo un paio di viaggi riusciresti a parlare
con i tuoi nipoti e chiedergli che fine hanno fatto tua moglie e i tuoi figli.
Oltre a questo, il senso di estraneità che si prova al ritorno da ogni viaggio è
difficile da descrivere. La repentina accelerazione dello sviluppo tecnologico e
scientifico attuale ha reso questo lasso di tempo ancora più difficile da
sostenere. Il paragone più calzante che mi viene in mente, nonostante la sua
ovvietà, è che ti senti un alieno in una terra che non senti più come tua.
I motivi che portano a una scelta così
definitiva e radicale sono diversi. C’è chi non ha più niente da perdere, magari
qualche conto con la giustizia da saldare o qualcuno che lo sta cercando per
farlo fuori. Generalmente sono i più pericolosi, decisi a tutto pur di fregarti
il trasporto di un carico, disposti anche a sabotarti il cargo per raggiungere i
propri obbiettivi. Altri, invece, si trovano in situazioni difficili da gestire,
da sostenere, delusi da una vita che sembra non potergli offrire più niente.
Altri ancora vogliono dimenticare qualcuno.
Io sono stato uno di questi.
Guendy mi aveva piantato in asso. Avevo
trentadue anni e io, che avevo progettato il futuro della mia esistenza contando
sulla sua presenza, mi sentii dire che si era innamorata di un altro.
-Evidentemente tra noi c’è qualcosa che non funziona più.- E poi, sul mio
sguardo incredulo e attonito rigirò il coltello nella piaga: -E’ finita Jack, me
ne vado.-
Io non replicai, forse perché ero troppo
frastornato oppure perché l’amavo troppo. Ero convinto che non avesse il diritto
di spezzare i miei, i nostri progetti, la mia, la nostra esistenza. Forse avevo
pensato troppo anche per lei, credendo che i nostri pensieri combaciassero.
C’è chi afferma che in amore non esistono
regole, ma sono soltanto ipocriti che cercano un auto assoluzione da
comportamenti che hanno ferito altre persone. Una scusa da stronzi, in sintesi.
Tutta la storia ebbe un epilogo a sorpresa
quando seppi che era John, il mio migliore amico, l’altro di cui si era
innamorata. Me lo disse lui stesso quando lo chiamai per cercare un conforto.
Chiaramente lui ricambiava il sentimento di Guendy. -Non posso farci niente,
Jack,- mi aveva detto. –E’ accaduto e basta.-
Dopo un periodo di forte depressione, di
totale prostrazione, avevo pensato che l’unica cosa da fare era tagliare i ponti
col resto del mondo, col passato. Letteralmente. Conducente di cargo.
Trasportatore. Dopo il primo viaggio mi sarei già sentito meglio, avevo pensato.
Guendy avrebbe avuto quasi sessant’anni, John qualcosina di più, e io avrei
visto tutta la faccenda da un’ottica diversa. Non mi resi conto che era una ben
magra consolazione con l’aggravante che mi sarei giocato tutte le possibilità
che Guendy tornasse da me. Io l’amavo, e sicuramente l’avrei accolta a braccia
aperte, se fosse accaduto. Invece in poche settimane presi il brevetto da pilota
di cargo spaziali e la storia andò come andò.
Le cose, purtroppo, non vanno però sempre
nella direzione che immagini. Pensavo, infatti, che un altro lato positivo di
questo lavoro fosse la possibilità di contare, a meno di quarant’anni, in un
congruo gruzzolo che mi avrebbe permesso di risolvere definitivamente il
problema del lavoro. Una vita tipo donne e champagne, non so se mi spiego.
Invece la Fastway era entrata nel
mercato appena dopo qualche mese che avevo affittato un cargo da trasporto per
un periodo di cinque anni con un’irruenza che aveva creato effetti devastanti.
Aveva acquistato tutte le piccole ditte di trasporto merci e cercato di rilevare
i cargo in affitto offrendo una cifra assolutamente inadeguata, irrisoria. Noi
trasportatori indipendenti, riunitici sotto il cartello Indipendent Way,
avevamo rifiutato il ricatto e la Fastway a quel punto ci aveva anche
offerto un posto di lavoro come loro trasportatori con uno stipendio, però, che
ci avrebbe obbligato a fare quel mestiere per una vita. Rispondemmo uniti di no,
perché era nostra intenzione fare quel dannato lavoro solo per qualche anno. Per
tutta risposta, la multinazionale aveva cominciato la politica di abbassare i
prezzi per schiacciarci. Noi, con un mezzo di lavoro meno competitivo dei loro e
con spese di manutenzione maggiori, ci eravamo trovati improvvisamente nella
merda. Però avevamo deciso di non mollare, sperando che il colosso alla fine
desistesse, anche se alla fine si era rivelata una pia illusione. Avevano
perseverato nelle loro intenzioni e adesso ci trovavamo in una situazione
limite. Il fronte aveva cominciato a mostrare le prime crepe, qualche
trasportatore aveva ceduto il proprio contratto di affitto del cargo per un
posto nella multinazionale.
-A quale scopo continuare? Meglio un lavoro di
merda che ritrovarsi con il culo per terra.-
Era, senza dubbio, un’argomentazione difficile
da contestare.
E l’ulteriore prossima diminuzione delle
tariffe avrebbe reso le crepe vere e proprie voragini. Tutti i sacrifici fatti
non sarebbero serviti a niente.
Jessica la conoscevo da tempo, ma la
piattaforma era l’ultimo posto in cui avrei creduto di incontrarla. Erano
anni che non la vedevo, ma con la maglietta grigio chiaro dei trasportatori
sembrava diversa. Molto diversa. Cercai di ricordare quando e come l’avessi
conosciuta, ma quei momenti dovevano essere ben nascosti nei recessi della mia
memoria. Prima o poi, pensai, sarebbero saltati fuori. Queste ed altre sono cose
che accadono quando meno te l’aspetti. Le sedetti accanto istintivamente, le
donne che guidavano i cargo erano sempre stati una minoranza rispetto a noi
uomini. Le feci la domanda più idiota che potessi, come generalmente mi accadeva
in situazioni del genere.
-E tu cosa ci fai qui?-
-Indovina un po’- mi rispose immediatamente
con tono ironico. –Aspetto Babbo Natale.-
Era sempre stata una ragazza dalla battuta
pronta, a volte tagliente, e quei suoi occhi verdi splendevano nel suo viso
sempre sorridente e aperto. Jessica aveva veramente un bel viso, peccato che il
suo corpo invece...
La squadrai da cima a fondo, da capo a piedi e
rimasi senza fiato. Non era più lei, cioè il suo corpo era cambiato. Ci eravamo
sempre chiesti, tra amici, perché non si sottoponesse ad un intervento di
chirurgia estetica, a cui ormai anche gli uomini si erano arresi per cambiare
parti del proprio corpo o per attenuare lo scorrere del tempo, ma una volta che
qualcuna glielo aveva chiesto, era scattata come una belva.
-Io cose del genere non le farò mai!- aveva
sbraitato contro la poveretta che si era zittita nascondendosi dietro i
presenti. Tutti pensavamo che con qualche correzione sarebbe diventata una bella
ragazza, ed avevamo perfettamente ragione. Col corpo quasi completamente rifatto
era un vero e proprio schianto.
Evidentemente aveva cambiato idea sugli
interventi di chirurgia estetica.
-Come te la passi, Jack.-
-Di merda. Come tutti, del resto. Stiamo solo
aspettando di schiattare, perché ormai è solo una questione di tempo. La
Fastway non mollerà.-
I suoi occhi fecero un semicerchio che
abbracciò il locale pieno di fumo e di confusione. Vidi alcuni avventori che
avevano indossato gli occhiali da sole multifunzione della Oracle. Dietro quelle
lenti a specchio stavano guardando un film, giocando col loro computer, vivendo
una situazione in realtà virtuale oppure calcolando la rotta del loro prossimo,
imminente viaggio. Forse l’ultimo, vista la situazione. Non costavano tanto, ma
non mi ero mai convinto a procurarmi un aggeggio che mi sembrava estraniasse
ancora di più dalla realtà. Come se non fossero bastati i viaggi alla velocità
della luce.
La voce sottile ma penetrante di Jessica mi
entrò nelle orecchie isolando tutta la confusione del momento.
-Fai un’offerta a quelli della Fastway.
Fagli rilevare il tuo contratto d’affitto del cargo a patto che ti assumano.-
-Andare con loro per una paga che ti
costringerebbe a fare questo cazzo di lavoro per tutta la vita? Quando potrò
smettere sarò vecchio e non avrò più il tempo...-
-Ma quando dovrai restituire il cargo senza
riprendere i tuoi soldi e non avrai alternative di lavoro sarà meglio?-
Non risposi, sapevo già che non sarebbe stato
meglio. I posti di lavoro non c’erano, forse anche per questo ci eravamo
illusi che alla fine l’avremmo spuntata. Ma
alla Fastway di tutti i nostri problemi non gliene fregava meno di
niente.
Jessica appoggiò improvvisamente sul piccolo
tavolo le chiavi del suo cargo. Il portachiavi aveva il marchio della Fastway.
Ero allibito, un’altra cosa che da lei non mi sarei aspettato.
-Sì, è una settimana che lavoro per loro. Se
tratti, puoi spuntare condizioni migliori, per la paga, rispetto a quello che ti
offrono.-
Mi guardai intorno, preoccupato che qualcuno
avesse visto le chiavi o sentito le sue ultime parole. Tra i trasportatori
indipendenti e quelli che avevano saltato il guado non correva buon sangue,
spesso si era arrivati a situazioni abbastanza pericolose, ma in quel momento
tutti sembravano affaccendati nelle proprie discussioni o immersi nelle proprie
birre.
-Che cos’hai fatto? Sei diventata matta?-
-No. Credo di aver trovato finalmente un po’
di buon senso. Prima non ne avevo affatto.-
La porta del bar si aprì ed entrarono tre
trasportatrici che guardarono freddamente Jessica senza salutarla.
-Loro lo sanno già, vero?-
-Sì, ma mi sono abituata. E’ stato un attimo.-
Le tre donne si sistemarono in un tavolo
libero in mezzo al grande salone e cominciarono a parlottare tra loro. Pensai
subito che parlassero di Jessica, temetti che credessero che anch’io fossi dalla
sua parte.
-Vedi,- riprese disinteressandosi di tutto il
resto –a volte le cose sono diverse da come appaiono. Dopo tanti anni ho deciso
di rifarmi quel cesso di corpo...-
-Ho visto,- dissi d’istinto. –Sei diventata
davvero molto bella.-
Un leggero sorriso di compiacimento solcò le
sue labbra.
-C’era solo un modo per arrivarci. Alla fine
mi sono arresa all’evidenza. Il problema è che ho voluto fare un lavoro
radicale, non semplici ritocchi già che c’ero, e mi è costato parecchio. Per
questo mi hai incontrata qui.-
Già, Jessica si era rifatta il corpo e poi per
pagare le spese velocemente era diventata pilota. Ma le cose, anche per lei, non
erano andate come immaginava.
-Adesso come farai a pagarti l’intervento?-
-Per fortuna ho già pagato parecchie rate.
Solo che se non cedevo l’affitto non ce l’avrei fatta. Ho dilazionato la
restituzione, con la paga che sono riuscita a contrattare, facendo un paio di
conti dovrò lavorare un’altra dozzina di anni.-
-Dodici anni?-
-Sì, dodici. Se trovassi qualcuno che mi
regalasse un tot di crediti, potrei farne alcuni di meno.-
Lei doveva partire il giorno dopo, io avevo
trovato un carico all’ultimo momento, patteggiando sul compenso, e sarei partito
qualche ora dopo di lei. Non so come, ma ci ritrovammo dentro il mio cargo. Le
cuccette da viaggio erano scomode, ma fu molto bello lo stesso. Non mi era più
capitato dopo Guendy, ma del resto sapevo che prima o poi sarebbe successo. Non
avrei mai pensato potesse accadere con Jessica, soprattutto con quella
meravigliosa Jessica che mi ero trovato all’improvviso di fianco. Peccato
soltanto quell’inquietante occhio tatuato sopra il seno sinistro che mi fissava
e seguiva tutti i miei movimenti. Per un po’ mi aveva inibito, poi lei era
riuscita a togliermi dal disagio.
-Mi sei sempre piaciuto molto, ma eri perso
dietro quella Guendy e non vedevi nessun’altra. Io ho tentato qualche volta di
farti capire, ma non ci sono mai riuscita. Del resto tutti deridevate il mio
corpo...-
-Non è solo quello. La decisione di fare il
trasportatore l’ho presa dopo che lei mi ha lasciato. Un corpo o un altro,
sarebbe stato lo stesso.-
-Non dare troppa importanza alle persone,
Jack. Ce ne sono poche che valgono veramente.-
Ci riposammo per qualche ora tenendoci la
mano. Era una sensazione piacevole, che non provavo da troppo tempo. Jessica era
lì, Guendy sembrava allontanarsi definitivamente, anche dal punto di vista
mentale.
-Credo che l’unica soluzione per noi
trasportatori sia quella di metterci insieme. Solo così potremo vivere
serenamente i nostri sentimenti. Che ne dici, Jack?-
Io ero ancora a occhi chiusi, gustando i
sapori che Jessica mi aveva lasciato in bocca e sul corpo. Pensai che forse
aveva ragione. Io e Jessica, le conseguenze dei viaggi compensati, forse qualche
sbilanciamento di alcuni mesi ogni tanto che poteva essere riequilibrato nel
viaggio successivo. Una vita quasi normale, un sogno che sembrava oramai quasi
irraggiungibile. Uno squarcio su una vita che sembrava dover essere per molto
ancora grigia.
-Senti,- disse lei come leggendomi nel
pensiero -se decidi di parlare con la Fastway dimmelo. Ti presento io.
Come condizione porremo di fare coppia nello stesso cargo. Adesso nei cargo
della compagnia si deve viaggiare in coppia, è una questione di sicurezza. Per
il carico, il cargo e il personale. Non mi sembra un’idea così brutta. Quando
smetteremo, saremo comunque con la stessa differenza di età di oggi. Potremo
vivere le soste tra un viaggio e un altro con serenità. Forse anche con amore.-
Si avvicinò, strofinando le sue curve sul mio corpo.
Continuai a tenere gli occhi chiusi, il
leggero tepore della cabina sembrava rendere ancora più gradevoli le mie
sensazioni. Ma, come al solito, non sapevo cosa fare. La proposta era
allettante, ma...
Lo dissi a Jessica, e per lei non fu difficile
convincermi definitivamente.
Quindi decisi di accettare la proposta di
Jessica. Fu molto facile, dato che sul piatto della bilancia, dalla parte della
Fastway, c’era lei. Accesi il computer di bordo e ci collegammo in
videoconferenza con un rappresentante della multinazionale, lo stesso con cui
aveva trattato lei, mi aveva detto Jessica, che ascoltò in silenzio le mie
proposte. Le nostre proposte, visto che parlò quasi sempre Jessica.
Riuscimmo a ottenere le condizioni che ci eravamo proposti. Un leggero aumento
sulla paga rispetto alle loro proposte iniziali, e quando lei gli disse che
avremmo dovuto fare coppia, il funzionario non batté ciglio. Aveva già dei
moduli precompilati, che ci trasmise e dove apposi la mia firma digitale. Dopo
aver letto il contratto, certo, che parlava molto chiaramente e non sembrava
nascondere trappole insidiose.
Adempito quest’obbligo, Jessica mi disse che
era il caso di festeggiare. –Vai a prendere qualcosa al bar, che brindiamo.-
-Sì, ci vuole,- le dissi cingendole la vita e
sentendo il suo seno sul torace.
-Esco con te. Ci vediamo nel mio cargo, così
comincio a preparare per il viaggio. Tu parti più tardi, io quasi subito, manca
poco ormai,- mi disse con occhi maliziosi. -Ma dal prossimo viaggio partiremo
sempre insieme.-
Uscimmo abbracciati, ma c’era un’atmosfera
insolita nella piattaforma. Non c’era nessuno in giro, sotto la cupola. Il
silenzio che regnava rendeva la scena completamente irreale. I cargo erano al
loro posto, ma alla stazione non c’era anima viva che si occupasse dei
rifornimenti.
-Dove sono finiti tutti?- mormorai a mezza
bocca.
-Senti, il mio cargo è quello,- mi disse
Jessica indicando con il braccio, come se non mi avesse sentito. –Ci vediamo
dentro.-
-Vado al bar, così forse riesco a sapere anche
quello che sta succedendo.-
-Ok,- disse lei senza che la minima
preoccupazione trapelasse dalla sua voce.
Io invece mi sentivo inquieto. Non riuscivo a
spiegarmi il perché di quel repentino cambiamento. Del resto, non erano passati
giorni, ma solo alcune ore da quando eravamo andati all’interno del mio cargo.
L’isolamento acustico ci aveva potuto anche impedire di sentire rumori, ma in
realtà non credevo potesse essere successa una catastrofe senza che ce ne
fossimo accorti.
Il bar era immerso in un bailamme di urla e di
persone, di risate e di movimenti.
L’ambiente era saturo di fumo e di odore di
alcol, gente che ballava sopra i tavoli, che cantava in preda ad un accesso di
ilarità incontrollato.
-Ma che cazzo succede?-
Girai su me stesso cercando una spiegazione, e
m’imbattei nel serpente sul braccio di Joe che anche lui stava ballando,
partecipando a quella festa fuori programma.
-Joe,- gli urlai nell’orecchio. –Che sta
succedendo?-
Dopo un attimo in cui mi fissò incredulo, Joe
scoppiò in una risata che sembrava non finire mai. Alla fine, con le lacrime
agli occhi, riuscii a dirmi: -Ma davvero non sai ancora niente? E dove sei stato
fino adesso, a farti una scopata?- e giù a ridere ancora. Aveva ragione, ma non
mi sembrava né il caso e né il momento per dirglielo
Se il silenzio fuori del bar sembrava irreale,
le scene che si vedevano dentro il locale lo erano ancora di più. I visi
deformati dal riso, il caos che raggiungeva livelli incredibili, tutti
sembravano fuori di testa.
Per un momento sospettai un attacco di pazzia
collettiva, forse a un danno minimo alla cupola che aveva variato le condizioni
dell’atmosfera interna mandando il cervello di tutti a farsi friggere. Ma non
era così.
-Dai usciamo,- mi urlò Joe strattonandomi un
braccio.
Di fuori, il silenzio non sembrava più così
irreale.
Incredibile. Mi guardai dietro, i locali
insonorizzati del bar sembravano lontani anni luce nonostante fosse a pochi
metri.
-Hanno rapito il presidente della Fastway,
Gary... Come cazzo si chiama?-
-Gary Oldman. E allora?-
-E’ stato un commando dei trasportatori
indipendenti. Si sono messi in contatto con la sede della multinazionale.
Qualche minuto fa hanno deciso di cedere. Restituiranno tutti i cargo e si sono
impegnati a mantenere il mercato in un regime di non monopolio per i prossimi
cinque anni. Chi ha firmato per loro potrà recedere dal contratto, riprendere a
fare il trasportatore per conto proprio. Tutto questo a condizione che Oldman
sia liberato. Hanno dato la notizia al videogiornale pochi minuti fa, prima non
era trapelato niente. Oldman tornerà a casa solo dopo che questo accordo sarà
siglato sulla Terra davanti a un giudice istituzionale che ne sancirà
l’efficacia e ne garantirà il rispetto. Più l’incolumità per tutti i membri del
commando della Indipendent Way. Gliela abbiamo messa in culo,
Jack, capisci?- sbottò tutto d’un fiato Joe.
Io per un attimo rimasi in completa catalessi.
Non ci stavo capendo niente, pensavo al cargo, alla mia vita e a Jessica
contemporaneamente. E intanto Joe, con la sua mole non indifferente mi si era
aggrappato al collo.
-Capisci Jack, capisci?- continuava a
ripetermi come un ebete. Fu solo allora che mi resi conto che avevamo vinto.
Il primo impulso fu correre di filato da
Jessica, per darle le bella notizia. Era una cosa meravigliosa, grandissima.
Troppo per non avere contraccolpi.
Infatti Jessica, come da copione, non mi sentì
neanche entrare. Era troppo impegnata a parlare, tramite computer di bordo, con
il funzionario con cui avevo appena firmato un contratto che entro breve tempo
sarebbe stato meno di carta straccia.
-Come sarebbe a dire che il nostro accordo non
è più valido?- gli stava dicendo?
-Visto che tutti i contratti che hai fatto
firmare con noi non saranno più validi, abbiamo già provveduto a scalare tutti i
crediti che ti avevamo messo in conto.-
-Siete dei figli di puttana, ecco cosa siete,-
risentii tutto l’astio del tono di voce della Jessica che avevo conosciuto anni
prima. –Io che cazzo c’entro? Il mio lavoro l’ho fatto, non è colpa mia se...-
-Ma neanche nostra,- disse il funzionario
prima di interrompere drasticamente la comunicazione. Aveva il volto
evidentemente contrariato.
Jessica fu assalita da una crisi di pianto.
Ripensai a come fossi stato imbecille, in
tutta quella storia. Possibile che non mi fossi accorto di niente? Possibile non
mi fossi reso conto del suo comportamento? Le sue parole, i suoi atteggiamenti,
adesso, avevano assunto il significato giusto. Sembra sempre facile capire, dal
di fuori, ma quando ti trovi dentro è facile illudersi, è facile credere che per
una volta sia tutto vero.
Lavorando per la Fastway Jessica
non avrebbe mai potuto saldare il suo debito, ed io invece, come il solito
stupido maschio, avevo subito creduto di aver fatto colpo.
Mi avvicinai. Le misi una mano sulla spalla ma
lei non reagì. Vidi la presa neurale dietro l’orecchio. Mi sentivo vuoto, uno
straccio appoggiato con noncuranza sopra il rigeneratore di materia.
-Dai, non abbatterti troppo. Puoi tornare a
fare il trasportatore, adesso. Quei soldi li potrai recuperare.- Non capisco
perché, ma anche in questi casi nel mio dualismo interiore vince sempre la parte
buona.
-Vaffanculo,- mi disse tra i singhiozzi. –Ce
l’avevo quasi fatta. Ero riuscita a racimolare quasi tutto quello che dovevo
pagare.-
-Mi spiace, ti è costato veramente troppo
rifarti. Alla fine ti toccherà pagare il doppio, ma forse ne è valsa comunque la
pena.-
Rimase ferma, immobile, con la testa fra le
mani. Adesso non piangeva più. Mi staccai da lei, e lentamente mi avviai verso
il portello. Mentre stavo per chiuderlo mi disse: -Jack, tu mi piaci veramente,
però.-
Fermai la porta, feci un lungo respiro, chiusi
gli occhi e li riaprii. No, non sarei tornato indietro.
-Ciao Jessica. Vado con gli altri a
festeggiare, non credo che tu sia dell’umore giusto. Magari prova con un chip,
se trovi quello giusto forse puoi ritirarti un po’ su,- dissi riferendomi alla
presa che avevo scoperto pochi attimi prima. E mi chiusi il portello alle
spalle, pensando che forse aveva un chip inserito mentre faceva l’amore con me,
che magari stava pensando di essere con qualcun altro.
A dire la verità neanche io mi sentivo
dell’umore giusto. Ero frastornato, ancora confuso dagli avvenimenti di quegli
ultimi minuti. Avevamo vinto, era vero, ma non mi sentivo sollevato. C’era
qualcosa, sullo stomaco, che mi premeva maledettamente. Il peso di un’illusione,
l’ennesima, che volava via, lontana, al di là delle rotte conosciute, al di là
della portata di qualsiasi nave spaziale. E questo mi faceva male. Più di tutto,
in quel momento. Per quanto mi sforzassi non riuscivo ad essere contento. Avrei
fatto per un po’ di anni quella vita, poi mi sarei ritrovato... dove?
No, non dovevo e non volevo pensarci. La vita
è un eterno viaggio, e forse noi trasportatori dovremmo essere i più adatti ad
affrontarla. Ma noi viaggiatori, forse, abbiamo più illusioni e meno possibilità
degli altri.
Decisi in quel momento che avrei lavorato
qualche mese in più. Avrei potuto acquistare una replicante, almeno mi sarei
garantito una vecchiaia tranquilla.
Mi avviai verso il mio cargo. Dopo qualche ora
sarei dovuto partire. Stairway to Stars mi accompagnò dall’alto del suo
silenzio siderale.