un racconto di Donato Altomare
Fu all’improvviso, ricordo, era una banalissima serata autunnale, freddino, non più di tante altre.
All’improvviso tutte le tivvù si accesero da sole, così le radio e i computer collegandosi a internet, e cominciarono a sfornare notizie una dietro l’altra.
Sì iniziò con le più banali, poco più che pettegolezzi. Una voce fuori campo fredda e impersonale spiegò che il tale grosso personaggio aveva effettivamente frodato il fisco e corrotto i giudici, che il talaltro si era sposato per interesse politico nonostante la sua non fosse una sessualità fosse normale, chiarì che un certo figlio era proprio di quel grande calciatore e che il suo matrimonio era andato a monte per colpa di altre donne che enumerò una dietro l’altra. Dimostrò che un presunto pluriomicida era innocente e che scontava in carcere i delitti compiti da Tizio, Caio e Sempronio.
Poi passò a notizie più importanti. Perché e come erano scoppiate le guerre, tutte, elencandole a una a una, chi erano i veri mandati di atroci assassini, chi si celasse dietro il commercio delle armi e della droga, chi tirava le fila della tratta delle bianche e dove queste sventurate finissero.
Con fredda pacatezza spiegò chi fosse stato a diffondere l’AIDS nel mondo, che il cancro era facilmente curabile ma Tizio Caio e Sempronio avevano sempre impedito che la cura fosse conosciuta. Spiegò chi fossero i veri mafiosi e il loro intreccio con gli uomini politici.
Insomma, tutte le verità, dolci o stridenti che fossero.
Ci furono quelli che molte cose le sapevano, e rimasero ad ascoltare senza batter ciglia, quelli che non sapevano ma che avevano intuito qualcosa quindi non si meravigliarono più di tanto. Ci furono infine quelli che né sapevano né avevano intuito. E ne furono sconvolti.
Si passò alle verità scientifiche, matematiche e astronomiche. Tutti capirono cosa fosse l’Universo, quanto fosse grande, anche se non si poteva parlare proprio di grandezza, e cosa ci fosse oltre, anche se non si poteva parlare proprio di un oltre. Seppero dell’esistenza di infinità di altri esseri viventi, capirono le ragioni del moto e delle leggende, capirono l’arte e la botanica, conobbero la verità sulla relazione tra atomi e psiche, tra sogno e metalli pesanti.
Tutto, ma proprio tutto fu chiarito.
Fu proprio in quel momento che tutti si accorsero di avere nel palmo della mano sinistra, come parte della pelle stessa, un piccolo numero: lo zero.
Fu così la volta di ciascuno di noi.
Ognuno seppe tutto di sé. Si rese conto dei propri errori, delle ingiustizie commesse ma anche delle cose giuste inanellate nella propria esistenza. Dei dolori causati e delle più o meno coscienti gioie.
E il numero della mano cominciò a crescere. Lo zero scomparve rapidamente e, come su un contachilometri color carne, il numerò cominciò a crescere.
Finché giunse il momento della suprema verità.
Allora Lui apparve a tutti contemporaneamente, ma si rivolse a ciascuno dicendo: “Be’, adesso sai.”
Io ero rannicchiato sul fondo della mia poltrona più scomoda. Balbettando chiesi: “E’… è… la fine… la fine del mondo?!”
“Sì” annuì Lui serio, “il Giudizio!”
“Il… Il Giudizio Universale…” Esclamai con voce impallidita.
“Non esageriamo! Sempre megalomani voi esseri terrestri. A Mia immagine e somiglianza, gli unici nell’Universo, il vostro Giudizio è Universale… presuntuosetti, direi.
No, questo è semplicemente un banalissimo giudizio planetario. Riguarda cioè soltanto il vostro pianeta, la Terra.” Emise un profondo sospiro, poi: “Ora ascoltatemi tutti. Nel palmo della vostra mano è impresso un numero. Esso rinviene dalla somma dei vostri peccati e dalla detrazione delle vostre opere buone. Non vi resta altro che guardarlo.
Da zero a mille andrete in Paradiso, da mille a millecinquecento in Purgatorio. Oltre millecinquecento… all’Inferno. Buona fortuna.” E tacque in attesa.
Tutti, tremanti, guardammo la nostra mano sinistra stretta a pugno.
Io non resistetti molto. E, come ogni bravo giocatore di poker, lessi le cifre a una a una. Sollevai l’indice. Sotto c’era un uno. Dieci, cento, mille? Poi il medio. Era un tre. Centotrenta? Milletrecento? Tredicimila? Sotto l’anulare c’era un cinque. Col cuore in gola mi accorsi che il mignolo avrebbe potuto nascondere più di un numero. Lo sollevai: c’era soltanto un due. 1352. Purgatorio.
“Ora sapete” intervenne Lui pacatamente, “quelli destinati all’Inferno finiranno su un pianeta ai suoi primordi, dove sarà difficile ricominciare, quelli per il Paradiso andranno su un pianeta dolcissimo e mite a condurre un’esistenza incommensurabilmente felice.”
“E… quelli destinati in Purgatorio?” Chiesi mordendomi le labbra.
“Beh!... quelli resteranno sulla Terra.” Silenzio. Poi, un sorriso: “Ah, quasi dimenticavo, scorderete tutto. Al prossimo Giudizio Planetario giudicherò il vostro prossimo comportamento. E deciderò la vostra sorte. A rivederci.”
E tutto si spense.
Questo è successo poco fa. Non capisco perché sono il solo a rammentare tutto, mentre a voi pare che non sia successo nulla.
Molti sono spariti, demoni o beati che siano, ma sembra che non siano mai esistiti, mentre noi, rimasti in Purgatorio, dobbiamo fare di tutto per guadagnarci il Pianeta della Felicità.
Ecco perché, miei cari amici poeti, narratori, pittori, scultori, non siamo certo innocenti, ma neanche poi tanto colpevoli, eppure son certo che siamo destinati per sempre a restare sulla nostra Terra, eterno Purgatorio, perché necessari… necessari per far fermentare l’umanità.
Sapete, credo che Lui sia stato un tantino bugiardo, che ci abbia lasciati qui perché senza di noi artisti il succo d’uva mai diverrebbe vino e il pane resterebbe azzimo.
Noi, un po’ colpevoli, un po’ innocenti.
Noi, soli, spesso dimenticati, a volte derisi.
Noi sconosciuti, ma curiosamente eterni.