a cura di Santoni Danilo
La città rappresenta una costante nella storia della civiltà
umana: dagli insediamenti su palafitte all’ingorgo di grattacieli di Manhattan,
la città ha percorso lo stesso camino dell’uomo cambiando di aspetto, di
materiali, di concezione, di struttura… ma rimanendo profondamente (e
paradossalmente) fedele a se stessa nella funzione svolta.
Allo stesso tempo l’uomo ha concepito in modo astratto la
città oscillando tra due punti estremi:
La città Organismo:
La città come organismo nasce dalle necessità fisico
sociali dell’uomo: è quella struttura che si sviluppa secondo leggi e
dinamiche proprie, tenendo conto della domanda del fruitore e rispettando i
vincoli del luogo dove nasce, espandendosi però in piena autonomia. Un
organismo che si accresce assecondando l’ambiente in cui prolifera,
modificandosi e diffondendosi col modificarsi e col diffondersi delle esigenze
che deve soddisfare. Sia essa il borgo medioevale, accumulo di strati
abitativi che seguono la struttura fisica dell’altura su cui nascono, o la
città rupestre che si adatta alla friabilità o meno della parete rocciosa che
la genera, la città come organismo cresce e si sviluppa secondo le proprie
leggi interne.
La città Meccanismo:
La città come meccanismo nasce dal progetto: è quella
struttura che si sviluppa secondo leggi e dinamiche pensate a tavolino e
pianificate; che per tenere conto della domanda del fruitore e dei vincoli del
luogo di nascita si espande secondo leggi ferree ed esterne alla sua
struttura. Sia essa la città ideale, sogno del rinascimento, o la
realizzazione utopica di nuove progettazioni come nel caso di Brasilia, la
città come meccanismo nasce svincolata dai bisogni particolari che deve
soddisfare per cercare invece di rispondere a bisogni ideali o teorici.
Naturalmente questi due concetti non sono altro che i punti
estremi ed opposti di una serie di concezioni della città più sfumate ed
intermedie, i punti, diciamo così, teorici. Per esempio cos’altro sono i piani
regolatori delle nostre città se non il tentativo di innestare le leggi del
meccanismo all’interno di una struttura che tende ad essere organica?
La fantascienza ha trattato spesso il tema della città
futura, facendolo però quasi sempre in modo tangenziale, lasciando più che altro
il tema come parte dello sfondo su cui impostare l’azione. Si è trattato spesso
più che altro di note di colore e non di uno studio di una progettazione preciso
e scientifico.
A volte ci sono delle eccezioni.
Nel 1974 presso gli Oscar Mondadori esce un volumetto dalla
copertina piuttosto brutta, è la traduzione di una raccolta di racconti
pubblicata negli USA l’anno precedente, Future City, e da noi titolata
Le città che ci aspettano.
Il volume raccoglie una serie di racconti (14 nell’edizione
italiana, ho motivo di credere che l’edizione originale ne contenga di più) che
presentano dei concetti particolari di città: la città festival, la città
sicura, la città degli uffici, la città di superficie, la città dei riti, la
città della mafia, la città degli sfratti, la città senz’aria, la città
programmata, la città fuori dalla città, la città dei robot, la città senza
uomini, la città condannata, la fine della città.
L’idea che si fa largo, e questo libro ne rappresenta una
conferma, è che in massima parte la fantascienza classica, quando si è posta a
studiare il concetto, abbia sentito la città più che altro come meccanismo,
mentre le nuove tendenze (diciamo da Blade Runner
e dai cyberpunk in poi) sentono la città più
come un organismo.
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