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NON E’ SOLO FANTASIA

Inserito Martedì 14 marzo 2006

Narrativa un racconto di Andrea Aroldi

Un nuovo giorno era terminato, finalmente.
- Ah… - mormorò Peter distendendo le membra intorpidite.
Un brivido, che non era certo dovuto al freddo ma a quella specie di nervosismo che lo assaliva sempre al termine del lavoro, gli corse lungo la schiena. Si pose gli indici sulle tempie e premette con forza per scacciare l’intorpidimento che gli offuscava la mente. Si alzò dalla sedia che era stata la sua prigione per otto ore e sbadigliò a braccia aperte, sconsideratamente.
- Un altro giorno è finito – si disse.
Uscì dall’ufficio dove svolgeva la sua mansione di contabile; un piccolo e brutto ufficio che gli era capitato quasi per caso, provvisoriamente. Non l’aveva più lasciato.
Nello stabile della compagnia per cui lavorava c’erano molti altri uffici come il suo, ma tutti lucidi, moderni e funzionali.
Quello era ammuffito, polveroso, ma sapeva di vita vissuta, aveva dentro di se delle memorie che il freddo alluminio e la lucida plastica non potevano creare. Ogni macchia di quell’ufficio aveva la sua storia.
Come sempre però, Peter non aveva rimpianti nel lasciarlo. Era la sua prigione, il suo lavoro. Amava spazi aperti, vivi, aria profumata e fresca.
Quella che avvertiva era muffa vecchia, di tempi eroici forse, ma stantia.
Fischiettando tra se uscì dallo stabile e s’immerse nel caos di Milano delle ore 18.00.

Impiegò mezzora per arrivare a casa, ma non era nervoso come tanti altri quando arrivò. No, quel viaggio era per lui un vero calmante, una tisana calda bevuta al tepore di spesse coperte in una nottata di pioggia invernale. Un vero toccasana.
In fondo era stato per otto ore di fila al lavoro in quell’ufficio e quella mezzora passata in auto all’aria aperta non lo aveva certamente innervosito. In ogni caso appena arrivato a casa doveva ricominciare a studiare se voleva dare la tesi entro l’anno, ed era già giugno.
Quando aprì il portone di casa, tutta la baldanza che lo aveva caratterizzato fino a quel momento scomparve. Una pesante cappa lo avvolse, una cappa plumbea che soffocava la mente e privava di forze il passo.
Scosse il capo e gli sembrò che scomparisse, ma sapeva bene che quella era solo una pia illusione. Sapeva che presto sarebbe ritornata a fiaccargli la resistenza. Erano giorni che ne soffriva e non era ancora riuscito a scoprirne la ragione.
Si appoggiò al muro e osservò la lunga scalinata che portava al terzo piano dove aveva il suo alloggio. Chiuse gli occhi e si raccolse in se stesso, in una sfera ideale. Era avvezzo a questa pratica e in poco tempo raggruppò le energie necessarie, unito a sufficiente coraggio, per affrontare la scala.
Fu abbastanza faticoso, ma non più delle altre volte. Era vero o Peter si stava solo illudendo di cominciare a guarire da quella strana malattia?
Aprì la porta ed entrò nella casa dove abitava, ospite gradito di una famiglia italiana: i Bocchi.
Mamma Bocchi gli venne incontro, i biondi capelli acconciati in una buffa permanete tutta riccioli che incorniciavano il suo viso grassoccio, da buona donna di casa sempre gentile con tutti.
- Peter, ragazzo mio, ti stai sciupando! –
- No, non è niente. Oggi no mi sento troppo stanco –
- Tu studi troppo e lavori come un matto. Non puoi continuare in questo modo –
- Perché no? Sono giovane, ho ventidue anni! – e si ritirò nella sua camera.
Mamma Bocchi lo guardò incamminarsi con il suo, ormai da giorni, caratteristico passo incerto.
Scosse il capo e tornò alle sue faccende domestiche.

Erano ore che studiava.
Aveva digerito per ore cifre su cifre, e ora si sciupava gli occhi su quei libri di storia.
Lui amava la storia, e forse per questo aveva preferito quell’angusto e scialbo ufficio.
Era vero, non lo amava, ma aveva preferito il minore dei mali.
Di là dalla sottile parete sentiva la vita pulsargli accanto, impersonata dalla famiglia Bocchi. Percepiva le loro risa, i loro alterchi, i loro discorsi, senza però parteciparvi, senza essere coinvolto. Proprio come un osservatore sulle rive del Fiume Tempo. Poteva aprire la porta e andar da loro. Lo avrebbero accolto gioiosi, ma era bello sentire la vita pulsarti accanto al di là di una sottile parete e sapere che bastava aprire una porta per potervi partecipare.
- Meglio fare una sosta – si disse a bassa voce.
Si strofinò gli occhi e si diresse verso il suo impianto hi-fi.
Ne era orgoglioso!
Aveva acquistato quanto di meglio c’era sul mercato e aveva ora un impianto d’altissima fedeltà, dal suono reale.
Poiché amava ascoltare la musica ad un volume piuttosto elevato, s’era munito di una cuffia stereofonica di alta gamma.
Si distese sulla moquette e passò in rassegna la sua collezione. Quasi gli si chiusero gli occhi e non si preoccupò del disco che aveva scelto. Eh si, perché Peter era un nostalgico appassionato del disco in vinile. In un’epoca dove la musica si ascoltava da internet, dai lettori mp3 o più comunemente dai cd, lui era rimasto attaccato al vinile, al grosso disco nero.
Prese delicatamente il disco, lo pose sul piatto, lo pulì con lo spazzolino dalle setole sottilissime, regolò il volume, spense la luce e accese il giradischi.
Mentre la puntina si avvicinava ai solchi incisi in maniera concentrica, si sistemò sul pavimento.
La musica ebbe inizio.
Era un disco che aveva ascoltato molte volte e lo amava sempre. Un disco della nuova corrente musicale inglese. Un disco freddo per molti.
La cappa di stanchezza, di sfibramento totale lo avvolse ancora. Lottò per non crollare, ma come fare? Gli dolevano gli occhi, la stanza era buia e lui era coricato comodamente per terra, cullato dalla musica che più preferiva.
Lentamente cominciò a perdere terreno e a lasciarsi scivolare nel tunnel dell’oblio.
La canzone s’era addolcita e gli facilitava l’abbandono. Al ritornello s’era inserita una voce femminile che faceva da eco, un’eco non in sincronia ma in ritardo. A quest’ultima se n’era aggiunta un’altra ancora, in ritardo con la seconda e più dolce delle due.
Peter si lasciò trasportare da loro come in una danza. Un passo a destra, uno a sinistra, poi uno indietro e due avanti, una piroetta e così via, lungo il tunnel buio frammezzato da lampi luminosi.
Ma anche i lampi erano caldi, tutto aveva il tepore casalingo, quel tepore che sapeva di legna messa da ardere nel camino.
La cappa s’era stretta attorno a lui, ma ormai non ci faceva più caso, anzi, si abbandonava con gioia a quella musica e a quella stanchezza profonda.
Ma poi la musica terminò e come una porta si chiuse.
E lui era dall’altra parte!!!

Aveva gli occhi chiusi, ma qualche cosa non andava e non era solamente la luce improvvisa che era comparsa!
Aprì gli occhi e si guardò attorno.
- No! – esplose.
Una piana erbosa, no anzi, un immenso prato all’inglese. Un verde strano, come dipinto, in contrasto con il cielo limpidissimo.
Perché in contrasto? Non sembrava anche quello dipinto?
Si alzò e si guardò attorno. In lontananza poteva scorgere una catena montuosa. Era difficile determinarne l’altezza, poiché mancavano punti di riferimento certi per poterne valutare la distanza. La piana continuava piatta per chissà quanti chilometri!
Aveva ancora la cuffia stereofonica sul capo, il filo spezzato, testimoniava una realtà che se n’era andata.
Dove?
Le forze gli mancarono e Peter cadde in ginocchio, scosso da tremiti e col viso rigato da lacrime salse.
Ma un’altra cosa lo aveva seguito dal mondo reale: la stanchezza.
Senza accorgersene sprofondò nel sonno e smise così di piangere.

Non sapeva quanto aveva dormito, perché il sole dipinto era ancora alto. Le nubi bianche si rincorrevano nel cielo azzurro, ma non un soffio di vento baciava il suo viso.
No, osservando bene, il sole s’era un poco spostato, o era solo la sua disperazione che s’era impossessata dei suoi sensi?
Illusione dunque?
Forse, o forse no.
Si alzò da terra e si guardò ancora attorno. Non aveva bisogno di darsi il famoso pizzicotto per sapere se era un sogno. Aveva accettato la situazione, per quanto pazzesca potesse sembrare, e ora la studiava con calma.
- Spazi aperti, cieli liberi, aria profumata – fu il suo commento a voce alta mentre si toglieva le poche lacrime che rigavano il suo viso.
La prima sensazione di panico e si spaesamento era scomparsa ed era emerso un atteggiamento, una sfumatura del suo carattere che era rimasto latente e che la sua educazione aveva represso come inutile.
Ora amava quel posto. Aveva sempre voluto evadere dal suo modulo di vita, da quel ufficio polveroso, da un mondo che non comprendeva e che non corrispondeva ai suoi desideri.
Aveva sempre pensato di ritirarsi su di una piccola isola sperduta nell’oceano dove potersi costruire una vita diversa. Lì poi aveva, apparentemente, spazio a volontà.
Si toccò la tasca della camicia e trovò quello che cercava: il pacchetto di CAMEL, ancora sigillato.
Lo scartò e si accese una sigaretta. Senza accorgersene lasciò cadere per terra il cellophane dell’involucro, ma mentre si chinò per allacciarsi meglio le stringhe delle scarpe, lo notò.
- Eh no, non posso – e, raccoltolo, se lo mise in tasca.
Un fresco vento andò a rinfrescargli il viso e gli mise addosso allegria e sicurezza. Così, senza motivo.
- Bene, e adesso? –
Si volse ancora al paesaggio.
Un boschetto di betulle si trovava a poca distanza da lui, a meno di un chilometro. Dietro di esso si vedevano delle montagne, molto più vicine di quanto ricordasse.
Ma fu il boschetto che gli diede da pensare.
- Come ho fatto a non vederlo? – si chiese divertito.
Un pensiero gli si formò nella mente: piante = vita, si diresse immediatamente verso di esso. Quando era a non più di venti metri, una cosa, un essere usci dall’ombra delle piante.
Peter spiccò un salto indietro e si voltò per fuggire, istintivamente, ma poi si fermò ad osservare l’essere alieno, o forse era lui l’alieno?.
Era poco più alto di un metro e sembrava un buffo incrocio tra un canguro dalla grossa pancia e un pellicano di taglia robusta.
Un buffo essere color zafferano.
“Come può essere pericoloso una cosa simile?” si chiese mentalmente. Era un pensiero irrazionale che andava contro la logica più elementare, mettendo in relazione l’aspetto con le caratteristiche peculiari di quell’individuo.
Eppure si fidò di quel pensiero idiota e si avvicinò.
- Chi sei? – chiese, senza attendersi realmente una risposta.
- Il mio nome non ha importanza –
- Ma tu parli! – esclamò sorpreso.
- Certo che parlo, perché mi avresti chiesto chi sono se non volevi saperlo da me? Perché non l’hai chiesto a questi alberi chi erano? –
- Sei del posto? – chiese timidamente avendo accusato la palese sconfitta verbale.
- Se intendi se vivo nel boschetto, no, non sono del posto. Se intendi però se sono di qui, sì, sono del posto –
- Di qui dove? – aveva ormai ripreso il sangue freddo.
- Di qui, intendo di questo posto –
- Ma… -
- Ancora domande? Basta così, argomento chiuso. Chi sei? –
- Sono Peter e vengo da… - un nodo gli salì dallo stomaco e andò a concludere il suo viaggio incastrandosi in gola. La sua Terra, in fondo in fondo, l’amava ancora, nonostante i suoi difetti.
- …da un altro posto. Sono un forestiero –
- Questo l’avevo capito. Bene, io sono Verità, la Tua Verità
- Coooooooooosa? –
- Vedi questo posto? E’ una proiezione della tua mente, del tuo inconscio. No, è inutile che tu ora cerchi di desiderare di tornare indietro, a casa tua, non potresti. Il tuo inconscio non è completamente controllabile, vive come un mondo a sé, proprio come questo –
- Tu sei pazzo –
- Io? Tu stai parlando con Verità, caro mio, con un essere uscito dalla penna di qualche scrittore dilettante. Io non sono pazzo perché parlo con un essere umano in carne e ossa, ma che dire di te? –
Peter si girò di scatto e fuggì da quell’essere ridicolo che gli faceva discorsi assurdi riuscendo anche ad aver una parvenza di logica.
Ma che cosa aveva senso, ormai?
“A questo penserò dopo” e continuò a correre in direzione delle montagne. Era terrorizzato, anche se non voleva ammetterlo.
Il suo cuore traboccava dal panico, un panico che gli fiaccava l’animo, riducendoglielo in briciole.
E mentre correva costeggiando il boschetto, che non terminava mai, una leggera musica andò sorgendo, trasportata dal vento. Una musica che conosceva perfettamente, poiché l’aveva ascoltata più volte: apparteneva alla sua collezione di dischi.
Era difficile correre su quel terreno e poi la musica era piacevole, una delle sue preferite.
Stremato raggiunse un albero e vi si appoggiò, per poi crollare sfinito al suolo.
Chiuse gli occhi e si abbandonò alla stanchezza e alla musica.
E quando li riaprì, l’essere era di fronte a lui.
- Allora, dove eravamo rimasti? No, non scapperai più ora! – esclamò in tono autoritario.
- Vuoi anche tu conoscere la Verità e io sono Verità –
Peter, che aveva fatto l’atto di alzarsi, ricadde a sedere.
- D’accordo, ti ascolto –
- Dunque, questo posto è una proiezione della tua mente indipendente, il subconscio per intenderci. In esso vi sono tutte le componenti che tu ami. Volevi fuggire la realtà e ora sei in un mondo vergine, solo e con la tua musica –
- E tu? Cosa rappresenteresti? –
- Io sono Verità. Quello che vedi è solo una proiezione, non le tue vere convinzioni. Io sono quello che ti doveva dire tutto questo. L’ho fatto – e scomparve in uno sbuffo color zafferano.
- Ehi! – esclamò balzando in piedi, ma l’essere non c’era più. Al suo posto, sull’erba troppo
verde, la copertina di un disco, l’ultimo che aveva ascoltato nella stanza… nel mondo reale.
Aveva ancora molte domande da formulare e non poteva farle più.
Come fare?
Dove andare?
Cosa fare?
Queste tre domande gli rimbalzavano nella mente come delle palline da ping-pong racchiuse in una sfera di gomma. Domande importanti, sagge, ma senza risposta. Domande che esigevano risposte precise.
Nuovamente lo sconforto lo assalì e una lagrima fece capolino tra le ciglia. La ricacciò indietro ed eroicamente tirò un lungo sospiro per dominare le altre piccole lagrime, generatrici di un fiume di nero abbandono.
Sempre con la morte nel cuore si avviò verso le montagne, in mancanza di una meta migliore.

Alle montagne ci arrivò in una decina d’ore, mentre il sole rimaneva sempre alto nel cielo, esattamente nello stesso punto.
Quel sole irreale era un enigma, divertente anche, in quel posto. La sua immobilità, la calda luce che non veniva mai oscurata, neanche dalle nuvole passeggere, lo riportavano a una letteratura bucolica, senza la presenza di fattorie e animali al pascolo, serafici.
Aveva ancora in mano, ben stretta, la copertina del disco, vana speranza di poter rivedere la cosa color zafferano.
La musica che lo aveva accompagnato durante la marcia, era da tempo terminata e di questo era stato felice, lo riportava troppo nel mondo che aveva lasciato, quel mondo che non amava, ma di cui sentiva la mancanza. Quella musica era una perfida tortura.
Le montagne erano alte e aguzze. Sembravano… no, non era possibile! Erano le sue amate Dolomiti!
- Ma com’è possibile… - gli sfuggì, ma poi il contatto con la copertina del disco lo portò
a ricordare i discorsi, giudicati sconclusionati, dell’essere color zafferano. Lentamente si sedette ad osservare le “sue” montagne.
E la cosa apparve.
- Stanco? –
Peter balzò in piedi e si scagliò su di essa. Presa alla sprovvista abbozzò una fuga, ma la sua mole sgraziata la rese impossibile. Le mani del giovane si chiusero come una tenaglia sulla sua coda.
- Ferma! –
- Ehi, lasciami! Ho detto lasciami! –
- No, non te n’andrai, ho molte cose da chiederti –
- Ma io ti ho già detto tutto – la sua voce s’era trasformata, divenne piagnucolante.
- Dove siamo? –
- Ma… -
- Rispondi –
- Nel tuo mondo –
- Non lo voglio, desidero riavere il mio! –
Con un’abile mossa della coda lo scagliò a pochi passi di distanza.
- Fermo tu ora! Io sono Verità e risponderò a tutte le domande che mi farai con educazione – e scomparve. Peter si alzò disperato e cercò qualche cosa su cui scaricare la sua rabbia. Prese la copertina e la ruppe in pezzi microscopici che scagliò lontano come una manciata di coriandoli, che caddero al suolo lentamente irridendo la sua furia.
Una musica leggera era comparsa nell’aria.
Una canzone che era salita di tono e che conosceva bene. Un rock, un duro, epidermico, sconvolgente. Prese forza da quella canzone e costruì una sfera nella sua mente, vi mise dentro tutta la sua rabbia e la scagliò lontano.
Con un singulto la musica cessò e la cosa riapparve.
- Sei calmo ora? –
Sì, ora lo era.
- Dove siamo – mormorò piano, mentre allentava i pugni chiusi dal furore di poco prima.
- Siamo in un posto che è la proiezione… -
- Come devo fare per andarmene? –
- Perché vuoi farlo? Non è quello che hai sempre desiderato? Un posto tuo, dove poter fare quello che desideri e, soprattutto, da solo? –
- Rispondi alla mia domanda –
- Non posso –
- C’è un modo per andarsene? –
- C’è, ma è inutile che tu faccia altre domande su quest’argomento, perché non posso risponderti –
- E’ molto grande questo posto? –
- Abbastanza –
- Non è una risposta –
- Trovatela da te – e scomparve.
S’incamminò con l’intento di superare le montagne in due giorni. In fondo aveva collaborato con le guide alpine dolomitiche per quattro anni e conosceva quei monti alla perfezione!

Finalmente era arrivato dall’altra parte e osservava stupito il paesaggio che si stagliava di fronte a lui.
Aveva trovato un giardino fiorito, un eden perduto.
La strada che lo aveva portato a valle, digradando dolcemente, arrivava ad un parco verde punteggiato di coloratissimi fiori, uno più stupendo dell’altro.
Il giardino ospitava numerose piante d’alto fusto ed era a pianta rettangolare, mantenendo la planimetria tipica delle ville venete del ‘700 o dell’800, con grandi giardini a terrazze, fontane cantanti e scaloni in marmo che avevano ispirato poeti neoclassici o visto moschettieri eroici liberare belle dame prigioniere.
Una tenuta ben conservata o una statica ricostruzione.
Mentre si avviava verso esso, estrasse una sigaretta e l’accese.
Mentre osservava la fiamma dell’accendino danzare nella leggerissima brezza, gli balenò una grande idea.
Fischiettando si avvicinò alla prima siepe che incontrò, una bella siepe ben curata, e mise la fiamma a contatto con le foglie secche del manto erboso che si trovava sotto di essa.
Immediatamente questo prese fuoco e le fiamme si propagarono con gran velocità. Non s’era aspettato una reazione così violenta, ma ne fu felice. Si allontanò dal falò che stava crescendo a vista d’occhio e rimase a fischiettare, osservando la distruzione.
Vide chilometri e chilometri di siepi accartocciarsi, lanciando al cielo spezzoni di rami bruciacchiati e infiammati; vide aiuole perfettamente curate consumarsi in una fiamma accecante; assistette alla lotta violenta tra il fuoco e le fontane spillanti acqua, che presto si tramutava in vapore, mentre la leggera patina muschiosa che le ricopriva si consumava lasciandole nude, come il primo giorno, a combattere una battaglia persa in partenza; osservò divertito i putti di marmo attaccati dal fuoco subire la stessa sorte, il loro vestito di muschio sparito, risorgendo ignudi nel calore della distruzione.
Ma il giardino era un’isola verde e presto il combustibile terminò e con esso il fuoco.
In mezzo alle ceneri di una grande e contorta quercia consumata c’era la cosa.
- Perché? –
- Come faccio ad andarmene? –
La cosa spalancò il grande becco color zafferano, per poi richiuderlo prima di scomparire.
- Prima o poi me lo dirai – mormorò e si avviò verso il giardino incenerito, per poi
superarlo, andando alla ricerca dell’uscita.
Il sole dipinto era ancora nello stesso punto.

Ormai le basse colline che precedevano le montagne erano alle sue spalle. Peter si trovava su di una pianura ondulata, dissimile da quella da tempo lasciata.
Non era affamato, anche se da moltissimo tempo non mangiava. Così anche la sete non lo tormentava.
“Meglio così, un pensiero in meno” e aveva perfettamente ragione, le zone che aveva attraversato erano completamente prive di risorse alimentari. Non aveva ancora visto un albero da frutto, un animale e delle semplici bacche. Solo la cosa popolava quel posto silenzioso.
No, ancora una musica a lui conosciuta permeava l’aria, facendo da sottofondo al suo peregrinare. Camminava con le mani calate nelle tasche dei pantaloni, stringendo l’accendino.
Per un attimo pensò di incendiare la pianura, ma poi, arrivato al culmine di una bassa duna che gli aveva chiuso l’orizzonte per molto tempo, scoprì un divertimento migliore.
Una città di cristallo!
Nel sole dipinto, forse ma non per questo meno luminoso, la piccola città brillava di una lucentezza meravigliosa, simile a un brillante lavorato da esperte mani olandesi.
Fischiettando con noncuranza si avviò verso essa.
E la cosa apparve tra lui e la città.
- Dove… -
- Sei qui per indicarmi l’uscita? –
- No, ma per… -
- Scostati, allora –
- Sono Verità e quando Verità parla bisogna stare ad ascoltare! –
- Parla dunque –
- Non distruggerai anche questo –
- Perché? –
- Perché è un modello che avevi disegnato e che noi… -
- Noi? –
- Che… che tu ami e che non potrai certo distruggere –
- Ah si? Vedremo – e tolse dalla tasca un grosso mazzo di chiavi.
- Vedi Verità, è vero, amo questa costruzione. L’ho disegnata per un mio caro amico che partecipava ad un concorso. Ci ho perso un mese assieme a lui per calcolare tutti i carichi che le arcate, le torri e i contrafforti potevano sostenere. Un lavoro più bello che utile, ma con un difetto: troppo equilibrato – e scagliò il mazzo verso la prima costruzione.
Il mazzo, scagliato con violenza, superò velocemente il grande spazio che separava Peter dalla costruzione, colpendola senza però infrangerla. Con uno scatto fulmineo corse a recuperare le chiavi.
- E allora? –
- Allora basta una scossa, basta che si formi una piccola crepa e tutto lo stupendo equilibrio va a farsi sfottere –
Uno scricchiolio e una crepa comparirono nella parete colpita.
Fu uno spettacolo a suo modo fantastico.
Una ragnatela di crepe si dipartì a raggiera dal punto colpito, poi la parete crollò. La struttura non poté sostenere il successivo sbilanciamento dei carichi e crollò anch’essa, trascinandosi dietro, con effetto a catena, tutte le altre. In dieci minuti la cittadella era un cumulo di briciole lucenti, un castello di carte crollato miseramente.
Verità era ammutolito.
- Vedremo –

Peter non era rimasto ad osservare per molto tempo la città in briciole, ma era passato oltre, umile paladino che lottava contro quel luogo che non desiderava, ma che rispecchiava perfettamente i suoi segni reconditi.
La piana era diventata sterminata e l’orizzonte, lontanissimo, lo irrideva.
Non era scoraggiato. Solamente all’inizio era rimasto colpito da quella solitudine, dal pensiero di essersi perso in un luogo senza aver più la possibilità di far ritorno al mondo reale.
Ma ora sentiva di essere veramente a casa, era sereno, ma deciso ugualmente ad andarsene.
Aveva ottenuto una piccola vittoria sulla cosa, doveva difendere il vantaggio acquisito.
Senza fretta puntò in direzione dell’orizzonte, sapendo che prima o poi la cosa sarebbe apparsa.
E apparve.
- Dove vai? –
- Cerco l’uscita, visto che non mi sei stato di grande aiuto mi tocca arrangiarmi –
L’essere gli si accodò quando Peter l’ebbe superato senza aver fatto minimamente il gesto di fermarsi.
- Allora, cosa hanno detto i tuoi capi? O sei anche tu uno di loro? Già, come si chiama il vostro dominio, questo posto che nome ha? –
- Chiedi sempre troppo –
- No, non è vero, chiedo solamente una cosa: andarmene –
- Nessuno ti ha portato qui, ci sei venuto da solo, di tua spontanea volontà –
- Menti! –
- IO SONO VERITA’ E NON MENTO!!! –
- Spiegami allora perché, visto che ci sono venuto liberamente, ora me ne voglio andare? –
- Questa è una domanda che dovrei farti io –
- Appunto, e se me la fai, la risposta è che non volevo venire qui! – e ripensò agli ultimi attimi passati a casa sua, alla sua stanza buia, alla musica dolce che aveva scelto a caso, al caldo abbandonarsi a quella strana stanchezza…
- Da dove viene la musica?! –
- Da nord… -
- Dove esattamente? –
- Non te lo posso dire… perché… -
Peter saltò e afferrò saldamente una delle piccole zampe che aveva sul petto.
- Ora non fuggirai! Sparisci pure, verrò con te! –
E la cosa scomparve.
Osservò stupito lo spazio vuoto tra le sue mani che avevano stretto l’essere color zafferano.
Nuovamente la musica aspra, spezzata nel ritmo come il deambulare di uno schizofrenico, salì a riempire l’atmosfera.
E salì, salì fino a diventare assordante, come un tuono e trascinante come un uragano.
E Peter usò quella musica per annegare il suo sconforto, ma esso non scomparve, ma si moltiplicò e al culmine dell’ondata travolgente urlò – Torna! – e l’essere comparve di fronte a lui, con un’espressione stupita negli occhietti piccoli.
La musica calò di colpo.
- F… f… fammi andare – balbettò
- No, tu resterai, io andrò –
L’immagine dell’essere iniziò a sbiadire e un’onda di panico si formò nel cuore dell’uomo, un’onda che trascinò ancora la musica con se e che fece tornare l’essere nuovamente materiale.
- Ma come –
- Dov’è che viene creata la musica? –
- A nord… -
- Portami! –
- Non posso, i miei padroni… -
- Ricordi, questo è il mio mondo. Basta conoscere la chiave e si può controllare –
- Ma… -
- Muoviti! O… - e la musica salì d’intensità
- No, aspetta… afferrami la coda e tieniti stretto
Si mosse e si attaccò alla coda.
L’aria tremolò e non erano più là.

Peter era coricato a terra e poco distante da lui c’era l’essere zafferano, svenuto.
Si trovavano in una grotta fiocamente illuminata, ma alla sua sinistra c’era un arco che dava sull’oscurità profonda.
Erano dove la musica veniva creata, lo seppe appena sveglio.
Non sapeva perché, ma da quando s’era fatto travolgere dal panico aveva saputo dare ascolto al suo istinto, istinto governato dall’ego nascosto. E chi aveva creato quel posto?
Ora poteva sentire la musica, leggera, dolce, una melodia piacevole. Per un attimo fu cullato da essa, ma ora sapeva che potere c’era dietro le emozioni che sapeva suggerire.
Si alzò di scatto, gli sembrò il modo migliore per riuscire a spezzare quell’incantesimo dolce generato da quella ballata.
Andò verso l’arco e lo varcò.
La tenebra si sciolse e la luce rivelò una stanza circolare al cui centro capeggiava un giradischi di dimensioni gigantesche: il braccio che reggeva la puntina misurava almeno un metro e mezzo, mentre il disco che stava girando era di quattro metri di diametro.
Lo stupore durò per poco, perché fu sostituito dalla vista delle pareti.
Migliaia di dischi tappezzavano le pareti, apparentemente senza essere in alcun modo attaccati.
Erano semplicemente appoggiati, che importava poi se la parete era verticale.
Contrariamente al disco che girava, questi erano di grandezza naturale. Tra il piatto e la parete c’erano circa tre metri. Peter entrò nel varco e si avvicinò ai dischi alle pareti e ne studiò le copertine sistemate a fianco del nero vinile.
Erano tutti i dischi che possedeva e che aveva ascoltato tantissime volte.
Distrattamente ne prese uno e lo studiò. Si staccò dalla parete facilmente, come sfogliare le pagine di un libro.
Sì, era un disco vero.
Lo riappoggiò alla parete e questo rimase lì, fermato dal nulla.
Continuò a passare in rassegna quella collezione discografica. La musica ora era semplice, come priva di energia; una musica facile da ascoltare, dai connotati commerciali.
Un pensiero gli comparve nella mente, fulmineo – Distruggi! –
Prese il primo disco che gli capitò, anzi, cercò di prenderlo perché non si staccò dalla parete dove aveva il suo posto.
Allora si volse e cercò di fermare il piatto, ma non ci riuscì. Diresse la sua furia contro il braccio, cercando di sollevarlo dal disco in movimento, ma non arrivò fino ad esso.
La musica era ora cambiata e s’era fatta dolce, incantevole. Le sue mani contratte ad artiglio si addolcirono, così pure la curva delle sopracciglia si lisciò e Peter cominciò a danzare. Lentamente i suoi propositi scemarono fuori della sua mente e si ritrovò libero da quell’incantesimo.
Immediatamente ritentò, ma la dolce musica lo attanagliò nuovamente, privandolo sempre dell’energia necessaria per compiere il suo proposito.
Riprovò altre tre volte, per poi arrendersi.
- Perché non approfittare della situazione? – pensò e, come aveva fatto in precedenza, usò
la forza della musica e tentò di indirizzare sul piatto un disco in particolare.
Dopo alcuni tentativi poteva cambiare canzone e album a piacimento.
Un piano diabolico s’era fatto strada nella sua mente. Mise un disco a caso sul piatto e tornò dall’essere nella stanza accanto.
Lo trovò sveglio, ma ancora debole per lo sforzo compiuto per trasportare Peter fino lì.
- Chi siete? –
- Siamo… sono Verità… -
- Chi ti comanda? –
- Nessuno… no, sono Verità e quello che dico non… non possono essere menzogne –
- Parla dunque –
- Siamo… siamo l’energia della vostra mente che costruisce un mondo a se –
- Non ci credo –
Un’emozione violenta si scatenò nell’essere.
- Siamo… -
- Non importa, di solo ai tuoi padroni che… bah, lascia perdere – e tornò nell’altra sala.
Come prima si concentrò e mise un altro disco sul piatto, uno dei suoi preferiti. Aveva notato che quella era la sua collezione, ma non una raccolta come la sua, ma proprio i suoi o copie identiche.
Si distese a terra vicino al braccio del giradischi e ascoltò attentamente.
La musica si sviluppò lenta, per poi crescere con pezzi di chitarra elettrica, per poi cadere in calde atmosfere di tastiere. Un disco molto vario, un bel disco, eccellente… ma con un unico difetto.
Eccolo!
Peter balzò in piedi, le mani protese verso il braccio. Per un attimo stette fermo, ma quando l’eco della musica ormai finita si spense, poté muoversi. Raggiunse il braccio, lo sollevò e lo torse, spezzandolo.
Non ci sarebbe stata più musica!
Lentamente tutto si sfuocò attorno a lui e… e si ritrovò a casa.
Con gioia profonda si alzò in piedi ad osservare la sua tanto amata stanza.
“Che bello essere nuovamente a casa” pensò, sentendo le allegre voci della famiglia Bocchi.
E prima di tornare a studiare, prese dalla sua grande collezione quel disco in particolare. Lo rigirò tra le mani, lo studiò a fondo.
Un gran bel disco, ma con un inconveniente: un graffio, piccolo, ma profondo.
Era inevitabile che la puntina del giradischi si bloccasse in quel punto!





Il turista chiuse il libro.
- Discreto – mormorò e dalla piega che prese la sua bocca si capì che quella non era la sua letteratura preferita.
Con un sospiro e con gli occhi rossi dallo sforzo si abbandonò contro la soffice poltrona della pinacoteca della National Gallery of London.
Si alzò poco dopo e riprese la visita. Aveva voluto terminare quel libro per poterlo finalmente riporre nella borsa in albergo.
Fu, un quadro ad interessarlo particolarmente, un quadro di un autore olandese: M. Hobbema.
Il quadro si intitolava “Strada tra i pioppi”.
Esili alberi contorti cintavano una strada di campagna, una campagna olandese così simile a quella fiamminga che tanto amava.
Cieli pieni di nubi bianche si rincorrevano in un azzurro luminoso, quasi bianco.
La stretta V della strada dipinta lo induceva ad un’attenta analisi del paesaggio che s’intravedeva al termine della stessa.
Si avvicinò e lo studiò attentamente.
La stanchezza della visita aveva reso la sua vista debole, complice la lettura.
Spinse lo sguardo stanco lungo la via alberata, mentre la stanchezza lo divorava, fiaccandolo.
Lentamente, come una persona vera, percorse mentalmente quella via campagnola, addentrandosi nel quadro.
Come un torpore, che sapeva di calda bambagia, avvolse la sua mente e… toh, un pioppo era passato alla sua sinistra.
Ma non c’erano pioppi nella National Gallery!
Si guardò attorno, stancamente e vide quel cielo biancastro, sentì la brezza leggera sul volto, brezza che portava tutti gli odori della campagna.
I suoi occhi si dilatarono dal terrore!
Un rumore lo distolse dall’incantesimo esercitato dal quadro.
Ruotò su se stesso e riconobbe la sala della pinacoteca, il libro appena letto giaceva per terra. Era stato il tonfo della sua caduta che lo aveva distratto.
Urlando di terrore fuggì da quel luogo, da quel quadro, da quell’oblio.





Un sottile raggio di luce bianchissimo uscì dal fondo della strada dipinta e colpì il libro.
Lentamente questi si sollevò e, sempre investito dal raggio, si avvicinò al quadro rimpicciolendo e… scomparve nel suo interno.
- Meglio non lasciare prove in circolazione del nostro esperimento. Siamo ancora troppo deboli per cominciare la conquista con un piano sbagliato – disse la cosa color zafferano nel centro della strada dipinta, prima di scomparire, ancora con il libro sotto al braccio.


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