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Inserito Giovedì 18 marzo 2004

Narrativa Racconto di Claudio Tanari

Da un quarto d’ora navigavano nel tramonto, che arrossava la fiancata dell’overbus; verso sud la valle si era sciolta nella foschia dell’orizzonte piatto, monotono. Più in alto nuvole di calore e un’atmosfera spessa da cui un bagliore d’intensità pulsante, purpurea, segnalava la posizione della cupola da riposo. I tre vulcani Arsia, Pavonis e Ascraeus, della consistenza di un miraggio, recuperarono lentamente la loro dimensione fisica: lungo i fianchi solchi scavati milioni di anni prima da grani di polvere incandescente che erano scivolati verso l’altopiano.

- Guarda, Bruno: siamo arrivati.

Ilsa, che aveva seguito accanto a lui le ultime fasi del viaggio, indicò le luci della Cupola Hellas e la scia luminosa del faro mentre l’imbarcazione si preparava con calma ad attraccare, lasciando depositare la polvere sollevata dai motori, nell’eccitazione dell’equipaggio e dei passeggeri.

Percorsero la strada dall’approdo in leggera salita verso il loro alloggio, dove trovarono il giardino avvolto nell’oscurità, sul tavolo all’aperto un messaggio di benvenuto e una bottiglia di vino.

- La cisterna è piena! - gridò Ilsa. Vado a fare una doccia!

- Aspetta, vieni qui.

Lei si era già liberata del vestito leggero scoprendo i seni chiari: un leggero sudore luccicava sulla pelle e le incollava i capelli sulla nuca.

- Che intenzioni hai? - sorrise Ilsa dirigendosi verso il letto.

Lui le accarezzò il collo.

- Ma sono sudata, aspetta...- la donna si sottrasse sorridendo accanto alla finestra tra le valigie da disfare, poi si arrese agli abbracci, finì di svestirsi; a luci spente Bruno riconobbe le forme della moglie.

Quando Ilsa si addormentò, Bruno rimase a guardarne la posa scomposta, le cosce, i seni appesantiti nell’abbandono: da tempo i mutamenti di quel corpo erano diventati più visibili, la pienezza delle curve stava cedendo il posto ad una specie di eccessiva floridezza; si alzò dal letto in silenzio, imbarazzato della sua stessa goffa nudità.

Fuori, dietro l’oblò, la massa scura di Arsia celava una parte del cielo stellato; il ronzio del condizionatore gli conciliò il sonno.

Fu svegliato dalla voce di Ilsa che parlava con Frank.

Dall’oblò una striscia di sole attraversava le lenzuola; guardò l’orologio, si alzò uscendo sulla veranda in ombra.

- Dottor Boschi, ben svegliato!

- Ciao Frank, da quanto tempo...

- Dall’estate scorsa, più o meno.

- Accidenti: è un anno che non venivamo?

- Colpa tua, intervenne Ilsa, e dei tuoi convegni sulla Terra. Frank ci ha procurato una lancia a impulsi.

- Questa è una buona notizia! Possiamo vederla?

- Giù al porto: sembra nuova.

- Andiamo subito, allora! Tra un’ora al Molo B.

- Va bene. Arrivederci, signora Boschi.

- Arrivederci, Frank, e mi saluti Nina.

- Senz’altro.

- Ciao, Frank: tra un’ora.

- Certo, dottor Boschi.

Vista dalla strada l’alloggio si presentava come un basso cubo preceduto dai pilastri massicci; sul tetto, sormontato dalla gobba di una cisterna, spuntava la chioma di un gelso che si sporgeva sulla cenere di un giardino ricco di piante testarde. Su tutto, l’opalescenza traslucida della cupola e il giallo del cielo.

L’attenzione di Bruno si rivolse al vulcano la cui cima, visibile da qualsiasi punto della pianura, era appena velata da nuvole trasparenti. Percorse il breve tratto di strada fino all’incrocio con la via principale, che tagliava l’abitato dall’Osservatorio, proprio davanti al cratere Arsia. Sulla sinistra gli spazi lasciati scoperti tra la parete curva della cupola e gli alloggi facevano scorgere a tratti la distesa color ruggine della superficie di Marte; a destra, in leggero pendio, rocce e sedimenti.

Quando tornò il modulo abitativo era immerso in un biancore violento. Ilsa era accompagnata da Pierre, che le mostrava i progressi delle verdure idroponiche nell’orto. Il gelso copriva buona parte del terreno di fronte alla veranda con la sua ombra, ai piedi dell’albero le more mature macchiavano il lastricato di rosso.

Ilsa assaggiò una mora; un’altra le si disfece tra le dita.

Il pareo arancione sarebbe stato il suo unico abito durante la permanenza nella cupola; tra poco avrebbe abbandonato anche le scarpe. Si sfilò i sandali assaporando la sensazione del contatto ruvido e caldo con la pietra, poi accomiatò Pierre che continuava a guardarle sorridente i piedi. Salì sul tetto liscio della casa: da lassù si poteva scorgere il tessuto variegato dei tetti degli alloggi. Per Ilsa la cupola significava il compimento di quel lungo sogno che era stata la sua infanzia: il lavoro del padre al completamento della terraformazione, gli studi di biologia spaziale, il matrimonio con Bruno, un geologo anche lui innamorato di Marte. Si spogliò sul materassino scolorito vicino alla cisterna: restò a guardarsi la pelle bianca con gli occhi socchiusi, lasciando che una mano scivolasse di lato sulla parete liscia del tetto.

La giornata alle pendici dell’Olympus con Frank si era conclusa felicemente: Bruno era eccitato e bruciato dal sole, Frank lo osservava divertito bevendo vino e gettando qualche occhiata sorridente verso Nina e Ilsa, che ridevano gettando la testa all’indietro.

Domani conoscerete Alta.

Chi? - Risposero quasi al’unisono Ilsa e Bruno.

Una biomec: è al seguito del Professor Korda… - ridacciò Frank. Verranno a stare proprio qui, vicino a voi…

Oddìo: quei… cosi mi imbarazzano sempre un po’ – fece Bruno.

Ma dài! Io ci ho lavorato spesso: assolutamente affidabili, infaticabili… - disse Ilsa.

Ecco lo spirito teutonico… - replicò Bruno sorridendo.

Hai detto che si chiama… Alta? - Si illuminò Ilsa - Ma sì! Mi sembrava di conoscerla: ha collaborato al collaudo del nuovo ricettore neurale, due o tre anni fa. C’ero anch’io nell’equipe di Korda.

Alta li salutò da lontano: aveva indosso un vestito leggero e corto con le spalline e ai piedi un paio di grosse e alte scarpe da ginnastica: i capelli neri corti, il petto esile e l’andatura atletica le davano l’aspetto di un ragazzo, subito contraddetto dalle gambe lunghe e sottili e dalla vita snella ed elastica. La bocca, dalle labbra carnose era schiusa in un sorriso, mentre fissava, quasi scrutandola, Ilsa, che del resto faceva altrettanto con lei: sembrava volessero misurare la distanza tra l’umano e il non umano, colmandola velocemente nei pochi metri che ancora le dividevano.

- Ciao…

Le due donne si abbracciarono dopo un attimo di esitazione...

- E questo sarebbe il famoso Bruno! - Lo squadrò per un attimo, prima di appoggiare la guancia sulla sua in un bacio distratto, preferendo subito dopo tornare su Ilsa.

- Devi raccontarmi un sacco di cose.

- Anche tu. Come va il lavoro all’Università?

- Le solite cose. Il Prof Korda ha collaudato un nuovo sistema di trasmissione. Mi ha piantato qui per una riunione ristretta su Luna 3.

Si avviarono verso casa mentre sul molo stavano accendendosi i lampioni al neon.

- Ti ricordi la prima volta che ci siamo conosciute? Eri stata appena...

- Sì, attivata! Da appena qualche giorno.

- Quattro anni fa: mi sarei sposata la primavera successiva.

- Caro Bruno, la tua Ilsa quell’anno si scatenò! Adesso non lo vuole dire ma in quel convegno in Bretagna...

- Ma dài...- si schermì Ilsa.

- Ops! Dimentico la gelosia retroattiva del maschio latino… ridacchiò Alta.

Alla fine della cena gli occhi neri della biomec si erano fatti lucidi grazie anche ai bicchieri di vino che avevano accompagnato il pasto. Alta accese una sigaretta offrendone una alla sua amica, che la accettò.

- Da quando fumi? - chiese il marito ad Ilsa.

- Eh, Bruno, quante cose non sai di tua moglie - rispose la giovane ospite aspirando una boccata di fumo e accavallando le gambe.

L’uomo si ritirò in cucina e stette per un po’ a guardarle da dietro la persiana: Ilsa aveva già contagiato Alta con la sua abitudine dei piedi scalzi ed entrambe, alzatesi da tavola, erano sulle poltrone di vimini con i piedi sulla seduta, accoccolate una di fronte all’altra, in una conversazione fitta. Ilsa gesticolava vivacemente nel parlare e Alta l’ascoltava a volte seria, il palmo della mano a sorreggere la guancia, più spesso sorpresa, arricciando il labbro superiore nel ridere e soffiando lontano il fumo della sigaretta; poi era il suo turno di raccontare e lo faceva stringendosi le gambe e poggiando il mento sulle ginocchia unite, lo sguardo diretto verso il pavimento.

Bruno ascoltò a lungo le loro voci abbassarsi di tono o esplodere in una risata o accavallarsi in un bisticcio divertito, quindi le sentì sfumare impercettibilmente prima di addormentarsi.

L’indomani partirono per una gita di un giorno al lago artificiale di Isidis. Poggiarono la lancia su un pianoro isolato cui le concrezioni di zolfo davano una colorazione giallastra. Alta li aiutò a svestire le tute: entrati nella grande cupola si liberò subito, spinta da Ilsa, del costume rivelando un corpo pallido da adolescente; sui seni, appena accennati, le areole appuntite e brune si inturgidirono a contatto con le onde, che lambirono il piccolo pube, prominente e nero.

- Bruno, non vieni? - fu scosso dalle voci delle due donne che lo invitavano a fare un bagno.

- Andate pure, vi raggiungo.

Il dorso ampio di Ilsa, i suoi fianchi floridi si accompagnavano alle natiche asciutte e nervose di Alta e alla sua schiena da cui emergevano, appena rilevate, le scapole.

Quando si allontanarono dalla spiaggia, l’uomo si avvicinò ad una piccola depressione incorniciata dal giallo dello zolfo affiorato e immerse le dita nel molle terriccio color ruggine del fondo avvertendo immediatamente il calore umido provocato dalle esalazioni di cui anche il fondo del lago era ricco, come testimoniavano le bolle di gas che emergevano di tanto in tanto in acqua.

Ad un tratto, fu attirato dalle grida eccitate di Ilsa e Alta che provenivano da dietro uno sperone di roccia lungo la riva; corse in quella direzione e, scavalcato a nuoto lo scoglio, le vide sdraiate a pelo d’acqua all’interno di una vasca naturale dal fondale basso, i corpi rossi di fango.

- Che faccia che hai! Fa bene alla pelle! - esclamò Alta.

- Dài, Bruno, che facciamo la cura anche a te! - aggiunse Ilsa.

Rimase incantato a guardarle: Ilsa stava massaggiando il seno e il ventre di Alta e intanto quest’ultima, raccolta una manciata dello stesso fango, le tracciava sul volto, ridendo, dei segni; anche i capelli subirono lo stesso trattamento, rimanendo impastati di quel pigmento.

- Se pensate di coinvolgermi in questa cosa, vi sbagliate di grosso. - si schermì celando a malapena un evidente turbamento. Il fango, rapprendendosi, assumeva una colorazione ocra, sui volti trasformati in maschere gli occhi vivaci e i denti candidi dietro le labbra sorridenti brillavano di una luce più intensa: avevano assunto l’aspetto di due creature aliene. La sua eccitazione non era passata inosservata: Alta restò a studiarlo in acqua anche quando Ilsa si allontanò verso le stuoie, oltre la lingua di roccia; Bruno si immerse e la affiancò: il pube e i capelli di Alta avevano l’aspetto di fili metallici ossidati e contorti, l’acqua lavava via il rosso che stingeva scoprendo la pelle lucida. Ilsa li osservava, una piega amara sul volto.

Siete mai saliti su Pavonis? - aveva chiesto Alta d’un tratto spezzando il languore di quel pomeriggio.

Ilsa e Bruno si guardarono sorridendo: - Se ci siamo mai andati? La prima volta che mettemmo piede su Marte - rispose Ilsa.

- No, senti: ci siamo arrampicati lassù almeno due o tre volte... – fece pigramente Bruno.

- Vado subito in paese: insomma, Bruno, non vorrai mica farci andare sole - fece con impazienza Alta.

- Veramente non ho ancora detto di sì! - sorrise Ilsa accondiscendente all’eccitazione della ragazza.

Quel pomeriggio Ilsa e Bruno giacevano nel torpore: Ilsa sembrava dormire, completamente nuda e sprofondata nella sdraio: il suo corpo abbandonato metteva in evidenza le pieghe del ventre e l’abbondanza delle braccia cadute dai braccioli della sedia. Alta si trovava sotto il gelso con indosso soltanto dei calzoni corti dai risvolti arrotolati a scoprire il più possibile le cosce: aveva preso a cogliere le more che pendevano dai rami bassi dell’albero.

Bruno si alzò dalla sdraio avvicinandosi alla ragazza: le mani di lei, gli angoli della bocca erano tinti dalle more sfatte che teneva nelle mani giunte a coppa proprio sotto i seni dai capezzoli scuri e lisci, anch’essi solcati da gocce di sugo violaceo; Alta tese le braccia verso di lui offrendogli i frutti divertita, l’uomo afferrò una manciata di more portandosele alla bocca e imbrattandosi del loro succo, lei gli prese una mano e, con gli occhi socchiusi dalla luce del sole, se la portò alla bocca succhiandogli le dita con le labbra strette, in un gesto infantile.

Ilsa, apparentemente assopita, aveva assistito alla scena: il respiro regolare, la bocca semiaperta a simulare il sonno.

L’Osservatorio Esterno era l’ultima tappa prima del salto decisivo verso le bocche attive. L’edificio, un tempo utilizzato per attività di studio dei fenomeni eruttivi, si sporgeva da una terrazza naturale su vecchi crateri ormai spenti. I tre avevano lasciato il paese nella tarda mattinata: le strutture bianche della base apparivano ancora sospese in una sorta di dormiveglia. Bruno infagottato nella sua tuta per le attività esterne, aveva davanti a sé lo zainetto colorato di Alta le cui gambe snelle, terminavano dentro due grosse scarpe da ginnastica nere; ne seguì per un po’ l’andatura: nello sforzo della salita i glutei tendevano il tessuto leggero dei pantaloncini che le scoprivano le natiche fin dove una linea mobile le separava dallo cosce da adolescente; la canottiera le scopriva una striscia della schiena elastica, sulla nuca i capelli aderivano al collo sottile. Le si avvicinò d’istinto, quasi a volerla toccare.

- Come va? - le chiese attraverso l’interfono.

- E tu? - Per due vecchietti come voi è una bella fatica, eh? Però Ilsa, che passo...

- Guardavo le tue gambe - la interruppe.

- Lo so... - fece lei abbassando la voce.

Terminato il passaggio in terra battuta a tratti lastricata di basalto, il sentiero si stringeva insinuandosi tra le pendici del vulcano. Alla fatica dell’arrampicata, che durava ormai da un paio d’ore, si aggiungeva l’aria umida e calda, quasi tangibile, all’interno del casco. All’improvviso, in corrispondenza di una angusta radura, un boato sordo dal crinale della montagna annunciò la presenza ormai vicina delle bocche attive. Bruno fissò di nuovo Alta: le braccia sollevate ed intrecciate dietro la nuca, a mostrare le ascelle ombrate da una rada peluria; la canottiera lasciava ora intravedere dalla sua scollatura il biancore dei seni appuntiti. Ilsa colse lo sguardo di Bruno all’indirizzo della ragazza: Alta, libera da tuta e casco di cui non aveva bisogno, lei impacciata dal gonfio guscio sintetico che le permetteva di respirare e di non morire di freddo... non era la prima volta che Bruno era attratto dalla bellezza di un’altra donna e non sarebbe probabilmente stata l’ultima. Stavolta però era diverso: se in precedenza Bruno aveva cercato le sue amanti occasionali tra le quarantenni colleghe di Ilsa, ora la scelta di Alta significava qualcosa di più, un confronto temuto da quando quel corpo fatto di reti bioniche e neurali aveva messo piede sull’isola: una biomec non invecchia…

Le bocche eruttive esalavano ritmicamente un respiro possente: i volti dei tre apparivano a tratti abbagliate dalle esplosioni. Bruno guardava spesso Alta, alle prese con la macchina olografica; lo sguardo di Ilsa si sollevò stancamente dallo spettacolo naturale che si spalancava ai loro piedi: fissò a lungo Bruno, poi si posò sulle linee flessuose di Alta. La donna inspirò profondamente quindi avanzò in direzione di Alta. Bruno si rese conto improvvisamente delle intenzioni della moglie: la biomec era in piedi proprio sul ciglio del costone di roccia che dominava l’abisso del cratere di Pavonis; percepì il movimento di Ilsa, la vide avanzare, ferma e decisa. La spinta di Ilsa le fece perdere l’equilibrio: lentamente, poi sempre più rovinosamente precipitò giù, verso le fontane di magma, le dita che artigliavano meccanicamente e inutilmente la cenere. Un attimo prima della caduta, Ilsa aveva letto sul viso di Alta un ultimo sorriso, sorpreso e incredulo.

Il cupo silenzio del viaggio di ritorno si sciolse a fatica una volta rientrati ad Hellas. Certo, si trattava ora di spiegare l’accaduto a Korda, presentandolo come un malaugurato incidente: Alta era un biomec dell’ultima generazione, estremamente versatile e capace di interagire a livelli cognitivi elevati… Ilsa colse il cruccio nell’espressione di Bruno e gli strinse la mano poggiata sul tavolo: lui alzò gli occhi, leggermente sollevato, per riabbassarli subito, colto da un’insopprimibile sensazione di disagio.

Lei si diresse sospirando verso l’oblò che guardava al tramonto di un sole lontano. La sagoma le parve dapprima un riflesso sul pannello trasparente che li separava dall’atmosfera marziana, ma poi ne indovinò i contorni, ancora riconoscibili: i brandelli carbonizzati di epidermide e di fibre pseudomuscolari che coprivano a malapena lo scheletro in osteolega… l’andatura non più spedita ma ancora sufficientemente elastica e, più da vicino, galleggiante sul teschio glabro e consunto, quel sorriso: sorpreso e incredulo.


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