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A Sudovest del Demavend

Inserito Giovedì 18 maggio 2006

Narrativa un racconto di Franco Ricciardiello (23-1-2001/20-5-2001)

Ancora prima di incontrare di persona la dottoressa Rowshan nella luce di menta e acqua di rose dietro la moschea di Qom, ebbi il facile presentimento che la donna più famosa del mondo avrebbe avuto la forza di affondare la repubblica degli ayatollah; ma solamente quando mi trovai in piedi davanti a lei nella sterminata folla di donne pronte a marciare capelli al vento su Teheran, credetti per davvero che durante le sue ricerche nei laboratori della Ericsson Genetics avesse scoperto il segreto della vita eterna.
Perché la dottoressa Rowshan era la donna più bella che avessi mai visto.

* * *

Ero arrivato in Iran con un volo da Roma; non dormivo da 72 ore, da quando mi aveva raggiunto la notizia dell'arresto di mio fratello Bruno per la sua relazione extraconiugale con una donna che, nel XXI secolo, rischiava la pena di morte.
Ad aspettarmi agli arrivi internazionali trovai l'avvocato che Amnesty aveva procurato a Bruno, una donna dalla carnagione chiara e dai lineamenti regolari che parlando un italiano corretto si presentò come N.Foroudi.
— Per cosa sta la "N"? — domandai, ricordandomi di non stringerle la mano.
— Sta per "non chiederlo" — rispose senza perdere il sorriso, con un leggero accento toscano che mi parve vagamente derisorio.
La seguii nel parcheggio dell'aeroporto, notando che indossava, come tutte le donne, un foulard che le copriva collo e capelli e un largo camicione fino al ginocchio. Però poteva guidare personalmente l'automobile, a differenza di quello avevo visto durante la mia permanenza di lavoro in Arabia Saudita.
Mentre N.Foroudi apriva la portiera della sua Renault, nel caos di vento e voci del parcheggio, alzai il capo verso il cielo incredibilmente terso. Mi trovavo nella repubblica degli ayatollah, la teocrazia sciita che impediva alle donne di avere relazioni con gli stranieri; eppure, l'aria aveva un sapore dolce di limone e cannella, il vento era tiepido e piacevole, e non sentivo nessuna pressione psicologica.
— Abbiamo appuntamento in carcere tra trenta minuti — disse N.Foroudi immettendosi nel traffico caotico della periferia.
Una serie di autostrade a più corsie ci trasportò in un fiume di automobili verso il centro di Teheran; tenni il finestrino aperto per il gran calore, anche se l'ossido di carbonio invase l'abitacolo. Il perimetro della città sembrava un gomitolo di autostrade senza fine, una babele di snodi, svincoli e deviazioni.
— Quali sono le prospettive del processo? — domandai.
L'avvocato sembrò pensarci su, come se non fosse sicura di avere capito.
— Probabilmente suo fratello sarà condannato e poi espulso, ma Sheyda rischia la pena capitale — rispose senza giri di parole.
Sentii un fremito di indignazione nelle ossa.
— Non avete mai sentito parlare di diritti umani, da queste parti? — dissi seccamente, prima di ricordare che il suo nome mi era stato fornito da Amnesty.
— Ne sentiamo parlare tutti i giorni, signor Mattei — rispose con un sorriso condiscendente nel profilo di limone e sole del finestrino. — La differenza è che per lei sono solo due parole, un concetto astratto, una coccarda da appuntare sulla giacca come la lotta all'Aids o le foche dell'Alaska da salvare. Per noi invece sono il pane quotidiano.
Arrivammo alla prigione in ritardo. Le guardie in divisa sembravano piuttosto indolenti, come incredule di essere rinchiuse fra quattro mura in una giornata in cui gli amici e i parenti salivano in auto per i picnic sulle colline di Shemiran. Pareva conoscessero già N.Foroudi; controllarono i miei documenti e dopo pochi minuti entrammo nel parlatorio.
Bruno non sembrava provato dalla detenzione. Ci sporgemmo sopra il banco di piastrelle per abbracciarci, entrambi con le lacrime agli occhi. L'avvocato sedette al tavolo con me, senza stringergli la mano.
— Signor Mattei — disse dopo i soliti convenevoli che, avrei imparato, erano inevitabili in Iran. — L'istanza di scarcerazione è stata respinta questa mattina dal tribunale islamico.
— E Sheyda? — domandò Bruno interrompendola.
N.Foroudi sospirò, togliendosi gli occhiali cerchiati di metallo per pulirli con un angolo del foulard. Non rispose, ma il suo sguardo mi ricordava ciò che già aveva detto durante il viaggio: "Le donne non possono diventare giudici in Iran".
Bruno si appoggiò allo schienale.
— E il processo Rowshan? — domandò. — Qualche previsione sulla sentenza?
N.Foroudi sorrise senza allegria.
— Non so cosa augurarmi, signor Mattei — rispose con franchezza. — Se il tribunale di Qom assolve la dottoressa Rowshan, questo paese potrebbe diventare una polveriera. Il generale Behnia ha già dichiarato che impedirà l'esecuzione di qualsiasi fatwa, ma il presidente Hamedani si troverà fra incudine e martello. Non posso nasconderle che l'assoluzione della dottoressa Rowshan potrebbe complicare la situazione di Sheyda.
Non riuscivo a seguire il filo del discorso. Delle persone di cui discutevano, conoscevo solo il nome di Apasiri Rowshan, come lo conosceva tutto il mondo da un anno a quella parte, da quando la Ericsson Genetics aveva reso pubblici gli imprevedibili risultati delle ricerche sui vaccini commestibili. Sapevo che al suo ritorno in Iran la dottoressa Rowshan era stata accusata di bestemmia e che era in corso un processo, ma non vedevo correlazione con la storia di Sheyda e Bruno.
— Avvocato Foroudi, deve accompagnare mio fratello in prigione da Sheyda — disse Bruno alla fine del colloquio.
La donna annuì con una strana smorfia delle labbra.
— Ha detto la verità a mio fratello? — le domandai più tardi mentre mi accompagnava in auto al mio albergo.
Si voltò a guardarmi per controllare se scherzassi.
— Lei non conosce gli iraniani — rispose.
— Mi riferisco alla possibilità che quella Sheyda possa essere condannata a morte.
— La sentenza non verrebbe comunque eseguita — replicò.
Anche nelle vie del centro il traffico era caotico: pedoni ovunque ai lati delle strade, motorette che sorpassavano indifferentemente a destra o a sinistra, come parassiti intorno a pachidermi. Ovunque l'odore di vaniglia e curcuma. Era difficile vedere un vecchio in giro: i ragazzini erano tantissimi, numerosi come le mosche, e tanti giovani a testimoniare un'esplosione demografica senza paragone nel mondo.
— Cosa c'entra la Rowshan con mio fratello?
N.Foroudi scosse il capo. — La politica in Iran non è mai stata complicata come in questo momento. Sarebbe molto lungo da spiegare.
Sporsi un braccio fuori dal finestrino, costringendo una motociclista con il casco allacciato sopra il foulard a scartare.
— Io non ho fretta — dissi indicando l'entrata di quello che sembrava un locale pubblico. — E per l'hotel è ancora presto. Fermiamoci, così mi racconterà.

* * *

La chay-khaneh, la sala da tè, aveva le pareti interamente ricoperte di oggetti: teiere appese a chiodi, quadri di uomini con barba e turbante e donne dagli occhi nocciola, bottigliette di vetro colorato, piatti di rame e argento sbalzato. Il profumo di menta e di agrumi era fortissimo.
Badando con cura a non lasciarsi sfiorare da me mentre passavamo tra i tavolini, N.Foroudi mi guidò verso un angolo in penombra, dove ci raggiungeva di riflesso la luce di una finestrella sagomata a ogiva. Il padrone era un vecchio magro e sdentato con le nevi del Demavend negli occhi; sollevò la grossa teiera posata alla sommità di un samovar al centro del locale, versando in un bicchierino di vetro due dita di tè scurissimo. Si voltò per osservare il liquido in controluce, grattandosi la barba, evidentemente soddisfatto perché riempì a metà due bicchieri con il bordo profilato in argento, tagliò il tè forte con acqua bollente spillata dal samovar e ce lo portò al tavolo strascicando i piedi.
Nel tè, dolcissimo e con un profumo di menta selvatica che mi riportò all'infanzia, galleggiavano isole di pinoli chiari.
— Il processo alla dottoressa Rowshan è una resa dei conti politica — cominciò a raccontare l'avvocato a bassa voce, sorseggiando il suo tè torbido di zucchero. — È tornata dalla Svezia in Iran appositamente per sfidare la ierarchia degli ayatollah. Il governo riformatore oggi non ha più l'appoggio della maggioranza della popolazione, che è diventata impaziente: il presidente Hamedani è stato eletto soprattutto con il voto delle donne, ma sa di avere ottenuto un suffragio così ampio solo perché i partiti più radicali erano al bando. Adesso però il processo Rowshan rischia di rovesciare gli equilibri politici.
Non avevo mai bevuto un tè così buono in vita mia. Mi rilassai contro lo schienale della panca di legno, ascoltando la musica che aveva una ripetitività ipnotica. Mi domandai di che colore fossero i capelli dell'avvocato Foroudi.
— Se il tribunale condanna la dottoressa Rowshan, i conservatori riprenderanno forza e potrebbero chiedere le dimissioni del presidente Hamedani e nuove elezioni. Se invece viene assolta, i pasdaran minacciano di marciare su Qom per eseguire qualsiasi fatwa contro la dottoressa.
— Non capisco cosa c'entri il processo a mio fratello — dissi osservando il moto browniano dei pinoli nel tè.
— Non ho ancora finito. Il generale Behnia, comandante della piazza di Teheran, minaccia di fermare con i carri armati un eventuale colpo di mano dei pasdaran. Ma in questo modo il presidente Hamedani è preso fra l'incudine e il martello: se Ramin Behnia stronca con la forza la marcia degli integralisti su Qom per impedire l'esecuzione della fatwa, il resto dell'esercito rimarrà fedele al governo o si schiererà dalla parte dei conservatori? Potremmo avere giorni di disordini, addirittura combattimenti nelle strade.
— Ma non si toglie mai quel foulard? — domandai.
Batté le ciglia perplessa.
— E lei sarebbe quello che vuole insegnarmi qualcosa sui diritti umani? — commentò a se stessa a bassa voce, poi rispose: — Questo si chiama roussari, è obbligatorio in pubblico per tutte le donne. Turiste comprese.
— Dunque questo generale Behnia è un riformista? — sospirai, tornando al nostro discorso.
— Un radicale, direi.
— Ancora non vedo il nesso con Bruno.
L'avvocato Foroudi posò il bicchiere di vetro sul tavolo. Il tè era finito.
— Il generale Ramin Behnia è il padre di Sheyda, l'amante di suo fratello. — rispose.

* * *

Il mattino seguente mi svegliai al canto del muezzin, aprii le imposte di legno azzurro e mi affacciai su una sterminata distesa di abitazioni dal tetto a terrazza. Il sole filtrava attraverso una cappa di smog di dimensioni bibliche, la cacofonia di traffico di una città immensa mi stordiva insieme all'odore di sole e spezie.
Feci colazione, poi scesi in strada ad aspettare l'avvocato Foroudi. Le automobili non circolavano e c'era un insolito dispiegamento di forze dell'ordine. Un ufficiale di polizia mi fece capire in un misto di inglese e francese che per gli stranieri era consigliabile rientrare in albergo. Invece mi diressi verso il fondo della strada, sapevo che l'avvocato sarebbe arrivata da quella parte.
Oltrepassai un tratto di viale che era evidentemente stato teatro di un violento scontro tra la polizia e la folla, che aveva cercato di assaltare il centro culturale francese: le vetrine della libreria erano trasformate in ragnatele di crepe, le automobili erano rovesciate e incendiate, c'erano tracce di sangue davanti all'entrata.
Non potevo procedere oltre a causa dello sbarramento di polizia. Sentivo slogan urlati ad alta voce appena dietro l'edificio d'angolo, poi una torma di manifestanti sfilò a poca distanza mentre i poliziotti abbassavano le visiere oscillando i manganelli dietro gli scudi di plastica. Sopra gli elmetti neri vidi i ritratti di cartone degli imam sollevati a mano.
Un espositore di libri era rovesciato in terra davanti al centro culturale. Mi inginocchiai per dare un'occhiata mentre aspettavo che la strada si liberasse: c'erano parecchi classici francesi, ma la mia attenzione fu attratta dalla copertina di un brossurato, il primo piano di una donna dal viso incorniciato da un roussari colore smeraldo. Aveva una ciocca di capelli scuri, lineamenti perfetti e un paio di sorprendenti occhi verdi, malgrado si trattasse con ogni evidenza di un'iraniana. Il titolo era Nourrisserons l'Eternité, l'autrice Apasiri Rowshan.
Entrai nella libreria per acquistare il volume, i commessi sembravano scossi dalla recente violenza. Il proprietario, forse per scusarsi del disordine, non volle assolutamente che pagassi il libro.
Tornai in strada, scontrandomi quasi con N.Foroudi che si dirigeva a piedi verso il mio albergo.
— Ho parcheggiato la Renault su una via parallela — disse. — Possiamo andare a trovare Sheyda Behnia in prigione.
Ma quando arrivammo alla galera le autorità carcerarie non ci permisero di visitare la reclusa, temevano i disordini degli integralisti che si stavano avvicinando.
— La riporto in albergo, signor Mattei? — domandò l'avvocato.
— Penso che non possiamo perdere una giornata intera — risposi mostrandole il libro appena ricevuto in regalo.
Si aggiustò la montatura degli occhiali sul naso.
— In che senso, signor Mattei?
— Quando chilometri ci sono per Qom?
Sospirò visibilmente, come se temesse quella proposta.
— Poco meno di due ore in autostrada — rispose rassegnata.
Annuii. — Penso che potremmo impiegare proficuamente questa giornata con una visita alla dottoressa Rowshan. Non è atteso per oggi il verdetto della corte suprema?
— Spero si renda conto che a Qom potremmo trovarci in mezzo a disordini peggiori di questi.
Per aspera ad astra — risposi precedendola verso l'auto. — Attraverso le difficoltà alle stelle. O, come disse il vostro profeta, "il paradiso è all'ombra delle spade".
— Si direbbe che lei abbia imparato quello che sa dell'Islam dai film di Hollywood — commentò ironicamente l'avvocato Foroudi mentre mi seguiva.

* * *

Occorse più di un'ora di tangenziali per imboccare la strada verso sud. Rimpiansi che l'auto non avesse aria condizionata, ma era meglio non aprire i finestrini a causa dell'inquinamento atmosferico.
— Come si è cacciato in questo pasticcio, mio fratello? — domandai per rompere il silenzio.
N.Foroudi era chiusa in un silenzio preoccupato. — In Iran una donna non sposata non può avere rapporti con un uomo. Tantomeno uno straniero.
— Qualcuno ha fatto la spia?
— Sheyda è una ragazza ingenua — rispose l'avvocato con un sorriso tollerante. — Ogni volta che suo fratello tornava a Teheran per lavoro, lei lo aspettava all'aeroporto, fino a che non è stata notata dalle guardie rivoluzionarie. Ha confessato subito.
Superammo un convoglio di veicoli militari diretto a sud. N.Foroudi sembrò ancora più preoccupata quando vide le insegne sulle portiere dei mezzi.
— Guardie rivoluzionarie? — domandai.
Scosse il capo.
— Sono gli uomini di Ramin Behnia, la guarnigione di Teheran. Non riesco a capire perché si stiano allontanando dalla capitale.
Accese la radio, ma apparentemente c'era solo musica cantata.
Cominciai a sfogliare il libro della dottoressa Rowshan. Malgrado la sua fama internazionale, di lei sapevo ben poco oltre alle scarne notizie di telegiornale o alle didascalie dei rotocalchi di costume: aveva vinto il premio Nobel per la medicina con le sue ricerche sul gene anti invecchiamento, ribattezzato romanticamente dai mezzi di informazione "segreto della vita eterna". Il libro parlava dei suoi studi nel campo dei vaccini alimentari, una branca della genetica che si occupa dell'immunizzazione alle malattie per mezzo di alimenti: patate, pomodori, banane combinati geneticamente con V.choleræ, E.coli e batteri di altre malattie endemiche, assorbiti dall'intestino per produrre anticorpi. In tutti i casi in cui i vaccini a inoculazione erano costosi o inefficaci, la diffusione di cibi geneticamente modificati era divenuta la soluzione più pratica: basta tagliare una foglia di patata da esporre a contatto di batteri con geni codificatori per l'antigene desiderato ma antibiotico-resistenti, poi un antibiotico distrugge le cellule non modificate; le altre si moltiplicano in soluzione fino a germogliare una piantina di patate-vaccino. La dottoressa Rowshan aveva salvato la vita di milioni di bambini in Asia e Africa.
N.Foroudi riuscì finalmente a trovare un notiziario radio; ascoltò attentamente mordendosi le labbra mentre scendevamo dall'altopiano rovente a sudovest del Demavend.
Continuai a sfogliare il libro.
Dopo i successi con i vaccini alimentari, la dottoressa Rowshan aveva continuato nella ricerca sugli alimenti geneticamente modificati: mais al silicio e riso al beta-carotene, poi dagli anti-ossidanti era passata ai geni anti invecchiamento, fino a che finalmente la Ericsson Genetics aveva rivelato alla stampa che Apasiri Rowshan testava su di sé i prodotti da almeno dieci anni, cioè dall'inizio delle ricerche sui vaccini. In quel periodo la sua età biologica non si era minimamente deteriorata: era come se le cellule su autorigenerassero.
La dottoressa Rowshan aveva scoperto il segreto della vita eterna.
— La corte suprema ha già pronunciato il verdetto — disse improvvisamente N.Foroudi traducendo la radio, mentre superavamo una colonna di autoblinde. — La dottoressa Rowshan è stata assolta.
Trassi un sospiro di sollievo.
— Grazie al suo paese a nome del resto del mondo, avvocato Non Chiedere. Mi pare che l'Iran si stia muovendo verso la democrazia.
Mi fulminò con lo sguardo.
— E se il prezzo fosse la guerra civile?
Allargai le braccia in un gesto di sconforto.
— Ma lei da che parte sta? — risposi alzando la voce. — È il difensore di mio fratello o dei pasdaran?
Ci chiudemmo in un mutismo ostinato e offeso. Incominciò a piovere, e superammo una lunga colonna di vecchi camion tinti di nero e grigio verde bloccata dai militari. Uomini con vestiti tradizionali e lunghe barbe ricce protestavano con gesti plateali, bagnati fino alle ossa, ma un posto di blocco con due enormi carri armati di fabbricazione russa permetteva solo il passaggio delle automobili. L'ufficiale ci guardò passare osservando con attenzione i nostri volti all'interno dei cristalli.
— Le guardie rivoluzionarie — commentò l'avvocato Foroudi a bassa voce, e poi ascoltando la radio: — Il presidente Hamedani ha promosso Behnia capo di stato maggiore dell'esercito, incaricandolo di impedire uno scontro tra i fondamentalisti e i sostenitori della dottoressa Rowshan.
— Bene! — esclamai. — È la sconfitta dei pasdaran, vero?
N.Foroudi scosse il capo.
— Hamedani vuole mettere alla prova i riformatori dell'esercito. Se il generale Behnia rifiuterà di fermare i radicali, sarà destituito e il potere tornerà all'associazione della coalizione islamica e agli altri partiti di destra. La situazione si complica ancora di più.
Ma non eravamo che all'inizio della guerra della dottoressa Rowshan con il governo, e ce ne rendemmo conto dopo pochi minuti. Dovemmo rallentare a un ingorgo, e quando riuscimmo ad avanzare in fila a passo d'uomo, mentre il primo raggio di sole bucava le nuvole che fuggivano verso il Caspio, ci trovammo a superare sbigottiti un'interminabile fila di donne a piedi, in marcia verso Qom.
E nemmeno una di loro aveva il capo coperto dal roussari.

* * *

Qom. Ho ripensato più volte, da quei giorni a oggi, a ciò che accadde a Qom. Per un certo periodo della mia via ci ho pensato ogni giorno: verso l'ora del tramonto, quando il cielo su Torino assume quel colore orientale indescrivibile a parole, e per qualche minuto la vita rimane sospesa tra il prima e l'eternità, quel momento in cui sembra di sentire il canto dei muezzin sui minareti di Qom.
E talvolta, in una riunione di lavoro o in una prospezione mineraria, in qualche terra a sud del lago Vittoria o nei deserti di sale e rame del Cile, il mio cuore si arresta per un momento, la luce si attenua e io torno con la memoria a Qom. Prima di conoscere Apasiri Rowshan ero solo un ingegnere minerario; dopo, sono diventato un uomo.
Dopo un'ora di coda, l'avvocato Foroudi fu costretta a lasciare la Renault ai bordi della strada e proseguimmo a piedi seguendo il movimento della folla. Mi assicurò che non mancava molto per arrivare al vaqf.
— Questa sì che è un'ottima notizia! — esclamai. — A proposito, si può sapere cosa diavolo è il vaqf?
Fece un gesto vago della mano mentre si sfilava per la prima volta in vita sua il roussari.
— Non ricordo come si dice in italiano. Manomorta? Una fondazione di carità in memoria di un imam.
Ma mi persi la sua risposta, assorbito dalla visione dei suoi capelli. Forse era merito del sole rosso all'orizzonte dell'altopiano, forse era colpa di quell'euforia di liberazione che sentivo nell'aria, anche senza comprendere una parola di farsi, ma rimasi per qualche attimo incantato a osservarla: aveva capelli castano scuro, con una tonalità di rosso, lunghi fino alle spalle, più curati della maggioranza delle altre donne. Sembrava l'unica che si vergognasse del fatto che la vedevo a capo scoperto, forse perché era l'unica che mi conoscesse.
Sembrava che gli uomini fossero improvvisamente scomparsi dall'Iran. Negli occhi di quelle donne di ogni età, ma soprattutto giovani (e ricordai che in Iran le persone con meno di 30 anni sono quasi metà della popolazione) che ci circondavano, vedevo una luce nuova, un'espressione mai vista né in occidente né durante i miei viaggi di lavoro in tutti i continenti. Non sembrava sollievo né liberazione, ma qualcosa di più indefinibile: le donne che si erano tolte il roussari per la prima volta in pubblico nella loro vita, sembravano divertirsi.
Cercai di non tenere gli occhi fissi su N.Foroudi.
La strada era bagnata, le finestre delle case tutte chiuse. Più avanti in direzione del vaqf sentivo l'eco di canti che sembravano antichi come la terra, inventati da qualche cortigiana o da qualche poeta eremita dei secoli passati. Un fiume di corpi in movimento ci guidava verso la moschea, una moltitudine immensa che avrebbe potuto schiacciare la patetica manifestazione della coalizione islamica come una scimmia avrebbe potuto schiacciare un pidocchio.
Era già sera quando raggiungemmo la moschea, dopo avere mangiato frutta secca e bevuto dough a un banco improvvisato gestito da donne a capo scoperto. Dietro la moschea, nel giardino di aranci e ciliegi sotto le finestre azzurre delle case, il tempo sembrava sospeso: le rondini volavano in ellissi, l'altoparlante del minareto taceva, forse il muezzin era fuggito per l'indignazione. La folla era attraversata da movimenti a spirale, correnti di donne che mi guardavano divertite. Gli uomini erano pochi, soprattutto ragazzi. Sentivo l'odore dei capelli di N.Foroudi che camminava un passo davanti a me; sembrava avesse usato uno shampoo di limone e menta. Sempre limone e menta, i profumi ufficiali a sudovest del Demavend.
Donne dai capelli corti con lunghe vesti colorate a festa, indossate sopra larghi pantaloni di cotone leggero, distribuivano frutta candita dal retro ribaltato di un camion.
— Ci sono i militari — disse Foroudi indicandomi qualcosa sopra la testa della folla.
Mi alzai in punta di piedi e scorsi le divise khaki su un automezzo. Ci dirigemmo da quella parte, a fatica. I soldati sembravano bambini sperduti nel bosco: sedevano sui parafanghi del camion, le divise trasandate e il berretto infilato nelle spalline, forse domandandosi come avessero fatto a finire in quella situazione.
— Sono uomini di Ramin Behnia — mi rassicurò N.Foroudi. — La guarnigione di Teheran.
L'ufficiale era una nostra vecchia conoscenza, il responsabile del posto di blocco che aveva fermato con i carri armati i pasdaran lungo la strada. N.Foroudi gli domandò qualcosa, lui indicò con il braccio un punto sopra la folla, in mezzo agli alberi di ciliegio.
— Avevano l'incarico di proteggere la dottoressa Rowshan e di scortarla a Teheran — mi disse all'orecchio l'avvocato e mi guidò prendendomi per un braccio. — Ma non sono nemmeno riusciti ad avvicinarsi. Adesso hanno paura di un attentato, si sentono responsabili della sua incolumità.
Era il primo contatto corporale che avessi con lei, ma nella calca era impossibile mantenere le distanze. Ci avvicinammo ai ciliegi, dove la folla sembrava ancora più densa. N.Foroudi si faceva largo gridando qualcosa alle donne che ondeggiavano cantando con le mani sollevate. Tenendomi incollato a lei, riuscimmo ad arrivare a ridosso di un basso muretto che circondava il giardino. Quando l'avvocato Foroudi parlava con le donne, quelle si scostavano guardandomi con stupore, e continuammo ad avvicinarci.
— Ma cosa sta dicendo? — domandai al suo orecchio.
— Oh, niente di particolare, ci lasciano passare perché sto dicendo che lei è il marito della dottoressa Rowshan.
Avrei voluto imbavagliarla con il roussari che adesso teneva sulle spalle.
E poi improvvisamente la vidi. Era in piedi su una panca di pietra, o forse un cenotafio, vestita con una lunga camicia color pesca. Le mani della folla si allungavano per toccarla, e lei tendeva le sue dita a sfiorare le dita delle donne. C'erano vecchie che piangevano all'ombra, ancora con il capo coperto; c'erano ragazzine arrampicate sui rami di un ciliegio che sventolavano il roussari fra le dita per attirare l'attenzione. C'erano donne che cantavano o pregavano, le rondini giravano in cielo, una donna con il chador e un aspersorio spruzzava i capelli delle altre di acqua di rose.
N.Foroudi riuscì a portarmi ai piedi della dottoressa Rowshan, ma in quel momento qualcuno le porse un microfono, e lei parlò dall'altoparlante alla sommità del minareto.
— Cosa sta dicendo? — domandai all'orecchio di N.Foroudi.
— Stia zitto per una volta, e mi lasci ascoltare.
Così vicino, riuscivo a vedere bene in volto la dottoressa Rowshan. E mentre parlava in quella lingua quasi dolce, una lingua menta e limone, compresi che aveva per davvero trovato il segreto della vita eterna, malgrado non esistessero ancora prove sugli effetti a lungo termine della sua scoperta. Perché Apasiri Rowshan era la donna più bella del mondo, molto più bella della copertina di Nourrisserons l'Eternité che avevo lasciato nell'auto di N.Foroudi o delle prime pagine dei rotocalchi occidentali dell'anno precedente.
Aveva occhi verdi e ciglia truccate dello stesso colore, con una linea luminosa sulle palpebre; portava drappeggiato intorno al collo un roussari scarlatto, e i suoi capelli erano spettinati dal vento di menta selvatica del giardino. Ma la cosa più straordinaria, la cosa che mi fece davvero pensare alla vita eterna, era che, malgrado sapessi che doveva avere almeno 40 anni, sembrava avere l'età di una studentessa universitaria.
— Rifiutarsi di coprire i capelli non è un traguardo, ma un simbolo — tradusse l'avvocato Foroudi. — Da oggi in poi, questo deve diventare il segno della nostra liberazione dalla paura. L'iran è un paese triste, Dio non è contento che i suoi figli prediletti vivano in una terra così triste.
Poi si voltò mentre la folla esplodeva in un boato di canti all'unisono, e strattonò la manica del vestito della dottoressa Rowshan. La donna sorrise piegandosi in due per accarezzarle i capelli, ma N.Foroudi le disse qualcosa in un orecchio e mi indicò.
E i suoi occhi incrociarono i miei. Sentii le gambe molli, la bocca asciutta e il cervello ridotto a un brodo di tartaruga. Apasiri Rowshan allungò una mano facendo cenno di avvicinarmi, ma non ricordo se qualcuno mi spinse perché non so se sarei stato in grado di muovere un passo.
You are Sheyda's brother-in-law, aren't you? — mi domandò.
Bzkfhr blzphr…— risposi, ma per fortuna l'avvocato Foroudi parlò al posto mio.
La dottoressa Rowshan annuì, disse qualcosa, poi si alzò in piedi con il microfono in mano e ricominciò a parlare alla folla, improvvisamente silenziosa.
Cercai di domandare spiegazioni a N.Foroudi, ma avevo la lingua spessa come un tronco.
Lei mi indicò la sommità del minareto, da dove la voce raggiungeva ogni angolo del giardino, dei cortili della moschea, della piazza intorno al vaqf.
— La corte suprema ha anticipato fra due giorni la sentenza per Sheyda Behnia — tradusse l'avvocato con uno sguardo preoccupato.
Le donne insorsero con un boato, sollevando voci acutissime verso il cielo, Apasiri Rowshan salutò l'ovazione con il microfono sollevato, poi sembrò all'improvviso che tutte avessero fretta.
— Ma cosa succede? — gridai nelle orecchie di Foroudi.
— La dottoressa Rowshan ha appena invitato le donne a marciare su Teheran per far sentire la loro solidarietà a Sheyda — rispose mordendosi il labbro. — Potrebbe essere l'inizio della guerra civile, signor Mattei.
Ma si sbagliava. Ci sbagliavamo tutti. Perché quella sera sotto i ciliegi della moschea di Qom, poche ore prima del tramonto dietro il Demavend, nessuno era in grado di prevedere il futuro.
Nessuno, tranne la dottoressa Rowshan.

* * *

Sono passati dieci anni. Ieri, ritornando a Teheran per la prima volta da allora, ho incontrato per caso il generale Behnia all'aeroporto. Tornava nella capitale da Bandar Khomeini, dove viveva da quando si era ritirato in pensione. Era la prima occasione in cui lo vedevo senza divisa: i capelli completamente bianchi sembravano innaturali senza il cappello a visiera rigida; portava occhiali scuri ed era evidente che non si era mai sottoposto a un trattamento anti invecchiamento.
Le sue guardie del corpo si avvicinarono minacciose, ma lui mi riconobbe subito e le allontanò con un gesto delle dita. Mi salutò con un breve sorriso stanco.
— Spero che suo fratello stia bene, signor Mattei — mi disse in inglese.
Sedemmo a bere un tè nel self service della sala d'attesa. Ripensai con nostalgia al mio primo tè in Iran, nella chay kaneh con l'avvocato N.Foroudi, al vecchio che osservava il liquido zuccherato in controluce, le nevi del Demavend scomposte nella lente naturale del bicchiere. Mi domandai cosa facesse in quel momento Non-chiedere Foroudi.
C'era tra me e il generale Behnia un velo di morte. Dieci anni prima, la cortina gelida era calata sulle nostre vite, la tragedia irreparabile e definitiva. Alzai gli occhi alla gigantografia murale della dottoressa Rowshan, sopra l'atrio partenze, bellissima come allora: gli occhi verdi, il roussari avvolto mollemente al collo come un fazzoletto partigiano.
— Mi sono sempre domandato una cosa, generale Behnia — dissi dopo la metà bicchiere. — Cosa sarebbe accaduto se dieci anni fa gli integralisti le avessero offerto di liberare sua figlia in cambio della sua rinuncia alla fedeltà al presidente?
La linea delle sue labbra si increspò per un momento, involontariamente, come nuvole di tempesta sul Demavend, e allora capii, capii tutto. Sentii un brivido lungo la spina dorsale, mi diedi dello stolto e mi domandai come avessi potuto non comprendere prima.
Non fu possibile domandargli altro perché la scorta ufficiale arrivò nella hall dell'aeroporto, gli ufficiali scattarono sull'attenti davanti al vecchio generale e Behnia mi offrì un passaggio sulla berlina di rappresentanza.
Teheran era assolutamente simile a se stessa e nello stesso tempo enormemente cambiata. Le stesse interminabili code di automobili impolverate, chilometri e chilometri di ferro e vetro arroventato sotto il sole, la polvere e lo smog di una città di milioni di abitanti, le palme e gli ulivi, le gigantografie con Apasiri Rowshan al posto dell'ayatollah Khomeini o del presidente Hamedani, il sorriso giovane e gli occhi verdi che mi avevano stregato. Mi domandai se fosse possibile distinguere quei ritratti alti come monumenti anche dai finestrini dell'aereo, durante il decollo.
La città era piena di ragazze in maniche di camicia, solo le donne anziane indossavano ancora il chador o il roussari. C'erano giovani dappertutto, figli dell'esplosione demografica di 15 o 20 anni prima, che durante la rivoluzione delle madri e delle sorelle maggiori erano solo bambini.
Ramin Behnia osservò in silenzio la sfilata della Teheran ufficiale dietro le palme, gli slogan sui palazzi alti trenta piani; lessi fuori dal finestrino parole isolate come "felicità" o "futuro", l'immensa capitale ottimista. I simboli del potere sembravano lontani, diluiti: i poliziotti erano rari, i militari quasi assenti, le guardie rivoluzionarie sconfitte dalla storia e ricacciate in periferia.
Imboccammo il viale della rivoluzione e la prospettiva si allargò. C'era una folla immensa, rami d'ulivo sventolavano sopra le teste, insieme alle bandiere verde smeraldo. La nostra auto si accodò a quello che sembrava un corteo ufficiale che avanzava a passo d'uomo verso un monumento altissimo che non avevo mai visto, un mausoleo, una fiamma di cemento e pietra. Le bandiere rosse, gialle e verdi frustavano l'aria, invasa dal clamore della folla. Il corteo si fermò ai piedi di una scalinata, mi accorsi che il picchetto d'onore era composto esclusivamente da donne soldato, le cui lance erano in realtà stendardi arrotolati. Mi domandai se l'Iran fosse divenuto una società matriarcale, e compresi tutta la forza della rivoluzione alla quale avevo avuto la fortuna di assistere.
Cominciammo a salire la scalinata. Mi sentivo frastornato dal jet lag e dall'occasione ufficiale. Sopra di noi, circondati da bandiere e da lunghi nastri di raso che ricopiavano gli slogan ottimisti della rivoluzione, c'era un nutrito gruppo di persone vestiti sia all'occidentale che con i tradizionali abiti iraniani. Salendo a fianco del generale Behnia, che salutò debolmente la folla, riconobbi l'ex presidente Hamedani, e qualche gradino più su mio fratello Bruno che mi aveva preceduto a Teheran di due giorni.
Ci salutammo solo con un gesto della mano anche se avrei voluto abbracciarlo in pubblico. Deglutii vedendo che al suo fianco c'era l'avvocato Foroudi, giovane come dieci anni prima, in quel paese che sembrava benedetto dal dono della vita eterna. Mi resi conto che mi mancava, che mi faceva immensamente piacere rivederla all'ombra fresca del Demavend. E come in sogno, tornai a sentire il profumo di menta di Qom, l'aria della sera agitata dalle mani di donna che applaudivano. N.Foroudi aveva un sorriso affascinante; mi prese le mani in un gesto che un tempo una donna non si sarebbe mai permessa in Iran, e mi guidò verso la sommità della scalinata.
Davvero mi sembrava un sogno. Mi voltai verso la piazza, c'era gente fino agli angoli più lontani, l'avanguardia della folla ci seguiva nell'ascesa verso il mausoleo. Entrammo sotto una cupola a ogiva, due fiamme di cemento si incontravano sopra le nostre teste, vidi il sarcofago di pietra al centro della costruzione. Un ritratto di Apasiri Rowshan penzolava dalla volta, la stessa foto della rivista francese.
Sentii il cuore battere forte, e un sentimento di rimpianto mi scavò dentro, tagliandomi le gambe. Mi mancava l'Iran. Mi mancava il mio momento di gloria, la marcia delle donne verso nord, i soldati confusi che tiravano i cappucci della divisa sulla testa mentre la pioggia cadeva sui carri armati. Bruno mi raggiunse e superò, seguito dal generale Behnia. C'era un gruppo di donne davanti al sarcofago, i roussari sui capelli forse per il rispetto che il luogo incuteva.
Si voltarono lentamente al nostro arrivo, mentre la volta si riempiva del suono di passi. La dottoressa Rowshan era la più alta fra di loro. Il suo raccoglimento si sciolse in un sorriso rassegnato quando la raggiungemmo. Io sentivo le gambe molli. Era ancora bellissima, come la gigantografia che pendeva sulle nostre teste, come quando i suoi occhi mi avevano colpito come un pugno allo stomaco nei giardini della moschea di Qom.
Mi tenne per un momento le mani, guardandomi dritto negli occhi, poi tutti insieme circondammo il sarcofago, dove giaceva l'unica vittima della rivoluzione, e mentre ci raccoglievamo qualche istante in silenzio tornai con la memoria a quando Sheyda Behnia era ancora viva.

* * *

Il cielo era assurdamente nuvoloso quando la marcia aveva raggiunto Teheran. Qualcuno vide in quel tempo assolutamente inusuale per l'altipiano un presagio, il segno del favore di Dio, e l'immenso seguito della dottoressa Rowshan si ingrossò ancora di più. I cumuli nembi si gonfiavano con il colore dell'antracite sopra le nostre teste, e potevamo sentire l'odore elettrico dell'ozono mentre il Demavend scompariva alla vista. Sembrava che l'intera periferia della capitale si fosse riversata in strada. C'erano facce curiose alle finestre delle case, donne per strada allungavano tè fresco e pasticcini ai marciatori, bande di giovani si univano a noi.
I militari della guarnigione cercarono di mettersi alla testa del corteo; il generale Behnia si mise in contatto con Apasiri Rowshan, la quale rifiutò la protezione dei militari.
— Cosa succede? — domandai all'avvocato Foroudi.
— Le forze armate dicono che i seguaci dell'Ansar-e Hizballah stanno alzando barricate nelle strade per fermare la nostra avanzata. La dottoressa Rowshan rifiuta l'intervento dell'esercito, ha paura che possa scoppiare una guerra civile.
Mi guardai intorno, nessuna donna sembrava aver perduto il sorriso ottimista di Qom, malgrado fossero tutte stanche. Adesso, le guardie rivoluzionarie avevano la scusa per scatenarsi sulla folla, poi avrebbero preso d'assalto il palazzo presidenziale normalizzando la situazione.
— E come farete a vincere senza esercito? — domandai sarcastico. — Darete l'assalto alle barricate?
N.Foroudi mi guardò con un'occhiata troppo soddisfatta.
— Siamo arrivate fino a qui come un fiume in piena, raccogliendo tutti gli affluenti; ma adesso siamo vicine alla foce, e ci spezzeremo come un delta.
Mi grattai perplesso la testa, faticando a capire, ma la strategia di Apasiri Rowshan fu degna di un capo militare; e così nelle ore successive, mentre il presidente Hamedani si recava a pregare in moschea perché non scoppiassero le ostilità, mentre i deputati della Majles-e-Shura-ye-Eslami erano riuniti in permanenza cercando di conciliare riformatori e conservatori, mentre il generale Behnia al telefono cercava di assicurare la neutralità dell'aviazione e muoveva le sue brigate per isolare militarmente le guardie rivoluzionarie, mentre l'ayatollah emanava la sua ultima, inutile fatwa contro la dottoressa Rowshan, mentre la Corte suprema rifiutava di convalidare la condanna a morte di Sheyda, mentre l'Associazione per la coalizione islamica occupava il carcere chiedendo al direttore la consegna della prigioniera, il milione di persone della marcia di sbriciolò in una moltiplicazione di rami. Attraverso decine e decine di strade parallele, attraverso i sobborghi e poi i viali e le arterie intorno al centro, paralizzando il traffico, aggirando le barricate, sfuggendo al controllo della guarnigione della capitale, il fiume si allargò come i rami di un albero, o i bracci di un delta che occupò la capitale immensa, ruscellando verso il palazzo presidenziale e il carcere.
Nulla e nessuno poté fermarci. Quando dopo poche ore raggiunsi il cuore della città insieme a N.Foroudi e alla dottoressa Rowshan, le guardie rivoluzionarie erano rimaste disperse alle nostre spalle, quasi senza violenza. Il generale Behnia aveva fatto occupare le emittenti radio e tv, ma ogni sua iniziativa rimaneva sempre e comunque un passo dietro Apasiri Rowshan. Sembrava che l'aria stessa fosse piena di suono e confusione, come se l'ordine della repubblica degli ayatollah fosse improvvisamente trasformato in un caos manicheo.
"Nulla può fermarci" ricordo che pensai con le lacrime agli occhi, al fianco dell'avvocato Foroudi, e poi accadde la cosa orribile. Superando la moschea dove il presidente Hamedani uscì controvoglia a benedire le donne in marcia, alzandosi in piedi su un carro armato sotto l'occhio delle televisioni occidentali, raggiungemmo la piazza del carcere.
Sheyda Behnia era stata impiccata all'asta della bandiera, un frutto amaro sopra la porta del tribunale. Gli Ansar-e Hizballah erano stati dispersi dalla folla, le guardie rivoluzionarie erano impotenti. Ma la sentenza contro Sheyda era stata eseguita con urgenza. Rimanemmo per qualche minuto a guardare con gli occhi pieni di lacrime l'unica vittima della rivoluzione. L'unica, perché quando la radio e la televisione nelle mani dei militari progressisti trasmisero la notizia, la capitale si paralizzò. Scesero tutti in strada, tutte le donne che erano rimaste chiuse dietro le finestre, tutti gli intellettuali, gli studenti universitari, i progressisti, e poi milioni di incerti che avevano seguito con diffidenza la marcia. Quando tutti videro l'immagine straziante di Sheyda giustiziata per vendetta, la repubblica degli ayatollah andò in pezzi. Se la dottoressa Rowshan non avesse lanciato appelli alla calma, probabilmente gli integralisti sarebbero stati fatti a pezzi. I militari circondarono come un anello la capitale, controllando i documenti e arrestando tutti i membri dei gruppi estremisti che cercavano la clandestinità. Il generale Behnia inviò truppe nelle capitali delle province, accettando la resa dei militari conservatori.
Sheyda Behnia fu tirata giù dal pennone della vergogna, trasportata al centro della piazza e vegliata tutta notte da donne in ginocchio, mentre i ragazzi delle periferie smantellavano il carcere mattone dopo mattone, frustando e dileggiando le guardie che si erano arrese. Nel cuore della notte ci raggiunse anche Bruno. Sembrava annientato: spettinato e con i vestiti in disordine, era arrivato a piedi perché era impossibile circolare per le strade della città. Quella notte Teheran vegliò senza sosta per evitare colpi di mano, per piangere davanti agli schermi televisivi o agli apparecchi radiofonici il martirio di Sheyda, e nell'arco di otto o nove ore si completò la distruzione della teocrazia iranica. Le donne inferocite epurarono la Majles-e-Shura-ye-Eslami, cacciando i deputati integralisti con i vestiti a brandelli e la testa piena di sputi.
E nell'orgia di dolore e festa, la bocca quasi a contatto con i capelli di N.Foroudi, l'immagine santa di Apasiri Rowshan che salutava da tutti gli schermi televisivi del mondo, la donna che aveva sconfitto prima la morte e poi il potere, comprendemmo tutti che la vittoria finale era merito dell'unico martire della nuova rivoluzione. Era grazie alla morte di Sheyda Behnia se gli indecisi erano finalmente scesi in piazza, spingendo fuori dalla storia la teocrazia.
Ma solo io mi domandai cosa sarebbe accaduto se, quel mattino quando la marcia delle donne aveva raggiunto Teheran, gli integralisti avessero offerto al generale Behnia la liberazione di sua figlia in cambio della repressione dei progressisti. Avrei saputo la risposta solo dieci anni dopo.

* * *

— Generale Behnia — dissi all'orecchio del vecchio militare mentre tornavamo a scendere la scalinata del mausoleo. — Quel giorno, gli integralisti le offrirono l'assoluzione per sua figlia, vero? Ma lei rifiutò di abbandonare la dottoressa Rowshan alle guardie rivoluzionare, e loro impiccarono Sheyda.
Il vecchio si morse le labbra, sforzandosi di rispondermi in virtù della proverbiale cortesia iraniana.
— Sono solo sue congetture, signor Mattei. Chi può dire come avrei reagito se davvero mi avessero afferto ciò che dice?
Così, mi rispose, ma io compresi che significava: "chi può dire se rifarei la stessa scelta"?
Bruno ci raggiunse con la mascella contratta. Le bandiere colorate ondeggiavano sotto il sole, la fiamma di pietra del mausoleo bucava il cielo. Mi voltai mentre Apasiri Rowshan scendeva verso le auto del corteo, bella come dieci anni prima, giovane come venti anni prima quando nei laboratori della Ericsson Genetics si era iniettata nelle vene il vaccino dell'eternità. La donna che aveva sconfitto prima la morte e poi Dio.
La donna più bella che avessi mai visto.

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