un racconto avant-pop di Giuseppe Iannozzi
Un tempo doveva esser stata bella, ma quando la conobbi io non lo era più,
appena passabile. Doveva essere vicina ai quaranta: non fosse stato per il
reggiseno e le mutandine, quel corpo si sarebbe disfatto sull’asfalto. Aveva
i tacchi alti e gli occhi tristi, nascosti da un pesante mascara mezzo
sciolto dall’acqua piovana. La bocca era ancora carnosa e umida; ma già
troppe rughe sulle guance. Nell’insieme, vestita in rosso, ogni suo gesto e
ogni suo passo facevano inequivocabilmente capire ai rari passanti a piedi o
in macchina che era una puttana di lunga data.
* * *
Quella notte Torino era triste: poche luci, la pioggia, un cielo nero senza
una stella né uno spicchio di luna, e l’eco quasi ininterrotta di ambulanze
e auto della polizia. Attraversavo una zona a rischio, infestata da pezzi di
merda assassini extracomunitari e skin. Porta Palazzo, la zona del mercato:
la notte pesava sul mio capo, un’ala di corvo, io mi limitavo a sputare
fuori grasse boccate di fumo. Fumavo la sigaretta, la sola compagnia che mi
serviva per farmi largo tra i negri e gli ortaggi per terra, andati a male
dopo il mercato del giorno ormai alle spalle. Bisogna che stessi attento a
quell’ora: i bianchi non erano ben visti, soprattutto di notte. La zona
puzzava, non di pioggia che eppure cadeva fitta fitta: l’aria aveva un suo
sapore, di sudore, di pelle nera, di sangue, un sapore dolciastro e crudele.
Mi schiacciai il cappellaccio a falde larghe sulla testa, tirai su il collo
del lungo impermeabile nero, sputai a un semaforo che era rimasto incastrato
sull’arancione ed attraversai, senza fretta: tanto lo sapevo d’esser seguito
da tanti e tanti occhi bianchi. Gli sarebbe bastato un batter di ciglia per
suonarmele di santa ragione, o per cacciarmi nelle budella una lama di
ruggine ma ben affilata. Continuai a camminare, incurante della morte che mi
seguiva: sinceramente quella notte non m’interessava il rischio il fato e
l’umanità tutta con il suo carico di male e di amore a buon mercato. Fosse
finito in quel momento il mondo intero, io avrei solo tirato un sospiro di
sollievo, e forse neanche: come un bue, ottuso, avrei visto morire e sarei
morto forse solo accennando a nessuno un sorriso insignificante. I semafori
erano spenti, solo qualcuno era sull’arancione: la pioggia non cessava,
faceva compagnia ai negri che si litigavano nelle loro lingue a me aliene e
cariche di una minaccia sottointesa.
Buttai l’occhio sul Duomo: era spettrale, vale a dire inutile come del resto
tutto quello su cui il mio sguardo si posava con normale distrazione. Fu
davanti alle scale del Duomo che la vidi passeggiare: mi chiese d’accendere.
Gliel’accesi quella sua sigaretta lunga e sottile, senza fiatare. E feci per
tirar via. Però mi fermai. Non lo so perché: mi fermai e basta, dopo pochi
passi. Mi voltai verso la donna. Era ancora lì: fumava con calma,
percorrendo brevi tratti in su e giù. Mi vide che la fissavo.
“Ti interessa?”
Non aveva nemmeno una bella voce: era roca, di fumo e di pompini fatti in
fretta.
Mio malgrado le regalai un sorriso fra il divertito e il faustiano.
“Cazzo ti ridi?” – sbottò.
“Niente. Mi interessa… il culo sì, mi interessa.” E così gridandole addosso,
mi avvicinai a lei tenendo un passo lento che affondava nelle pozzanghere.
“Il culo…!”
“Non ti dà fastidio la pioggia?”
Eravamo faccia a faccia.
“Snellisce.” – buttò lì.
“Il vestito è tutto attaccato...”
“Al corpo: sì, lo so. E’ un rosso che non scolorisce: non te ne
preoccupare.”
Lasciò cadere la sigaretta: ne seguii il breve volo…
“Il culo, fammelo vedere bene.”
Obbedì: me lo mostrò. Decisi che poteva andare, anche se il segno delle
mutande era evidente. Erano le mutande e i tacchi alti a tenerglielo su.
* * *
“Vuoi che le tenga?” Si riferiva alle scarpe, ai tacchi alti.
Non ci pensai su: “Sì.”
Quei tacchi facevano molto per il suo culo oramai destinato a diventare
sempre più flaccido e inutile.
* * *
Quando entrammo in camera eravamo entrambi fradici di pioggia: viveva in un
vecchio condominio fatiscente, uno di quelli che sembrano casermoni; dentro
la tappezzeria era color topo, si respirava un sentore di muschio ma per
niente piacevole. Accese la luce: due lampadine da quaranta candele
attaccate a un filo, senza lampadario. La camera da letto era un materasso –
che doveva aver visto giorni migliori – dove riposava una pesante coperta a
fiori ma scoloriti: si poteva intuire che dovevano esser state delle rose
rosse.
Con gli occhi di mascara sciolto m’invitò a togliermi di dosso
l’impermeabile: non mi feci pregare, e lo lasciai cadere ai miei piedi. Lei
mi diede addosso un sorriso di tristezza, che durò un istante; poi di spalle
si spogliò, lasciando cadere a terra quel vestito rosso che l’aveva fasciata
fino ad allora. Fece per slacciarsi il reggiseno: non glielo permisi, le fui
subito alle spalle, lei non si girò. Le tirai giù le mutandine, ma non fino
a fargliele scivolare sulle caviglie: l’elastico le rimase incollato poco al
di sotto dei glutei. Non volevo che la carne mi cadesse, non volevo quello
spettacolo pietoso. Chiusi gli occhi e glielo ficcai su per l’ano,
velocemente: lei tirò un urletto finto, che non era né di dolore né di
estasi. Con una mano sulla schiena la piegai a novanta, lei non oppose
resistenza: le mie mani s’incollarono su i suoi fianchi, mentre il mio pene
continuava a penetrarla. Lei faceva finta - meccanica come un robot - di
godere: era una pessima puttana e una attrice ancor più squallida. Glielo
tenni dentro per venti minuti buoni, poi, sudato, uscii da lei ma affatto
soddisfatto. Solo allora lei si accorse che non avevo messo su il condom.
Però non montò su nessun dramma, anzi.
“Non l’hai messo.” – disse distrattamente. E dal tono della sua voce era
chiaro che non gliene fregava un cazzo: parlava tanto per, non per fare
discussione. Si accese una sigaretta e prese a fumare.
Si era messa davanti alla finestra: se qualche voyeur l’avesse vista,
avrebbe visto una donna stanca, col reggiseno giù e le mutande calate a
metà, e una faccia di tristezza infinita.
“Non ne ho bisogno.” – buttai lì. “La morte è solo una squallida questione
di fortuna.”
Lei rise, per finta: “Un puttaniere che fa filosofia.”
“Un agente immobiliare…”
“Ti piace, il tuo lavoro intendo?”
“Ci riempiono la testa di cazzate, di strategie, di marketing, di filosofia
da due soldi.”
”E funziona.”
“Il mercato immobiliare, di questi tempi, è in ribasso: non fosse per i
milanesi che vengono a comprare qui a Torino, noi si potrebbe morire tutti
di fame.”
Tirai fuori una sigaretta dal pacchetto che tenevo nei pantaloni, e che mi
erano scesi giù fin sulle caviglie. Me l’accesi, e solo dopo pensai di
tirarmeli su, i pantaloni.
Le andai accanto, ma non proprio, rimasi dietro di lei, fumando: “Fuori
piove ancora.”
Lei rimase in silenzio.
“E’ strano” – continuai: “ma lo so fare solo così.”
“Non è strano. Normale.”
“Anche i negri lo fanno così?”
”Soprattutto loro.”
“Non gli piace la passera…”
“Gli piace. Ma per loro è uguale, vanno con uomini e donne, basta che
abbiano un buco dove metterglielo. Ecco tutto.”
Non era in imbarazzo.
“Ne hai presi molti, vero?”
”Perché, ti interessa?”
“Non mi interessa.”
Le buttai la patta sulle natiche sbattendola contro il vetro freddo: “Sei
tenero.”
Non ci credeva. Però lo disse. Poi mi allontanò come si fa con una mosca
fastidiosa, con un quasi schiaffo sulla mia faccia.
Mi accarezzai il mento: erano due giorni che non mi radevo. Mi dava fastidio
la barba. Quand’ero più giovane mi radevo anche due volte al giorno.
“Sai qual è il problema? Tutti chiedono attenzione, tutti la vogliono. Ma
non prestano mai attenzione.”
Mi lasciai cadere pesantemente sul letto, a braccia aperte, disegnando col
corpo una croce. Poi presi a ridere, in maniera sguaiata.
“Che c’è da ridere?”
Mi calmai subito: era una risata finta la mia. “E’ che ho appena finito di
mettertelo in culo, e mi fai già le paranoie: sembri uno dei tanti clienti
stronzi che mi capitano tutti i giorni. Uguale uguale.”
Lei fece finta di riflettere su quello che avevo appena detto. E sentenziò:
“Le donne sono tutte puttane. La più santa è più puttana di chi la dà via
per professione.”
* * *
La rividi qualche volta, ma senza particolare voglia: costava poco. Il suo
prezzo lo stabiliva da sé: non faceva sconti, neanche ai negri che erano i
suoi clienti più forti. Una volta me lo disse che loro amavano sodomizzarla
soprattutto, per un’ora intera anche, ma molti se lo facevano prendere in
bocca: la fellatio mi confidò le faceva bene alle labbra, però non
alla voce perché il seme lo doveva inghiottire e quello dei negri era troppo
acido. Dopo la prima volta, presi l’abitudine di usare il profilattico: non
per paura, solo per cercare di arginare il senso di schifo che mi produceva
nella mente l’idea di mettere il mio pene in un buco che era stato occupato
dal manganello di un negro.
* * *
L’appartamento era lercio come sempre: tirò fuori un crocefisso e me lo
porse.
“Una volta era attaccato a quel muro…” – e me lo indicò con l’indice,
ridendo isterica.
Buttai lo sguardo sulla parete: non c’era nessun segno.
“E’ tanto tempo che l’ho staccato”: rideva di brutto mentre lo diceva, con
malizia nervosa. Per un momento provai pena per lei.
Me ne stavo seduto sul bordo del letto con il crocefisso in mano: “Capisco”.
Ma dentro di me sapevo che nonostante le labbra ancora tumide, sopravvissute
alla decadenza del resto del corpo, anche il cervello le stava andando in
pappa.
Presi a raccontarle dei miei affari immobiliari, senza che lei me lo
chiedesse: non volevo farlo, né volevo più tornare in quel posto che sapeva
di sudori e umori rancidi. Lei non ascoltava, diceva di sé a raffica: le
importava solo di sé stessa, non gliene fregava niente dei miei problemi.
Ciabattava in lungo e in largo nei pochi metri della camera da letto: era
uno spettacolo penoso vederla con le ciabatte e la minigonna, il culo era
una prugna flaccida, i seni due vesciche sgonfie. Piagnucolava come un
bastardino abbandonato: il mascara le si era quasi del tutto sciolto e le
colava sulle guance graffiandole.
Ebbi un conato di vomito. Dovevo fuggire, e al più presto.
La lasciai alla sua isteria, a quel suo piagnucolare: bestemmiava anche, per
partito preso. Era sull’orlo di un collasso nervoso, poco ma sicuro.
Aprii la porta e me la sbattei alle spalle: non se ne accorse neppure che
ero uscito per sempre dalla sua vita. E però l’eco della sua voce m’inseguì
per tutta la tromba delle scale. E mentre scendevo i gradini incontrai un
negro ben messo, con la camicia verde aperta sul petto e la testa
perfettamente rasata: gli occhi erano bianchi, fin troppo, come quelli di un
cieco, ma quello ci vedeva benissimo. Me ne fregava niente di lei, del negro
che glielo avrebbe presto messo in bocca o dabbasso.
Fuori l’aria era piuttosto fresca, nonostante la zona non fosse delle più
raccomandabili: giravano marocchini, neri di ogni regione dell’Africa,
qualche slavo, forse qualche musulmano. Gli italiani erano la minoranza tra
quelle strade, proprio dietro Porta Palazzo. Camminai a piedi fino a poter
scorgere a occhio nudo la punta della Mole Antoneliana: solo allora trassi
un respiro che non era né di sollievo né di esasperazione.
* * *
Liliana la incontrai in agenzia: venne insieme al marito, su appuntamento
per un alloggio che avrei dovuto mostrargli. Lui era un bel tipo, un moro,
il tipico bravo ragazzo impiegato in una multinazionale milanese con uno
stipendio da capogiro: ma a me interessava la sua giovane moglie, Liliana,
una mista, di padre spagnolo e madre indiana. Una bellezza d’un ebano
pallido, mozzafiato. Bastò un’occhiata per capirci: il giorno dopo, lei
aveva già tradito il marito con il sottoscritto.
Liliana aveva poco più di vent’anni: si era sposata perché aveva trovato la
cosa conveniente e divertente anche. Diceva di essere innamorata del suo
uomo, Tonio, ma era consapevole di mentire a sé stessa, altrimenti non mi
avrebbe aperto le gambe subito.
Non ce li aveva i tacchi, d’altro canto non ne aveva bisogno: il suo era un
corpo sodo e
flessuoso, il suo era un culetto delizioso, alto, a forma di cuore, una
pesca succosa.
Alla coppia mostrai un vero gioiello, di quelli belli, un po’ caro in verità,
ma in zona Crocetta, proprio davanti al Politecnico: una villetta a due
piani, tutta ristrutturata. Liliana e il marito se ne innamorarono alla
prima botta.
Torino non mi era mai sembrata tanto bella come in quel momento: ebbi
persino la tentazione di tornare a credere che la vita fosse qualcosa di
prezioso e inimitabile. Mentre il marito gironzolava nella villetta,
gridando il nome della moglie, lei, Liliana, mi aveva nascosto in uno
sgabuzzino e aveva chiuso la porta: non le ci volle niente per trovarmi la
patta dei pantaloni e aprirmela, me lo stuzzicò delicatamente fra le dita…
accarezzò con la punta delle dita il pelato, poi con le labbra baciò
il glande una due tre volte. E quasi se lo inghiottì per intero: fu la
fellatio più bella di tutta la mia vita. Il seme le irrorò la gola: “E’
dolce… è dolce… è dolce…”
Sgattaiolò fuori, e solo in quel momento mi resi conto che indossava un
delizioso vestito rosso, di un rosso acceso, e scarpe dello stesso colore
con un modesto tacchetto. Un vero bijou quel suo culetto perfetto che mi
sorrideva.
Si voltò verso di me, che resistevo nella penombra dello sgabuzzino ancora
tutto eccitato: “Tu esci dopo… fra un po’… lo senti anche tu mio marito che
mi chiama…”
Le feci un cenno con la testa per farle capire che ero d’accordo. Poi
Liliana mi chiuse la porta in faccia, delicatamente. Non riuscivo a
dimenticare il rosso sorriso del suo culetto che solo aspettava d’essere
penetrato in profondità.
* * *
Le donne le ho sempre prese alla schiena, come fa il vento. Non mi è mai
piaciuto metterglielo dentro, nella passerina. Non mi ha mai preso la
poesia, le coccole; e nemmeno i baci e gli abbracci l’hanno mai avuta vinta
con me. A letto uno ci scopa o si fa piangere quando morto, se qualcuno l’ha
in cuore, per odio o affetto; ma non escludo che qualche stupido possa
piangere i morti perché nutre nell’animo un sentimento d’amore. Sia come
sia, il punto è un altro: non c’è niente come il sederino di una femmina,
niente è paragonabile alla bellezza di un culetto sodo che se preso da una
pioggia di schiaffi risponde subito con rossore di pesca.