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Manimal

Inserito Venerdì 04 agosto 2006

Narrativa un racconto di Claudio Tanari

... lion la testa, il petto capra, e drago
la coda; e dalla bocca orrende vampe
vomitava di foco. E nondimeno
col favor degli Dei l’eroe la spense.

(Iliade, VI, 223-225)

Mi impegno:

1. a non avere figli;
2. a sottopormi ad un continuo monitoraggio da parte dell'autorità di controllo;
3. a dichiarare i miei partner sessuali ed i miei conviventi;
4. ad accettare il confinamento in caso di emergenza da epidemia infettiva.

(dalla Dichiarazione giurata dell’aspirante allo xenotrapianto)

Lo specchio d’acqua della cala è bagnato dall’argento liquido della luce lunare. A un centinaio di metri dalla riva, una trentina di sagome, in piedi su barche alla fonda sfiorate appena dalla brezza di terra. Tra le barche e la risacca tre figure nuotano descrivendo scie divergenti; una di loro tocca terra per prima, attende l’arrivo delle altre, ispeziona il luogo: è una femmina, i capelli sciolti coprono a malapena i seni lucidi, ansanti. Dalle imbarcazioni le ombre impazienti di uomini e di donne si agitano preparandosi all’azione: i tre corpi, laggiù sul bagnasciuga, si stagliano sulle quinte dello skyline scintillante della città. Ad un tratto, uno dei corpi lancia rabbioso un grido gutturale: la battuta può avere inizio.

- Mi diceva che l’autopsia sul cadavere del Sorgensen… - cominciai esaminando le foto che Brot mi aveva passato a sostegno della sua ricostruzione.

- L’esame autoptico del Presidente Karl-August Sorgensen – puntualizzò enfatico – ha rilevato una profonda ferita alla gola che ha provocato un’imponente emorragia. Sul volto, sugli arti e… nella parte bassa dell’addome le lesioni appaiono sfrangiate e lacerate: si tratta con ogni evidenza di morsi…

- La permanenza del corpo del Presidente nella macchia ha costituito un richiamo irresistibile per la fauna selvatica, no? –

- Fauna selvatica… - fece amaro Brot – “Fauna selvatica”, dice lei… Ha davvero intenzione di occuparsi di questo caso, Mister Bailerhof?

- Immagino di sì. Mi pagate, per questo. – replicai asciutto.

- E allora le ricordo una cosa: il “Wild people” vive del safari, così come tanti altri locali di Nuova Bangkok specializzati, in emozioni forti. Se l’assassino di Sorgensen non viene eliminato, diciamo, nelle prossime quarantott’ore e senza troppo baccano, si chiude, tutti a casa, capisce? Fine dello show! Le lascio immaginare il contraccolpo economico: decine di eros center dichiarati insicuri, i nostri amici vip se ne tornano a casa e, insieme a loro, centinaia se non migliaia di persone che lavorano su questa costa vanno a spasso.

Mi vide riflettere: - Che pensa della nostra attività? Sinceramente.

- Non sono pagato per dare giudizi. Se insiste, però, le dirò che non mi piace l’uso delle chimere nei bordelli.

- Bordelli! Bravo Bailerhof! Anche lei si mette a recitare la parte del moralista, del censore! Come quel giornalista di Rio… Un gran casino, l’inchiesta sui partecipanti eccellenti ai safari, scandalo e interpellanze: e poi? Giù il sipario e tutto come prima. Troppa gente importante, ricorda? La verità è che a tutti piacerebbe dare la caccia a una femmina, o a un maschio senza regole e remore, per puro piacere…

- Stavolta, però il cacciatore è finito cacciato.

- Senta, Bailerhof: lei è padrone di uscire da quella porta quando vuole. Tanti saluti e amici come prima. Io ho bisogno di fare fuori la bestia che ha fatto questo scempio... – mi piazzò il fotolettore sotto il naso: in effetti, il cadavere del Presidente Karl-August ecc. non aveva un bell’aspetto... – Voglio chiudere l’incidente senza pubblicità inutile. Altrimenti avrei chiamato la polizia federale, non crede?

Un rivolo di sudore percorse lo spazio tra la basetta brizzolata e il colletto della camicia di Brot continuando la sua corsa fra le pieghe di grasso del collo. Una volta quest’uomo obeso e agitato era stato un piccolo industriale del settore informatico della provincia di Nan Drin. A metà degli anni Cinquanta aveva annusato il business del turismo sessuale, delle “emozioni forti” come le chiamava adesso. Lui e altri come lui acquistarono illegalmente da centri ricerche senza scrupoli manimal da impiegare nei loro baracconi per vecchi e giovani viziosi, con il tacito benestare o l’indifferenza delle autorità. Del resto le donne-tigre del “Wild People” conducevano pur sempre una vita migliore di quella che toccava in sorte ai loro simili nelle basi minerarie lunari o sui cargo che facevano la spola fra la Terra e la Stazione Marziana Orbitante.

Accettai l’incarico, del resto che altro avrei potuto fare? Niente lavoro da due mesi: per un milione di bath poteva andare bene anche una “caccia grossa”...

Ma ero nuovo del ramo, feci notare debolmente a Brot che mi fornì l’indirizzo del “veterinario” in capo, come veniva chiamato nell’ambiente il responsabile sanitario dei manimal di New Bangkok.

Il Dottor Duang alloggiava al Viengtai Hotel: un albergo di classico stile coloniale, a Ratanakosin, tra i canali, e il Chao Phraya, il grande fiume ridotto ormai a una cloaca a cielo aperto. Dal Rangoon Boulevard, sede dell’ufficio di Brot scesi verso Sanam Luang, mille miglia lontano da Soi Cowboy e dai suoi pornobar della guerra di Birmania, ma anche da G - Point, coi suoi saloni di massaggio erotico praticato da androidi arrugginiti; no, nelle salette riservate e discrete del Viengtai si riunivano volentieri mafiosi e cospiratori di rango. Non certo per la sua dignitosa eleganza demodée, ma per l'uscita sul retro che si perdeva in un dedalo di vicoletti per finire in un klong. Da lì, con un motoscafo, se necessario te la potevi squagliare a tutta velocità.

Proprio davanti all’Hotel la solita fauna: puttane belle e giovanissime ballavano in strada sotto l'occhio rilassato di magnaccia altrettanto giovani, carrettini con ogni tipo di cibo saltato nel wok; una famiglia mangiava a terra in cerchio, un papà sdraiato su una stuoia a terra spupazzava teneramente un ragazzino, una vecchia grassa si sventolava fiaccamente mentre una coppia giovane parlava fitto: forse d'amore, forse di soldi... E poi il vero spettacolo, i farang, gli stranieri. Norvegesi tatuati, australiani dall'accento largo, spagnoli con
lo sguardo allupato, valchirie dalle chiappone debordanti: non troppo diversi, tutto sommato, dal Presidente Sorgensen.

- I manimal, o chimere…nella notte dei tempi gli antichi assicuravano che per ottenere unicorni sarebbe bastato associare un dente di narvalo al corpo di un cavallo. La scienza del XXI secolo ha fatto di meglio... – rispose Duang alla mia domanda sui manimal della città. Era un ometto piccolo e magro, la fessura degli occhi a mandorla resa ulteriormente sottile dalla miopia; era stato assunto dalla Municipalità di New Bangkok in virtù delle sue esperienze nel settore come collaboratore del Biogenetic Research Institute di Pasadena. Nessuno scrupolo etico di fronte al denaro che gli avrebbe garantito una vecchiaia più che agiata... Stava cercando di recuperare con me un approccio professionale da tempo proficuamente accantonato ma in fondo, molto in fondo, rimpianto.

- Dottore, non c’è molto tempo: credo di conoscere la storia delle... chimere come chiunque.

- Già, appunto: come chiunque... Se vuole catturare la sua preda, dovrà sforzarsi di saperne un po’ di più di chiunque, ragazzo mio... - mi apostrofò.

- Continui pure - feci rassegnato.

- Dunque. Già nel primo decennio del Duemila il Professor Weltmann aveva creato, trapiantando neuroni umani nel cervello di topi di laboratorio, le prime chimere: topi con cervello per circa l’1% umano. In seguito la ricerca si indirizzò verso l’utilizzo di tessuti e di organi di origine animale nell’ambito dei trapianti. Il passo successivo, su base sperimentale, fu quello di usare cavie umane volontarie per la creazione di esseri che associassero caratteristiche umane e animali anche e soprattutto mediante tecniche di ingegneria genetico-evolutiva: si trattava di indurre processi accelerati di “chimerizzazione” per studiarne l’impatto antropologico, fisilogico ma anche psicologico...

- Psicologico? In che senso? - lo interruppi.

- Di fronte al prevedibile sconcerto dell’ambiente medico e dell’opinione pubblica per gli esiti di una tale ricerca, l’autorevole Robert Stark, di Pittsburgh, ammise che lo xenotrapianto avrebbe creato dal punto di vista cellulare e genetico un essere ibrido, concludendo però che lo scopo delle sue ricerche era il miglioramento della specie umana. Conclusione accolta a braccia aperte dall’industria farmaceutica e dalla nascente lobby della zoopoietica che annusarono l’affare. Ben presto però i problemi vennero alla luce, dapprima sottovalutati, poi colpevolmente negati, infine clamorosamente denunciati: non fu mai del tutto scongiurato il rischio di epidemie: i virus ignoti, latenti nell'animale, non erano individuabili prima che il passaggio nella specie umana, aiutato dall'impiego degli immunosoppressori, ne stimolasse il risveglio...

- Sì ma qui stiamo parlando di un assassinio, non di un caso di contagio - cercai di tornare allo scopo della mia visita - E poi, deve ancora spiegarmi che c’entra la psicologia...

- Ci arrivo subito! Le cellule dell'animale "donatore" si insediavano, dopo il trapianto, in tutti gli organi del paziente, modificandone anche la soggettività e l’identità, le funzioni superiori stesse del pensiero. La chimerizzazione risvegliò inoltre nell’immaginario collettivo l’incubo ancestrale e inevitabile dell’animale come specchio oscuro dell’uomo, ricettacolo di tutte quelle impurità di cui abbiamo dovuto liberarci nel... difficoltoso cammino di emancipazione dalla natura. Venne coniato il dispregiativo manimal, per indicare gli esseri frutto di un’attività di ricerca ufficialmente non più finanziata dagli stati, ma ancora tollerata anzi rigogliosa in istituti e laboratori privati. Del resto, la colonizzazione dello spazio non ha forse bisogno di organismi ibridi capaci di sopportare sollecitazioni e condizioni ambientali al limite della sostenibilità? - Terminò con un sorriso ammiccante. Brot e il suo Wild People erano solo parte di tutta la faccenda.

- Dottor Duang, veniamo al sodo: dove devo cercare?

- Mi ha detto delle ferite sul corpo di Sorgensen...

Gli allungai il videopod.

- Vedo, vedo... - socchiuse ancor più le palpebre - Si direbbe opera di un tigroide... Un bel lavoro di macelleria, davvero. Compito difficile, ragazzo mio. - Fece restituendomi lo schermo - I tigroidi posseggono, oltre ad una notevole forza fisica, anche una discreta capacità cognitiva: non sono ebeti da fatica come i bovidi che spediamo sui cantieri di Keplero e Tycho... Brutta faccenda. Le consiglio di uccidere immediatamente la sua tigre appena avrà il minimo sospetto: ogni esitazione con quegli... animali può essere fatale.

- Grazie per l’incoraggiamento... - dissi sarcastico abbandonando la poltrona di vimini.

- Ah, dimenticavo, Mister Bailerhof - omise il “ragazzo mio” - Le tigri sono capaci di far perdere la testa anche a un presunto duro come lei: si tratta di merce di lusso... Agli uomini piace il corpo sodo e muscoloso ma elastico dei felidi, il viso da bambina. Eh, sì: forse il prodotto di xenoingegneria più riuscito, se si esclude una certa... instabilità che affiora talvolta - non poté fare a meno di accennare al videopod. Si faccia un giro a Krung Tep, magari domani sera: se non è troppo tardi per la sua indagine... - ammiccò con malizia - ... il Sauvage è il posto migliore per la caccia alla tigre.

Uscito dall’atmosfera rarefatta del Viengtai, mi ritrovai ancora una volta tra grattacieli, megacine multiplex con poltrone virtualsurround, templi con i tetti d'oro zecchino, ma anche vicoli infiniti di baracche puzzolenti i cui abitanti si lavavano i denti nell'acqua fangosa dei klong, i canali-fogne che qualche decennio prima avevano suggerito per questa metropoli il soprannome bugiardo di Venezia dell'Estremo Oriente. Lasciai la Ratchadoemnanklang Road, la strada a sei corsie zeppa di luci e di traffico puntata verso palazzo Reale; mi infilai nella luce scarsa dei vicoli, i dedali di baracche di plastica legno o di lamiera, il ventre di Nuova Bangkok. All’esterno delle baracche illuminate da tubi al neon c'è di tutto: ferrivecchi, cassette, utensili arrugginiti, fusti di combustibile, barattoli vuoti, carcasse di autorotor sfondati, 
Su tutto, e dappertutto, l’odore, traspirato dai vicoli: grasso, graveolente, tenace, di umanità, di grasso bruciato sulla brace, di fogna.

 
In quel momento, le parole di Duang in mente, la città mi sembrava una matassina di zucchero filato. Stucchevole come lo zucchero filato, non lasciava niente in bocca. E sotto la superficie nascondeva un brulichio di scarafaggi.


In più, si mise a piovere. Tra i baracchini, al riparo dei piloni giganteschi in cemento armato della nuova sopraelevata, ancora nuvole fumanti di puzzo di cibo, di carne carbonizzata, di fritture oleose. Tra i teli di plastica come quinte semitrasparenti imperlate di pesanti gocce di pioggia, i vapori e le facce asiatiche, la luce incerta tra i grattacieli e i plinti del levitreno. Attraversai il caldo soffocante e umido di quella notte fino al Bui Bua e alla mia stanza d’albergo; consultai il memotel: sul monitor a parete il viso congestionato di Brot, moltiplicato per il numero di messaggi archiviati, esigeva con insistenza indizi e piste da seguire. La solitudine, vecchia compagna di viaggio, sembrava pesare più del solito in quella città malgrado tutto sconosciuta e lontana.

Presi per buono il consiglio del Dottor Duang. La sera seguente, Krung Tep: la Città degli Angeli. Discesi lungo un canale tra baracche miserabili illuminate all’interno dalla luce verdastra e immancabile del TV3D.
Più avanti un parco immenso illuminato da centinaia di migliaia, forse milioni, di lampadine: la festa della luna piena d'agosto, un tempo l'inizio del ritiro dei monaci buddisti per la stagione delle piogge.
Nelle parti più buie del parco, sull'erba, fagotti scuri su sacchi di plastica, gli androidi respinti dai sex-mall luccicanti di fiberglass e acciaio cromato, dormivano sonni disturbati dalla paura della Polizia. Programmati per diventare amanti sempre più abili, fino a qualche anno prima erano stati i protagonisti incontrastati delle piazze della prostituzione, capaci di memorizzare la minima esclamazione di piacere, la frequenza degli orgasmi, dotati di meccanismi autopulenti dopo gli amplessi. Uno di essi, un modello femmina, si interpose fra me e l’oloinsegna del Sauvage, il locale verso cui mi stavo dirigendo, proprio al confine del parco, al piano terra di un fabbricato dalle linee eleganti.

- Vuoi giocare con me? - mi chiese con la sua voce calda e flautata, seni prorompenti e vita sottile sotto il top di seta sintetica. Sull’avambraccio destro, il tatuaggio dell’Intelligent Toys Ltd.

- Mi chiamo Repliee e ti farò divertire - ancheggiò mostrando sulla nuca la fessura per la moneycard.

La pelle in silicone ultramorbido sapeva di buono anche se, a guardarla più da vicino, Repliee denunciava i suoi anni: era ancora in funzione, malgrado i capelli rossi stinti e stopposi e l’andatura appena troppo rigida. Roba da Sex Dolls, azienda del ramo turisti - tutto incluso, 3-400 dollari per una serata a New Bangkok: vitto,alloggio e un paio d’ore da passare con una “bambola”.

- Non mi interessa, grazie. - la allontanai volgendo lo sguardo al gruppo di giovanotti rumorosi che si stava avvicinando. Due di loro si staccarono dal resto. Accelerai il passo.

- Americano? Da noi li chiamiamo silicloni, questi ferrivecchi! - esclamò sghignazzando quello con i capelli tagliati a spazzola mentre mi affiancava.

- Ci hanno detto che al Sauvage invece c’è roba buona, di classe - incalzò l’altro seguendomi.

Due marines. consiglieri militari in qualche posto dimenticato da dio al confine birmano.

- Così dicono - risposi evasivo entrando nel locale mentre la voce inalterabilmente calda e flautata di Repliee chiedeva a qualcun altro, laggiù, nel buio del prato: - Vuoi giocare con me?

- Favorisca l’iride, signore - intimò con gentile fermezza il buttafuori porgendomi gli occhiali per il riconoscimento della retina; era il primo manimal della serata, un colosso alto un paio di metri, il torso nudo e glabro, il volto innaturalmente allungato e massiccio dalle narici larghe e frementi. La scansione avvenne velocemente e mi avviai verso l’interno di una sala dal soffitto basso costellato di punti luce con aroma diffusori: dopo l’odore nauseante della città, un piacevole benvenuto.

- Buon divertimento, signore - mi congedò il toro passando gli occhiali ai due marines.

Sfiorai i corpi lucidi e appetitosi cosparsi di crema e succo di papaia di una decina di dessert girl, pronte per gli assaggi golosi degli avventori, prima di sedermi vicino ad una ragazza nuda che mi volgeva la schiena fittamente tatuata: sul palco circolare un incontro di boxe: al centro dello spazio illuminato da luci soffuse due donne, le membra sudate e mobili.

- Ciao... - aprii la conversazione.

- Ciao. - rispose svogliata, gli occhi verdi dalla pupilla nera e liquida sul volto tondo e sensuale, l’epidermide bionda non tatuata, come mi era sembrato in un primo momento, ma solcata da strisce scure.

Sul ring il rituale precedente la lotta vera e propria era ritmato da un tamburo suonato a mano e da un flauto elettronico. Le due splendide contendenti si inchinarono baciando i quattro angoli del ring, danzarono. Poi il combattimento. Breve, brutale: morsi, graffi, colpi proibiti. Vinse quella in perizoma blu. Appalusi eccitati, Perizoma rosso se ne andò a testa bassa.

- Ti piace la lotta? - mi fissò la tigre dal bordo di un bicchiere.

- Sì, anche se ultimamente la cosa sembra un po’ troppo rischiosa, non trovi? - la luce azzurrognola del videopod con le foto del cadavere di Sorgensen le illuminò la fronte bassa e corrugata.

Si irrigidì di colpo - Sei della Polizia? - sibilò distogliendo brusca lo sguardo dalle foto.

- Diciamo che curo gli interessi della famiglia di quel poveraccio che due giorni fa ci ha rimesso le penne con una come te - mentii senza il minimo sforzo.

Dal tavolo a fianco una coppia di giovani maschi (un capro e un cavallo?) mi guardavano distrattamente.

- Senti, che cazzo vuoi? Vuoi scopare gratis? - Si avvicinò finché non ne avvertii l’odore, intenso e pungente.

- Grazie... come ti chiami? Sono qui per lavoro.

- Mi chiamo Aung. Allora lasciami in pace: sono qui per lavoro anch’io - concluse seccamente con una smorfia aspra.

- Stai a sentite: se non trovo chi ha fatto fuori quel turista qui chiude tutta la baracca. Vuoi

finire in qualche cantiere a schiattare spaccando pietre? Un bell’esemplare come te... - le

accarezzai un seno coperto di un’impalpabile peluria.

Il capro bisbigliò qualcosa all’amico alzandosi in fretta, come se avesse improvvisamente ricordato un impegno.

Le pareti della virtuality riecheggiavano l’immagine di una prateria bionda e mossa dalla brezza: era percepibile l’afrore di erba alta e animali. Gli occhi di Aung brillavano in controluce rispetto al paesaggio: sdraiata sul letto basso, il corpo abbandonato, morbido mi offrì una capsula variopinta, che inghiottii… Si rivolse di schiena, carponi, dondolando e sollevando i glutei, poi mi attirò sulla schiena quasi con violenza, il respiro soffocato e caldo si mescolava al vento tra i baobab e al ronzio incessante e ipnotico della savana… la cavalcavo, inarcando a ritmo sempre più incalzante le reni, la pelle zebrata del dorso era percorsa dalla tensione dei muscoli. Le afferrai i fianchi ed esplosi dentro di lei a lungo, prima di crollare.

La luce vivida di poco prima era diventata gialloarancio e le dipingeva i seni e il ventre madidi del colore cangiante del tramonto. Lo sguardo enigmatico di Aung.

- Sai qualcosa, vero? - Le sfiorai ancora i fianchi vellutati da cui emanava un sentore penetrante. Contrasse la pelle screziata come reagendo alla puntura di un parassita sottraendosi al mio contatto e riprendendo a voce bassa - Amico, come cazzo ti chiami...: non posso aiutarti. E’ stata una tigre, o almeno così dicono... Prova a cercare altrove.

- Grazie lo stesso, Aung. Mi chiamo... ma non ha nessuna importanza, no? - Distesa a terra, mi volse la schiena asciutta in un silenzioso commiato.

La luce verde, il tappeto, il biliardo e il suo microcosmo, e silenzio tutto intorno.

Mancava la biglia nera, ma era coperta dalla blu che spezzava una traiettoria altrimenti irrisoria, facile.

La spezzava completamente richiedendo un tiro di sponda, doppio se si voleva rischiare, doppio se si voleva rischiare di vincere. Per niente facile. Pericoloso.

La tigre mosse la testa tonda e piccola. I capelli crespi acconciati a treccine compatte, il ventre concavo, la schiena dalle scapole rilevate, i seni appena accennati. Negli occhi gialli le pupille sottili come un taglio di rasoio si allargarono diventando ovali e buie fissi sul vertice della stecca metallica .

Poi si guardò intorno esitando quasi impercettibilmente su di me: il capro aveva appena terminato di dirle qualcosa.

Palpai l’impugnatura della pistola, forse per rassicurarmi. I due americani, ancora in cerca dei piaceri proibiti promessi dai commilitoni, mi salutarono con un cenno vistoso.

- E ora … performance difficile, e Ree lo sa - sottolineò lo speaker con enfasi.

Ree tirò un po’ su con il naso. Cambiò peso da una gamba all’altra. Ci pensò su.

Diede uno sguardo alla sigaretta trascurata che l’aspettava in un piattino trasparente attaccata alla cenere lunga e intatta di un fumo distratto.

Impugnò la stecca d’acciaio piegandosi lungo il tavolo

- Morbida e felina: ogni volta è come vederla sdraiarsi sul letto prima dell’amore... strizzò l’occhio verso il pubblico lo speaker.

Ree inspirò trattenendo il fiato, e lasciò partire il colpo. Ma non centrò la biglia: la stoccata della punta d’accaio era diretta a me, per essere precisi al mio torace. Feci un mezzo giro su me stesso per puro istinto: la stecca penetrò dolorosamente nella mia spalla sinistra abbagliandomi di dolore. Lo speaker si gettò a terra, gli occhi sgranati. Il ronzio di un fulminatore: uno dei marines lo aveva puntato su Ree srotolando la scarica violacea, ma la tigre, evitando di un soffio il colpo, aveva afferrato un’altra stecca scagliandola contro la testa del soldato, che si lasciò attraversare con un rumore sordo.

Sponda opposta, agli antipodi del tavolo, al confine con l’opposta buca d’angolo, felpato e lento rotolare all’indietro, la pistola in pugno. Lento, diritto, inappellabile: la colpii in pieno petto, un colpo solo e definitivo che le squarciò le ossa e i muscoli.

Il silenzio prese fiato e rinacque al suono. Mi acclamarono. Il sangue del marine raggiunse le mani dello speaker ancora steso al suolo sotto il bancone del bar..

Ree oscillava appesa piedi e mani all’asta di un safari di altri tempi, gli occhi spenti, la bocca spalancata dallo stupore. I lampi dei reporter a documentare l’impresa. Nessuna mano pietosa aveva coperto la ferita dai margini carbonizzati e slabbrati e i rivoli di sangue raggrumato che rigavano il torace fino alla schiena e impastavano i capelli di quella che era stata Ree. I volti chini e pieni di rabbia dei manimals del Sauvage. E Aung.

- Complimenti, amico. Ma sei proprio sicuro che era lei?

- Che vuoi dire? - risposi stanco e torturato dal colpo alla spalla.

- Voglio dire che all’alba di ieri è stato ripescato il corpo di una di noi. Proprio sotto il molo di Nanklang Road: niente ferite... Non credo che facesse un bagno: odiamo l’acqua, specialmente quella melmosa del porto. - sorrideva amara - Forse voleva farla finita: per disperazione, per paura, chissà...

- Naturalmente, ne sai molto di più, non è così?

- Non ha più nessuna importanza, no? - mi scrutò con gli occhi profondi e umidi come un pozzo, il fantasma di un sorriso ad incresparle le labbra.

- Molto bene, Bailerhof! - Quella mattina l’ufficio di Rangoon Boulevard era luminoso e fresco. Nessuna traccia di sudore sulla fronte di Brot che mi stringeva la mano con una presa molle e frettolosa. - Questo è il suo onorario. Passò la mia moneycard nel solco dello scanner rimpinzandola di credito.

- New Bangkok è salva... - buttai lì sarcastico. Brot non colse:

- Proprio così! E grazie a lei. Ora il Dottor Duang e la sua equipe dovranno lavorare sodo: agli psicozoologi spetterà il compito di selezionare i manimal potenzialmente a rischio.

- Che fine faranno? - chiesi nauseato.

- Beh, una volta sottoposti al test della reazione subliminale, quelli che saranno risultati pericolosi verranno... abbattuti - scelse con cura il termine più tecnico. - Ma come va la sua spalla...?

Pensai ad Aung e al capro.

Sulla strada verso l’eliporto attraversai Il quartiere di Wat Sayung: gruppi folti di manimal in manette venivano caricati sugli hovercraft dell’esercito alla volta dei laboratori di Duang sull’isolotto di Maya.

Fui distratto dalle risate che provenivano da un gruppo di bambini: i giardini di Kwan Fon e le loro chimere da fiaba... Mi avvicinai, subito catturato dal fantastico aspetto di un grifone, gli artigli robusti simili a quelli dei leoni; le penne del dorso nere, in contrasto cromatico con quelle della parte anteriore del corpo rosse, le ali bianche: si abbeverava al ruscello trasparente che tagliava il parco. Più in là, un Minotauro, le gambe umane tarchiate ma miracolosamente funzionali, il torso e la testa di un vitello: caracollava destando l’interesse avido di decine di video3D...

Stavo per andarmene quando, discosto, dagli altri animali, venni avvicinato da un Ippogrifo, candido, le grandi ali ritmicamente dispiegate e ritratte: era una femmina, il collo maestoso ed eretto, la criniera lieve e lucente. Mi osservava tranquilla, masticando con lentezza il cibo elargitogli generosamente dai bimbi.

Mi venne in mente il sorriso mesto di Aung.

Rimasi lì a lungo, leggendo dentro i grandi, dolci occhi dell’Ippogrifo: nelle notti della Città degli Angeli forse lei se ne andava, a volare chissà dove.


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