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I workshop per scrittori

Inserito Lunedì 14 maggio 2007

Saggistica

un testo di James Patrick Kelly



Writers' Workshops

James Patrick Kelly


Non credi nei workshop per scrittori, non ci hai mai creduto. Forse hai avuto un'esperienza negativa al college. Qualche tipo acuto di scrittura creativa dove hanno sorriso alla schi-fi e ti hanno detto che probabilmente dovevi pensare ad una carriera da idraulico. O forse è stato quel piccolo workshop incestuoso nella tua città, uno di quei corsi educativi per adulti pieno di poeti sinceramente dolenti e di futuri Joyce che rispondevano alle critiche dicendo cose stupide come "Io scrivo solo per me stesso."

Hai una fede cieca nei workshop per scrittori. Sei andato a Clarion (molti di noi lo hanno fatto) e ti ha cambiato la vita. O forse sei uno di quei fortunati, uno di quelli che vivono a Boston o a Austin o a Minneapolis o a Denver o a Eugene... posti dove c'è un workshop professionale riconosciuto. In qualche modo ti sei procurato un invito e, mirabile dictu, hanno preso sul serio la tua opera. Dopo un po' l'hai presa sul serio anche tu. E il resto è storia letteraria.

Probabilmente ci sono migliaia di workshop per scrittori negli Stati Uniti. La maggior parte distruggendo la propria reputazione e provando in modo noioso il luogo comune che non puoi insegnare a scrivere. L'unica cosa di buono che fanno è di provvedere al neofita un incentivo a scrivere in modo regolare.

Ce ne sono comunque alcuni che funzionano. Quello che impari in un buon workshop non è come scrivere, ma piuttosto ciò che il tuo pubblico fa di ciò che hai scritto. Dimenticate del tutto figure autorevoli coi capelli grigi che vi allungano i dieci comandamenti della buona scrittura. Non c'è altro shock più istruttivo dell'ascoltare una stanza piena di lettori astuti fraintendere le tue intenzioni, nessun piacere memorabile quanto l'ascoltare un'estraneo parlare del tuo lavoro con comprensione e apprezzamento.

Come fare a riconoscere il buon workshop? Quasi tutti quelli della varietà fantascientifica si basano sul modello Milford, per il quale le leggende danno la paternità a Damon Knight. Il Milford funzionava così quando era il workshop nazionale (e funziona così a tutt'oggi, un Milford a scala ridotta che continua come uno dei più importanti tra i molti workshop regionali). Il Clarion funziona così, con qualche piccola variante. E' la struttura del Sycanore Hill, l'attuale workshop nazionale. Il problema è che la maggior parte dei workshop formato Milford sono o troppo lontani o troppo pieni ed hanno lunghe liste d'attesa. Se siete veramente interessati, quello che vi occorre fare e di iniziarne uno vostro.

Ecco come.

Il modello Milford funziona al meglio con un numero di partecipanti che va da cinque a diciassette. Di meno e il workshop perde la sua necessaria diversificazione, di più e la critica ad ogni storia si trascina con lentezza snervante. Il gruppo di solito si raccoglie in un luogo per un certo periodo di tempo: un unico giorno o forse un fine settimana per i workshop regionali più piccoli, tra cinque giorni e una settimana per un workshop nazionale come il vecchio Milford o il Sycamore Hill. Il Clarion richiede sei settimane. Sia il Sycamore Hill che il Clarion sono avvenimenti annuali, mentre la gran parte dei workshop regionali hanno una scadenza mensile o bimensile. Prendono parte alla critica solo scrittori con dei manoscritti nel workshop, non è ammesso il pubblico. Se la mobilia della stanza del workshop è soltanto una questione di gusto e delle circostanze, l'arrangiamento ottimale è che il gruppo sieda attorno ad un grosso tavolo o comunque i vari tavoli siano disposti a cerchio. Le storie vengono lette in anticipo; i critici più coscienziosi le leggono più di una volta. Egni critico si dilunga sull'argomento a turno, la maggior parte facendo riferimento alle note che hanno preso. E' prassi di passare queste note allo scrittore alla fine della sessione. Durante le critiche lo scrittore non può rispondere ai commenti a meno che non gli venga chiesto un preciso 'sì o no'. A nessuno è permesso di interrompere un altro critico, anche se ci sono spesso dei battibecchi, il più delle volte insignificanti. La ripetitività è inevitabile, anche se occhiatacce e sguardi vuoti a volte spingono a far passare la mano quelli che non hanno niente di nuovo da aggiungere. Dopo che tutti hanno parlato, lo scrittore ha l'opportunità di ringraziare, spiegare, ribattere o non dire niente. A volte segue una discussione libera, altrimenti si passa alla storia successiva. Alcuni workshop rafforzano queste regole come gruppo oppure gli organizzatori possono fungere da arbitri semi ufficiali.

Descrivere il modello non fornisce veramente il senso di cosa sia un workshop. C'è una incomprensione che le critiche siano incessantemente dure, che i critici siano soggetti a faide personali e al dibattito ideologico, che alcune persone in modo sconsiderato riscrivano storie accettabilissime, mentre altre offrano opinioni conflittuali che possono ridurre il povero scrittore alla confusione totale. Probabilmente avete sentito alcune storie dell'orrore, racconti di ego infranti e di manoscritti bruciati. Be', non ci sono certezze. Di tanto in tanto un workshop deraglia. Comunque due punti vanno sottolineati.

Il primo è che il workshop fornisce allo scrittore un ampio raggio di opinioni. L'unanimità è rara; gente, il genere è ampio. La verità è che c'è chi odia semplicemente gli elfi, altri che rifiutano la metanarrativa, molti pensano che i vampiri siano sciocchezze e l'hardware fa venire il sonno a più d'uno. Non è poi molto sorprendente che i critici attorno al tavolo tendano a rispondere in modo più intelligente a storie che sono simili a quelle che piacciono loro. Mentre la femminista potrebbe commentare legittimamente che non legge mai opere di sword and sorcery e che non avrebbe finito la storia se non fosse stato per il fatto di essere al workshop, il cyberpunk potrebbe confessare un amore segreto per l'heroic fantasy e offrire una visione da conoscitore. Comunque, ammettendo pure una diversità di gusti, di solito un certo consenso emerge. Questo consenso non sempre può risolvere i problemi di una storia o apprezzare pienamente un capolavoro, ma non si acconteterà di situazioni standardizzate, personaggi fotocopia, concetti fuori tema o emozioni stantie, e può riconoscere con facilità il motore narrativo, il dialogo credibile, idee fresche e l'abile caratterizzazione.

Il secondo punto è che non c'è nessuna critica che sia tanto ottusa quanto un pugno di lettere di rifiuto. Il fatto di partecipare a un workshop fornisce un modo più umano di ricevere cattive notizie, se poi le notizie sono cattive. Non basta, il procedimento potrebbe offrire allo scrittore una nuova prospettiva su come viene presa la decisione di rifiutare o accettare, dato che, in un certo senso, gli scrittori giocano a fare i curatori durante un workshop. Si mettono a leggere per la mitica Rivista di Fantascienza Valida o per l'antologia Nuove Visioni Perfide, curate da (e qui mettete il vostro nome). Non gli è comunque permesso di nascondere le proprie opinioni dietro l'oscuro "Questo materiale al momento non è adatto a noi." Sono costretti a fronteggiare lo scrittore e a spiegare specificamente ed esaurientemente perchè la storia non si adatta. Devono giustificare le loro letture, razionalizzare i loro pregiudizi estetici. E' un ruolo difficile da svolgere, ma può essere di valore incommensurabile sia per lo scrittore che per il curatore-di-un-giorno. Certo, qualcuno viene travolto. La sindrome della riscrittura da nuovo è un esempio. Ma anche questi eccessi nascono molto spesso più dall'entusiasmo che dalla malizia; la gente più che delle semplici storie pubblicabili vorrebbe dallo scrittore il suo meglio, ogni volta e, per favore, niente scuse. Che male c'è in tutto ciò? Lo scrittore è libero di ignorare i consigli invadenti, e in quasi ogni sessione ci sarà qualche critico particolarmente attento che fornirà almeno un suggerimento capace di aiutare a focalizzare o a migliorare la storia. E' chiaro, comunque, che alcuni scrittori si trovano a disagio col concetto che i colleghi l'aiutino a scrivere le proprie storie. (Alcuni scrittori si trovano a disagio anche col concetto di editing). Di chi è la storia se si usa quel finale mortale che ha suggerito Kate Willhelm? La pressione dei pari grado non finirà forse con l'omogeneizzare il proprio lavoro? Sono domande pertinenti a cui non c'è una risposta universale.

Il che ci porta ad un avvertimento importante: i workshop non sono per tutti. Non fanno sicuramente per i permalosi; coloro che hanno difficoltà a separare le critiche all'opera dalle critiche personali farebbero bene a starsene alla larga. I workshop non fanno neppure per i seguaci della Terza Regola del Successo nella Scrittura di Heinlein: "Evita di riscrivere tranne che su ordine del curatore". Non c'è motivo di presentare ad un workshop storie non negoziabili. Naturalmente ciò che ci si aspetta è un permanente "Oh" dai colleghi, una vendita immediata al massimo livello seguita da una raffica di nomine ai vari premi e ad apparizioni multiple nei vari Il meglio dell'anno. La cosa è semplicemente naturale. Ma è disonesto decidere in partenza che a prescindere da ciò che uscirà dalle critiche, la storia è perfettamente vendibile e non verrà cambiata una stramaledetta parola. Stiano attenti anche coloro che hanno una voce di scrittura veramente eccentrica; il procedimento sembra funzionare meglio per storie che si collocano nel flusso centrale del genere, tanto per essere chiari. E' anche difficile, pur se non impossibile, avere una critica soddisfacente ad un romanzo. Soprattutto in workshop nazionali come Sycamore Hill, dove anche il più robusto barcolla sotto il peso della lettura, vengono posti dei limiti sulla lunghezza dei manoscritti. Nessuno ha il tempo di leggere un intero romanzo. Sfortunatamente gli stratti tendono a ricevere critiche frammentarie. Romanzi in stesura sono più adatti ai workshop regionali che hanno una frequenza più fitta e dove, nel tempo, capitolo dopo capitolo, il libro ha almeno una possibilità di venir considerato nella sua interezza. Per riassumere: i workshop non fanno per tutti. Alcuni dei nostri scrittori più dotati si astengono per ragioni di temperamento e di senso pratico. Si tratta semplicemente di un fatto di funzionalità. Alcuni di noi scrivono a mano, altri compongono alla tastiera. Alcune sono persone mattiniere, altri non connettono prima di aver mangiato.

Un segreto dei workshop (a dir la verità non tanto mantenuto) è che le critiche non sono una giustificazione sufficiente per pagarsi il viaggio da San Francisco a Raleigh nel North Carolina o per abbandonare la casa e un lavoro retribuito per sei settimane e andarsene a Clarion. Ci sono altri benefici, intangibili eppure innegabili, per coloro che partecipano au workshop di scrittura.

Per esempio la convalida. Una delle sventure della vita degli scrittori principianti è la fiducia fluttuante. I workshop hanno aiutato a risolvere molti più problemi di quelli che hanno causato. Capisci che hai del talento, altrimenti non ti avrebbero accettato a Clarion. E anche se non hai avuto una vendita dalla Festa del Lavoro, gli altri scrittori al workshop leggono ancora l'ultimo tuo manoscritto con attenzione ed untusiasmo. Un vincitore di diversi premi ti siede accanto, in fondo alla stanza c'è una scrittrice che ha venduto il suo primo racconto quando ancora tu combattevi con le favolette. Credono in te, per questo sei uno scrittore, anche se non se n'è ancora reso conto nessun curatore.

Comunità. E' un affare solitario, va bene? La maggior parte delle persone che incontri non ha idea di ciò che fai. Cerchi di parlare con un vicino delle riviste e lui ti chiede se conosci Stephen King. Al workshop tutti capiscono. Se fai un'affermazione in una conversazione casuale, non devi metterti a spiegare la relatività o i raggruppamenti narrativi o i diritti d'autore. I tuoi colleghi hanno gli stessi problemi e forse anche le stesse soluzioni. E' confortante sapere che non si è necessariamente pazzi per scrivere questa roba o, almeno, se lo sei, ci sono molti altri pazzi in giro.

Influenza. A volte si imparano cose ad un workshop che non hanno nulla a che fare con la storia che si è portata. Poichè gli scrittori tendono ad essere permalosi sotto questo aspetto, forse meno se ne parla e meglio è. Comunque, è impossibile criticare un manoscritto senza scoprire sia soluzioni intelligenti che decisioni striminzite. Lo scrittore attento può emulare le prime ed evitare le seconde senza violare la propria integrità artistica. Tutti noi impariamo dalle letture, o almeno dovremmo. Per di più, alcuni scrittori partecipano ai workshop con l'intenzione dichiarata di influenzare i colleghi. Il che ci porta a...

Controversia. Il genere tende a mutare e la gente tende a discuterne ai workshop... oh, come ne discutono! E' affascinante osservare ideologie e stili confrontarsi in tempo reale, in opposizione al passo dannatamente lento dell'editoria. Quello che sorprende di questo scontro di idee non è il fatto che a volte le discussioni sfuggano di mano, ma è il quanto spesso rimangano civili ed utili. La gente che parla con gli altri trova un terreno comune, o arriva a comprendere esattamente il perchè non sia d'accordo invece di riferirsi su ciò che lui ha detto che lei ha detto che lei ha pensato che lei ha letto in una fanzine da qualche parte. Anche per coloro che non sono parte diretta del dibattito, le controversie dei workshop forniscono un incentivo all'auto-esame. Il grande controversialista Platone era solito affermare che una vita non posta sotto esame non era degna d'essere vissuta.

In ultima analisi ciò che spinge gli scrittori verso i workshop è l'ambizione. E' più facile starsene a casa e continuare a sgobbare, di certo è più economico. Ma si desidera qualcosa di più. Si vuole migliorare. Forse un workshop potrebbe essere d'aiuto, forse no. Moltissima gente comunque dice che merita una prova.


© James Patrick Kelly
originariamente pubblicato in
The Bulletin of The Science Fiction Writers of America, Spring 1988.


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