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Da una lapide

Inserito Martedì 10 luglio 2007

Narrativa un racconto di Lorenzo Ramadoro

Questa storia inizia da una lapide su cui crebbe un amore. Ma lasciate stare il solito gioco del cerchio della vita, del circolo di vita e morte che si perpetua in eterno. Non è di quello che vi voglio narrare.

La prima volta che la vidi i suoi capelli erano castani, lunghi fin dietro le spalle. Sorrideva riversa su di una sfera poggiata al terreno. Una sfera imperfetta sgorgata dal suolo con le sue miriadi di sfaccettature, con i suoi bozzi, con la sua miseria di forma scorretta. La bimba posava la schiena su quella scultura. Rimasi stupito dalla sua mancanza di tatto, dalla sua strafottenza. Chi era quella, per poter sedere al fianco di mio padre? Chi le dava il diritto?

Andai da lei chiedendole con garbo d’andarsene. Lei domandò spiegazione, quasi la pretese. Fui colto dalla rabbia e l’intimai di alzarsi. Lei rimase immobile con la schiena contro la roccia. Fu allora che mi tornarono alla mente le parole di Henry. «Il terreno non appartiene a nessuno, passa di mano in mano secondo le esigenze. Il terreno su cui riposerò dovrà essere così. Desidero solo questo, Peón.»

Parole resuscitate dai meandri della memoria. Parole celate che quella bambina aveva disgelato. Il destino mostrava il suo primo volto.

Con gli occhi confusi da iperboli di luce, le sorrisi, dicendole che poteva rimanere seduta se lo desiderava, se aveva bisogno di un appoggio su cui riposare.

Gentìo Lodel


Ero distesa, riversa nel mio dolore quando li vidi. La pancia mi esplodeva in una sofferenza atroce e stupenda. Ero sola, e loro erano troppo lontani per poter udire la mia voce strozzata dai gemiti. Ricordo la vista sfocata, alterata da lacrime. Ricordo il mio sforzo, la profonda tristezza e l’immensa gioia di quel giorno così straordinario.

Era forse un dono? Era il circolo della vita che mostrava il suo volto radioso? Due germogli che venivan fuori nel stesso momento. Lo sbocciare di un bacio e l’erompere della vita dal mio ventre. C’era un ché di magico, di estatico, in quell’attimo. Per un breve lasso di tempo sembrava che stessi afferrando il tutto. Come se le antiche teorie rapprese avessero palpitato a nuova vita. Come se dando la vita a costo di un immenso dolore potessi ricevere in cambio la comprensione che non mi era stata rivelata con anni di studi. Io, la miglior discepola, la più irriverente mente della scuola di Ser.

Sotto l’influsso di quella eufonia un leggero alito di vento trasportò parole pronunciate da un alchimista bislacco che seguitava a credere nell’impossibile. «Per avere qualcosa, bisogna dare in cambio qualcos’altro del medesimo valore.» La vecchia storia del Principio dello Scambio Equivalente. Era ovviamente una credenza popolana, eppure mi sembrava collidesse esattamente con l’estasi del momento. La sofferenza del parto veniva ripagata dalla gioia di una nuova creatura venuta al mondo per mano mia. Gli inseguimenti, gli attimi di terrore, la sensazione di assoluta impotenza. La fuga dal mio paese attraverso gli stati del nord, venivano ricambiati dalla visone della campagna circostante, del verde, e della più palese espressione d’amore tra due giovani. Non potei fare a meno di piangere nuovamente nell’osservare le carezze dei due amanti seminudi premuti sulla pietra quasi sferica. Le dita dell’uomo scivolavano sugli scintillanti capelli della ragazza. Il ricordo di me e Samuel era troppo pressante, troppo incalzante per liberarmene immergendomi nella meditazione. Appena mi ripresi riuscii, con un ultimo sforzo, a dare alla luce la mia bambina. Quindi la pulii come meglio potevo con le mani, strappando fili d’erba o raccogliendo foglie secche. L’ultimo gesto che ricordo fu il bacio che le diedi mentre la piccola batteva le mani sui miei seni. Poi svenni.

Priscilla Sunder


Nel vedere un raggio di sole così intensamente splendente irradiare di luce la lapide del grande Henry Lodel rimasi colpito. Quella lapide pareva filtrare i raggi, sgusciarli dalla loro pellicola invisibile dando loro una consistenza. Chiunque avesse realizzato quell’oggetto, chiunque fosse riuscito a dare al terreno una simile facoltà, doveva essere un genio.

Secondo le leggende, l’opera era stata realizzata da un discepolo del grande Lodel. Un allievo a lo stesso Maestro chiese di forgiare la lapide. Una stele senza nome, senza epitaffio. La cui sola distinzione dalle altre, fosse la foggia e il colore. Con le sue ultime volontà Henry Lodel riuscì a dar forma allo scopo della sua vita. Una filosofia che permea tutti coloro che, come me, han preso spunto dalla sua saggezza definendosi Discepoli della Forma. Discepoli delle idee di una persona che purtroppo non abbiam mai potuto incontrare a causa della barriera temporale frapposta tra noi e lui. Secoli di distanza nei quali Lodel ha diffuso il suo pensiero, venendo infine a morire proprio qui. In un paese di frontiera, poco lontano dal suo paese natale. Da questo pianeta è partita la Spaccatura, la scissione in due fazioni che molti definiscono semplicisticamente, la Frattura tra Bene e Male. Come se il Bene fossimo noi e il Male fossero i pianeti dell’altra alleanza. Una concezione che lo stesso Lodel ha più volte contestato riuscendo solamente ad arginare quand’era ancora in vita. Un blasfemia che ha prodotto crepe sin nelle fondamenta del pensiero lodeliano, fino ai giorni nostri in cui regna il dissenso all’interno dell’alleanza di Cedrik.

Pasaje Mordinez


La donna rimase addormentata a lungo nel letto dell’ospedale. Fortunatamente il mio seno era abbondante e colmo di latte; cosicché riuscì a sfamare i due piccini. Mio figlio e la bimba della donna passarono i primi giorni della vita cullati dalle mie cure. Si addormentavano al suono della mia voce ciondolandomi tra le braccia. Appena ristabilitasi, la madre della bambina venne a casa mia pretendendo di ricambiare quel che lei considerava un favore. Replicai in modo inamovibile che ero stata ben lieta di allattarla e rifiutai di accettare qualunque suo dono. Se ben ricordo le mie esatte parole furono: «Ho dato a tua figlia in po’ del mio latte e in cambio ho ricevuto la possibilità di cullare un secondo figlio, anche se per un breve periodo. Questo mi basta, ho dato a te e lei quanto voi avete dato a me e mio figlio. Ho solo seguito il primo precetto.»

Ma Priscilla, questo il nome della donna, si convinse che doveva contraccambiare quel gesto. Non lo disse, ma lo sapevo, glielo lessi negli occhi. Passava le giornate chiusa nella casa della Comunità a badare alla bimba. Dopo quindici giorni si ripresentò sulla soglia di casa mia e mi porse il frutto del suo lavoro. Uno splendido completino per il mio Pajaro, fatto a mano. Non seppi cosa dire. Non mi sentivo di rifiutare un simile dono costato molte notti in bianco a quella povera donna. Tuttavia non potevo ricambiare il favore a causa della partenza ormai prossima di Priscilla. Accortasi del mia titubanza, lei stessa propose una soluzione: «Facciamo così» disse, «quando mia figlia tornerà in questo paese, tu le farai un indumento, una sciapa , o dell’altro. In modo che lei cresca certa che qualcuno in un piccolo paese, la stia aspettando; la stessa donna che si prese cura di lei durante i suoi primi giorni di vita.» Poi partì, riprese il suo tortuoso cammino e non la vidi mai più.

Aleandra Sella


Quando comparve per la prima volta nessuno volle credere che quell’uomo era realmente chi diceva di essere. Non c’era alcun segno, nessuna traccia di grandezza in lui. Si raccontava di Henry Lodel come di un uomo carismatico, in grado di infervorare con un suo discorso intere folle. Quell’uomo, al contrario, arrivò nel silenzio. Non volle mai fare un discorso nella piazza. Pareva quasi infastidito dal mormorio della gente attorno.

Va detto che non si propose mai come parente del grande Lodel, solo si firmò nell’archivio della città come Gentío Lodel. La notizia corse in fretta per le strade. In pochi giorni tutti sapevano, chi era, o meglio, chi voleva farci credere di essere, quell’uomo.

Al suo fianco c’era una donna. Bella, i suoi occhi erano chiari così come i suoi capelli, avevano un riflesso iridescente di madreperla. Sembrava soffrire la luce del sole dato il cipiglio con cui girava durante il giorno. Fortunatamente i loro figli non erano affetti dai problemi della madre. Erano quattro splendidi giovinetti robusti, seppur relativamente bassi per la loro età.

Quando quell’uomo cominciò a parlare tutti si accorsero che conosceva profondamente gli insegnamenti di Lodel. Non disse mai quale rapporto di parentela c’era tra lui e il Maestro, quello stesso Lodel che secoli addietro aveva rinvigorito le tesi di Cedrik dando nuovo impeto alla ribellione contro la Prima Alleanza.

Sin dai primi incontri ci si rese subito conto che quell’uomo aveva davvero un’innata capacità di coinvolgere le persone. Lui, assieme a sua moglie, erano in grado di controbattere ogni contestazione. Pian piano la voce si sparse e da ogni parte del pianeta sopraggiunsero filosofi e maestri. Da prima saggiavano la veridicità delle voci che avevano udito, quindi s’inserivano nel gruppo considerandosi allievi di Gentío. Lui e sua moglie Gema, si rifiutavano di usare le proprie doti alchemiche al solo scopo di dimostrare le grandi capacità di cui erano in possesso. Eppure, quando questo risultava necessario, erano in grado di forgiare strutture inimmaginabili. Riuscivano persino a richiudere le ferite, sempre che queste non avessero leso l’interno del corpo.

Gema e Gentío ci insegnarono a creare oggetti dal nulla. O meglio, a riplasmare un elemento conferendo ad esso la foggia desiderata. Dei due, la più brava era la donna; c’era un ché di splendente in tutto quel che modellava. Una luce infusa fin dentro il corpo dell’oggetto.

Gema realizzava artefatti di una bellezza inarrivabile. Le sue creazioni erano frutto di eventi speciali. Per lo più matrimoni, ma anche altre cerimonie come quella del compimento della maggiore età o della lode alla Natura. Entrambi, però, rifiutavano di forgiare monumenti funebri. Il perché non si è mai saputo.

Loreno Sanchéz


Come posso non rattristarmi nel vedere la mia donna deperire? Per quanto possa impegnarmi, provare a spiegarle. Non riesce a comprendere, non riesce a credere quanto me che sono cresciuto sin da piccolo con una certezza in corpo. Il mio corpo, già! Questo mio organismo che non invecchia. Questo fisico ancora giovane nonostante i secoli trascorsi. Ogni volta che la vedo non posso non chiedermi cosa farò dopo, quando lei si spegnerà tra le mie braccia. Che senso ha, padre, l’avermi insegnato l’Elisir della lunga vita? Elisir… Sembra quasi che il rallentamento della vecchiaia possa essere ottenuto ingurgitando una fialetta, una pozione… è così che consideravano l’Alchimia gli ignoranti! Pozioni, magie che scaturivano dalla chimica. La pietra filosofale, l’Elisir dell’eterna giovinezza. Tutte balle, tutte deviazioni da un reale e cosciente approccio all’universo. Ma non è questo il luogo adatto a simili dibattiti. Ora sto scrivendo per rabbia, o più precisamente per disperazione.

Non riesco, non voglio pensare di dover passare secoli senza lei. Non è giusto! Ma forse è che tutto questo è troppo bello per prolungarsi oltre, non sarebbe corretto nei confronti di quei milioni di persone che invecchiano rapidamente. È il doveroso tributo da pagare per secoli vissuti nella gioia.

Potrei parlarne con lei, ne sarebbe probabilmente felice. Abbiam vissuto per lungo tempo senza segreti l’uno per l’altra. Ma ora che quella bambinetta mora si è fatta adulta, ora che lei è cresciuta accettando la malattia che le brucia gli occhi. Ora che sta invecchiando, come posso dirle che temo per la mia felicità quando non ci sarà più lei a prendersi cura di me? Probabilmente mi direbbe di dimenticarla, ricordandola per un solo giorno all’anno. Di dedicarmi ai nostri figli, trovargli una nuova madre. Di non pensare più al nostro amore. Mi direbbe che ci saranno altre donne in grado di colmare la sua scomparsa.

Non so, non credo di essere come mio padre. Lui me lo ha sempre detto che eravamo profondamente diversi. Che io tra tutti i suoi figli ero il solo eternamente indeciso, titubante. Per questo mi aveva dato il nome di Gentío. Le persone confondono spesso il significato del mio nome. Pensano che esso derivi dalla mia capacità di coinvolgere la gente, quando invece mio padre sottintendeva alla mia personalità. Alle mille voci che affollano la mia mente, ai contrasti , ai dubbi. Gentío, “Folla”, proprio come una miriade di individui incapaci di ragionare secondo logica. Istintivi, a volte rabbiosi. Eppure ho trovato qualcuno in grado di placare il frastuono, il rimbrottare dei pensieri. Qualcuno che mi ha fatto comprendere la necessità di seguire un’unica voce. La stessa donna indicatami dal destino pochi giorni dopo la morte di mio padre.

Gentío Lodel


Il caso segue un percorso controverso. Perché altrimenti doveva finire in questo stesso luogo la vita del mio uomo? Perché dovrei piangerlo a pochi passi dalla tomba del padre? A pochi passi dalla luogo della mia nascita? Ecco, ora hai una tomba degna del tuo nome, forgiata dalla tua stessa donna. Ho provato a farla più bella della tomba che tu plasmasti per tuo padre. «Crea una bella sfera, più rotonda che puoi. Non dovrai modificarla in seguito, una volta finita rimarrà a memoria dell’imperfezione che portiamo tutti addosso.» Era questo che ti disse. E tu prendesti le polveri di terre differente, ricche di ferro e di altri minerali, li gettasti in terra assemblandole attraverso l’Alchimia, concependo una sfera quasi perfetta su cui molti Discepoli della Forma hanno posato lo sguardo con ammirazione. Non so neppure come sia venuta la tua lapide, ho dovuto buttare in terra le polveri che avevo. Un attimo, giusto il tempo di scolpirne l’aspetto, e poi la fuga. Senza neppure un ultimo sguardo. Sei morto in nome di quel che credevi fosse giusto. In nome della non violenza. Perché sapevi che definire loro come il male assoluto significava scatenare una guerra. Sapevi che ragionare per logiche rigide avrebbe portato al conflitto armato. Dire che loro, la Prima Alleanza, fossero il Male, comportava inevitabilmente l’incapacità di cancellare in loro la sete di potere e quindi l’impossibilità di indirizzarli verso una via più consona all’umanità. Eliminava ogni possibilità di dialogo costringendoci alla guerra. Sei morto perché non credevi che dopo secoli di non belligeranza un battaglione di uomini potesse realmente invadere un altro stato. Lo si leggeva nel tuo sguardo stupito mentre fremevi con un buco nello stomaco. Mentre il sangue ruscellava fuori di te, Peón, sottraendoti la vita. Ed io non ho potuto far altro che scappare. Abbandonare il tuo corpo al nemico, costruire con queste mie mani la tua tomba. Proprio dove avevo una seconda casa. Dove una donna mi attendeva a braccia aperte con una sciarpa in dono.

Ed ora la guerra sembra alle porte. Una manipolo di pazzi che ha tra le mani il governo della Prima Alleanza vuole “riprendersi” i pianeti dell’Alleanza di Cedrik.

Eccoci, siamo alle porte di una guerra che la nostra gente non vuole. Ma loro hanno le armi, e noi, temo, dovremo difenderci. I tuoi discepoli mi acclamano, mi spingono a guidarli. E non so, non so per quanto ancora potrò rifiutarmi di essere la loro guida.

Marisa Sunder


Questa malattia mi ha tolto tanto, è vero. Il dolore che mi attraversa il corpo quando il Sole è alto in cielo è terribile. Difficile convincersi, ancora di più accettarlo senza odiare un qualche dio colpevole. Difficile curare la rabbia montante, le urla, gli strepiti. Eppure mi ha concesso di vivere più a lungo, di rivedere quel bambino presuntuoso a distanza di decenni. Di amarlo, di esser posseduta da lui. Proprio lì, dove c’eravamo conosciuti la prima volta quand’ero ancora una normale bambina dai capelli e gli occhi castani. La sindrome da cui sono affetta mi ha concesso il dono di spaziare lo sguardo. Di dare un senso alle connessioni, alle maglie in cui siamo avvolti. Riesco a vedere fili di luce collegare i individui, animali, piante, terra. Sforzandomi posso riuscire anche a comprendere il messaggio trasmesso. Posso “vedere” un dialogo presente dalla notte dei tempi del quale nessuno sospettava l’esistenza. Non so proprio come possa spiegarne il senso, seppure il significato mi par lampante.

Gema Suave


La vita è un cerchio? È davvero così semplice? Si può spiegare tutto l’Essere, con l’idea di un solo immenso circolo vorticante su se stesso?

Mi sembra che l’insieme di tutte queste testimonianze raccolte possa chiarire l’intreccio strano con cui convergono i destini delle persone. E’ possibile che un luogo diventi il fulcro di una vicenda così complessa? Non lo trovate assurdo? Non travate irrazionale che dopo secoli di pace adesso siamo costretti a difenderci mediante gli insegnamenti di mio nonno? Che l’Alchimia sia diventata un’arma nelle nostre mani? Nelle mani di noi che giurammo di non usarla mai per ferire essere vivente alcuno?

A volte mi chiedo se c’era un’altra via. Se non fosse stato possibile evitare di approfondire la conoscenza dell’Alchimia a fini bellici. Ogni soldato morto per mano dell’Alchimia grava sulla coscienza mia e della mia famiglia. A partire da mio nonno Henry fino ad arrivare a me. In fondo, è stata la nostra famiglia che ha riesumato una materia destinata all’oblio, diffondendola e fondando su di essa una filosofia di vita.

Me, mio padre Gentío, suo fratello Peón e mio nonno Henry. A volte mi domando se sia davvero giusto allargare la spaccatura aperta da Cedrik. Questa distinzione tra loro che continuano a darsi nomi di radice anglosassone e noi che parliamo castigliano. Quanto durerà questa guerra? Quando avrà fine un inutile conflitto? Quando capiremo di essere tutti figli delle stesse origini e desiderosi delle stessa armonia?

Dubbi che hanno radici profonde. Dovuti ad anni ed anni di osservazione.

Ho imparato a plasmare forme al solo contatto del mio corpo con l’oggetto da mutaformare. Ho appreso i motivi alla base della lunga vita. Posso lanciare artefatti di molteplice consistenza e dimensione con facilità. Posso difendermi con muri indistruttibili sorti in un solo attimo dal terreno. Ma non riesco ad immaginare come potrò difendermi se davvero loro stanno tornando all’antica scienza atomica rimasta sepolta per millenni. E anche se ne fossi in grado, troveranno altri metodi, escogiteranno nuove armi. Dunque, non voglio credere nella circolarità del distino. Perché questo comporta che il percorso intrapreso da quelle persone è immutabile. Che l’intera umanità verrebbe ad autodistruggersi e altri esseri cresceranno dalle nostre ceneri. Sarebbe il perpetuarsi di un circolo di distruzione-creazione immotivato, il cui solo scopo è l’evoluzione.

Ma non voglio credere in una così tragica conclusione, non posso accettarlo.

Una storia non ha fine, si collega ad altre vecchie vicende fungendo da base per le nuova. Dire che questi avvenimenti partono da una lapide non è proprio coretto. Si dovrebbe citare prima la vita dell’uomo ivi sepolto. Si dovrebbe parlare di chi fu Cedrik e di come mio nonno divenne il suo primo discepolo. Del perché si spaccò la Prima Alleanza. Da cosa scappava Priscilla Sunder e cosa trovò nel paese natio di mia zia Marisa. Di come si evolsero gli eventi, le vite delle persone citate. In definitiva si dovrebbe raccontare l’intera storia dell’umanità e di come sorse.

In ogni storia c’è dentro l’intero universo. A partire dalla sua nascita, quello che molti credono sia il Big Bang, e c’è dell’altro, che va oltre, che parte da prima.

Una storia ha un suo inizio e una sua fine; e questo limita le certezze, ma lascia spazio all’immaginazione.

Non so cosa attende me, la mia famiglia, la mia nazione, né quale sarà la sorte dell’umanità. Dati i presupposti non ho certezze per il futuro.

Ma questo mi consente di sperare, partendo dal confine ultimo della mie elucubrazioni logiche.


collegamenti:

Lorenzo Ramadoro sito personale (contiene anche racconti di SF)
gruppo artistico givanile "saltatempo" (non contiene racconti di SF)


Ho ideato e curo la rubrica "Racconti curiosamente iridescenti" interna al settimanale "L'Azione" di Fabriano; una rubrica letteraria in cui, l’anno scorso, sono stati pubblicati otto miei racconti illustrati. Rubrica che ripartirà questa estate con altri nove miei racconti commentati e illustrati da giovani artisti del gruppo “saltatempo” e altri conoscenti esterni.
Un'altra rubrica da me ideate e curata, intitolata "A mano sciolta", in cui pubblico le opere di giovani artisti fabrianesi. Rubrica che si è temporaneamente chiusa con il 34° numero. La rubrica ha da poco avviato una collaborazione con la rivista letteraria quadrimestrale "pennedoka" curata dall'Informagiovani di Alessandria. http://www.comune.alessandria.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/530 Per circa un anno ho collaborato, come giornalista, con il settimanale L'Azione, prediligendo le inchieste sul mondo sociale (in particolare sulle cooperative sociali). Collaboro anche con il quindicinale "Il Progresso" di Fabriano, per il quale scrivo articoli e racconti.
Sono stato segnalato nel premio letterario organizzato dall'associazione culturale l'Arca. E' in pubblicazione il libro "Echi di memorie" contenente i testi di premiati e segnalati, fra cui la mia lettera d'amore.
Con l'aiuto di alcuni amici organizzatori di eventi (tra cui Renato Ciavola http://www.cartoonword.it, del centro Lettura " Il Grillo Parlante" di Fabriano), sto cercando di organizzare una mostra della durata di tre mesi che dia spazio ai giovani artisti fabrianesi così da permettere loro una maggiore conoscenza e collaborazione.
Potete trovare alcuni numeri delle mie rubriche nel sito del gruppo artistico giovanile "saltatempo", all'indirizzo http://gruppo-saltatempo.blogspot.com; all'interno del quale troverete a nche il mio sito personale in cui sono postati molti miei racconti, pubblicati e non.
In ottobre uscirà la mia prima raccolta di racconti fantastico umanistico, intitolata "
I mutevoli sensi dell'Umano" e pubblicata da Il Filo Editore, gruppo Mursia.

Lorenzo Ramadoro


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