un racconto di Gianluca Turconi
finalista alla XII Edizione del premio Alien
pubblicato in "L'alveare e
dintorni"
Nel riflesso dello specchio
agganciato al soffitto, Sasha esaminò il corpo della ragazza sdraiata accanto a
lui sul letto e non lo riconobbe. La giovane donna teneva la testa appoggiata al
braccio sinistro, usato come cuscino, e una gamba piegata ad angolo spuntava
dalle lenzuola sgualcite. La linea della schiena nuda, come i fianchi ben
modellati, non lo condussero a scoperte illuminanti. Dalle labbra appena
socchiuse il suo respiro usciva leggero, durante un sonno soddisfatto seguito a
un incontro che era stato qualcosa più di semplice sesso.
Un lampo di luce e la cella di
memoria principale catapultò Sasha nell’arena Crvena Zvezda, Belgrado,
settantaduemila spettatori, dodici punti di vantaggio, tre morti, vittoria
convalidata. Sugli spalti, occhi di bambino.
Ingenuità, sentì scorrere
dentro di sé, una volta ripreso il controllo del proprio io, appena passato il
flashback.
Si alzò dal letto con la bocca
impastata dal sapore dolciastro di MDMA allucinogeno e altro, non
identificabile. Crema spermicida trasmessa per contatto, gli suggerì l’unità di
elaborazione. Doveva essere stata una notte memorabile.
La moquette che ricopriva il
pavimento era morbida sotto i piedi. Gustò la sensazione di leggerezza mentre si
recava al bagno. Il biancore del locale lo abbacinò. Non era casa sua. Lui non
aveva una casa, solo camere d’albergo, con interfacciamento diretto sulla rete
sensoria e cameriere servizievoli. Da anni non aveva più neppure un nome, non
nel vero senso della parola. Tutti lo avevano, ma a lui non serviva.
- Perché sono un
campione... - si
disse, insoddisfatto.
Riempì il lavandino con acqua
profumata all’essenza di rosa e si lavò le mani. Si guardò in un nuovo specchio,
una lastra quadrata appesa sopra rubinetti a pressione. Le piastre
dell’ispessimento scheletrico si intravedevano sotto la pelle del petto,
affiancate dai microcavi di trasmissione a formare un mosaico astratto. Un
sorriso innaturale si dipinse sul suo viso. Sapeva che parte degli impulsi
necessari a quel movimento derivavano dall’unità di elaborazione, sepolta nei
pressi dell’ipotalamo.
Un allarme suonò nella sua testa.
Era quasi in ritardo per l’allenamento.
Fu un’impresa raccattare i suoi
vestiti sparsi nella camera da letto, tra montagne di registrazioni con repliche
di eventi sportivi e biancheria intima femminile. Si soffermò ancora un istante
a studiare la ragazza. Non seppe decidersi se fosse una prostituta oppure no.
Nel dubbio, lasciò un assegno sostanzioso, con un biglietto: comprati un
regalo. Se l’era meritato comunque.
Oltrepassata la porta della
stanza, Sasha si ritrovò in un trilocale privato, con una decina di sue
oloproiezioni appese alle pareti, in pose studiate. Su un’immagine, si scoprì
accanto alla ragazza che dormiva nell’altra camera. Le stava firmando un
autografo.
- Ci mancava anche
questa, una fan. - sospirò. Le aveva
regalato un sogno in cambio di una notte e si augurò che fosse cosciente di ciò
in cui si era andata a cacciare. Era entrata negli ingranaggi dello star
system; ora qualunque reporter di provincia avrebbe spulciato nel suo
passato solo per scrivere un articolo di colore che fungesse da contorno alla
cronaca di quella sera.
Una voce infantile lo fece
trasalire: - Chi
sei?
La bambina era seduta al tavolo
della minuscola cucina, intenta a mangiare latte e corn flakes caramellati,
sotto finestre oscuranti che ruotavano la porzione d’ombra per tenere fuori il
sole. Aveva al massimo dieci anni e grandi occhi azzurri. Somigliava molto alla
sua fan.
- Sono un amico di...
- Sasha ebbe un
momento di panico nel non conoscere la risposta. - Tua sorella - azzardò.
La bambina agitò il cucchiaio in
direzione delle immagini.
- Sei tu nelle
oloproiezioni? -
domandò. Lui annuì. - Forte! Non mi piace
molto lo sport, ma Angelika ne va matta. - Sasha aveva scoperto
almeno il nome della ragazza nella camera da letto. - Vieni a sederti,
dividiamo la colazione.
- Sono in ritardo.
- Niente scuse. Mamma
e papà sono andati al lavoro, ma per prepararti del latte basto io. - Recuperò una tazza
da un mobile in formica azzurra. - Lo vuoi caldo o
freddo?
Per uscire alla svelta dalla
situazione, Sasha si sedette al tavolo. - Freddo - rispose.
Lei ottemperò e riempì il
contenitore sino a due dita dal bordo. Mischiò il latte con gemme di cioccolato
prese da un’altra scatola aperta per l’occasione.
- Pronto! - disse, con
entusiasmo.
- Buono - le rivelò,
masticando il cioccolato croccante. Era vero, genuinamente
buono.
- Allora, come ti
chiami?
- È scritto sulle
immagini.
La bambina lesse la
didascalia in rilievo sotto un suo ritratto. - Aleksandar Hadiadi... Haziadiz. -
tentò.
- Hadziadić. Aleksandar
Hadziadić - la corresse. La pronuncia del suo cognome gli uscì di bocca a
stento, arrugginita. Da due decenni nessuno gliela chiedeva più. - Ma per gli
amici, quelli veri, sono Sasha.
- E io come ti devo
chiamare?
- Mi hai offerto la
colazione, perciò sei mia amica. - Lei gradì la confidenza
concessa.
- Va bene, Sasha. Io sono Lu,
che sta per Luise. Lo sai che hai un nome strano? Da dove
vieni?
- Sono nato a Niš, in
Serbia.
- È lontana da
Amburgo?
Sasha disegnò con l’indice un
breve tratto sul tavolo. - Due ore di suburbana. - Col dito compì un piccolo
salto tra i due estremi della retta. - Meno della metà usando un volo di linea.
Sono ad Amburgo per una serie di trasferte sulla costa
atlantica.
Lei rimase interdetta: - Una
serie di cosa?
- Manifestazioni
sponsorizzate per il Gioco.
- Ah. Sei molto bravo come
giocatore? - La domanda gli strappò una risata.
- C’è chi dice che io sia il
migliore mai nato.
- Sì, sì. - Lu aggrottò la
fronte per sottolineare come non credesse affatto all’affermazione. -
Dimostramelo.
Dopo essersi puntellato al
tavolo con i piedi, Sasha si dondolò sulla sedia. - Vediamo... - Finse di
riflettere. - Che te ne pare di questo?
Prese un pezzo di cioccolato
e lo lanciò in aria, a un metro sopra le loro teste. Il dolce dalla forma
irregolare ruotò su se stesso fino al culmine della parabola ascensionale,
quindi prese a scendere. Nella ricaduta si allargò in un mostro dolciario da
venti chili, tanto grande da far piegare all’indietro Lu per la paura di esserne
schiacciata. Prima che avvenisse, il pezzo riconquistò le sue dimensioni
originarie e Sasha lo acchiappò al volo con la bocca.
- È stato spaventoso! - si
eccitò lei.
- Così doveva
essere.
- Voglio sapere come ci sei
riuscito - pretese.
- Un prestigiatore non rivela
mai i suoi trucchi.
- Per favore... - Lo sussurrò
con tale dolcezza da farlo cedere.
Sasha si batté due colpi
sulla tempia con le nocche. - Sta tutto nella nostra mente: ciò che una cosa
realmente è e anche ciò che riteniamo potrebbe essere. Tu puoi immaginare tanto
la gemma di cioccolato contenuta nella confezione quanto l’esemplare gigante che
hai creduto di vedere, ma un unico elemento appartiene alla realtà, qui e in
questo istante. La mia abilità sta nel farti pensare che entrambi invece siano
reali.
- Ci riesci da
solo?
- Naturalmente no, piccola.
Ho bisogno di un grosso aiuto. Me lo fornisce un’unità di elaborazione cerebrale
simile alla tua. - Le sfiorò la nuca dietro l’orecchio. - Forse un pochino più
potente. - Calcolò quanti impianti tradizionali servissero per avere
l’equivalente della potenza del suo. Un migliaio non sarebbero bastati. - Poi
c’è il pubblico... Se volete, tu e la tua famiglia potete venire al match di
oggi. Sarete miei ospiti.
Infilò la mano nella tasca
posteriore dei pantaloni e porse alcuni accrediti d’ingresso
gratuito.
- No, grazie - declinò
lei.
-
Perché?
- Possono morire delle
persone durante il Gioco - fu la sua risposta.
L’acclamazione della folla
prese Sasha da dentro, fino a trascinarlo di nuovo a Belgrado. Rammentava ogni
fase della sua partita d’esordio, dal cedimento del primo avversario alla
proclamazione ufficiale della vittoria. Soprattutto, aveva impressa la
sensazione empatica di essere parte integrante di quella massa di esseri umani
assiepata sulle tribune. Eppure, tra il pubblico, occhi di un bambino che
guardava.
Innocenza e
apprensione,
gli restituì la cella di memoria, le stesse dipinte nei tratti fanciulleschi di
Lu.
- Come stai? - si preoccupò
la bambina di fronte al suo malessere.
- Meglio - le garantì, a
denti stretti. - Ogni tanto mi succede. Sono scompensi temporali, nient’altro
che ricordi in affioramento nella mia cella di memoria. Passano in fretta. - Lu
non comprese il linguaggio. - Niente di cui ti debba preoccupare. È meglio che
vada o mancherò l’appuntamento.
- Non aspetti che mia sorella
si svegli?
- Preferisco di no. Salutala
da parte mia. - Identificò la vera uscita nell’angusto spazio dell’appartamento
e vi si diresse.
- Sasha! - lo
richiamò.
-
Dimmi.
- Sei una persona simpatica,
per essere un giocatore. - Un secondo sorriso, amaro, spuntò sulle labbra di
Sasha.
- Anche tu sei simpatica, Lu.
- Si lasciarono con un cenno della mano per saluto.
L’uscita lo condusse in un
corridoio d’albergo, in mezzo a droidi di pulizia e inservienti affaccendati.
Stringeva ancora la maniglia in mano, a dividere i due mondi solo pochi
centimetri di legno e alluminio. L’addetto al piano, in divisa blu con fregi
dorati ai polsi e bottoni d’ottone a chiusura, gli parlò come fossero stati
amici d’infanzia, con un forte accento di Novi Beograd.
- Falli a brandelli questa
sera, campione! - In aggiunta all’incitamento, gli regalò una calorosa stretta
sull’avambraccio.
Sasha controllò l’interno
della stanza. Non c’era nessun trilocale e nessuna Lu, ma uno schermo da parete
che trasmetteva il notiziario delle tredici e un letto singolo, vuoto. L’albergo
era la realtà.
Quella realizzazione lo portò
a telefonare al suo agente per comunicargli la decisione. Non ci avrebbe
ripensato.
I disordini cominciarono
appena superato il ponte maggiore sulla Sava. Degli studenti universitari si
erano organizzati in gruppi di contestazione lungo il viale alberato che
conduceva all’arena. Al passaggio della sua auto, si misero a bombardarla con
una sostanza che Sasha si augurò fosse solo sangue di maiale o vernice colorata,
come accaduto altre volte.
Una ragazzetta bionda, che
poteva avere la metà dei suoi anni, si fece quasi mettere sotto per schiacciarsi
contro il finestrino laterale e gridargli con odio vero: -
Assassino!
- Vuole che chieda alla
polizia di fornirci una scorta? - si informò l’autista, le dita già vicine
all’innesto per effettuare la chiamata.
- No. I tumulti si calmeranno
da soli arrivati all’arena - chiarì lui.
E così accadde. La struttura
della Crvena Zvezda era stata ammodernata dai tempi del suo
frequente ricordo, grazie all’aggiunta di un quarto livello sopraelevato per il
pubblico e di ripetitori più potenti. L’area sensoria diretta copriva perlomeno
un chilometro quadrato. Circondato dai suoi tifosi in coda ai botteghini, si
sentì al sicuro. Lì i contestatori non sarebbero mai
giunti.
All’interno dello stadio,
trovò Andreas in piedi negli spogliatoi, intento a mangiarsi le unghie, stretto
nel suo vestito di sartoria italiana. Nel momento in cui lo vide, il procuratore
scavalcò a fatica una panca e gli venne incontro.
- Sasha, cos’è questa storia
del tuo ritiro? Non dirai sul serio? Non puoi darmi questo dolore. - L’uomo
strinse le mani al petto. Nel movimento spiegazzò la camicia
stirata.
- Sei un grande attore, Andy
- gli disse Sasha, mentre indossava la tuta di contenimento ricoperta dai
riquadri colorati degli sponsor. - Avresti dovuto scegliere il teatro invece di
diventare il mio agente.
- Non mi fai
ridere.
- Non era mia
intenzione.
- È una decisione
definitiva?
- Sì. Questo è il mio ultimo
incontro. - Andreas divenne paonazzo.
- Sei folle a comportarti in
questo modo. Non ti puoi alzare una mattina e decidere di chiudere la tua
carriera. Siamo amici da quindici anni, mi merito qualcosa di più di una
telefonata per mettermi al corrente della notizia. Riflettici... Se è per gli
scompensi temporali, puoi prenderti una pausa. Tre mesi in una clinica di
rieducazione e ne esci come nuovo.
Sasha si spazientì. -
Ascoltami bene. Ho trentanove anni, venti dei quali spesi nel circuito
professionista del Gioco, e stamattina ho avuto degli scompensi concatenati.
Vivevo in un ricordo contemporaneo ad altri che non erano miei. Ho salutato
persino una bambina incontrata tre anni fa ad Amburgo. Già quel giorno avrei
dovuto prendere la decisione di ritirarmi, perché mi aveva fatto capire molte
cose sulla mia vita. Devo tirarmene fuori prima che io muoia sul campo o in un
letto di qualche albergo a cinque stelle. Ho iniziato in questa arena e qui
smetterò, quindi non sprecare il fiato, perché niente che dirai mi spingerà a
cambiare idea.
Sasha si voltò e abbandonò lo
spogliatoio per incamminarsi nel tunnel che portava alla sala di
rappresentazione. Udì il rumore dei suoi passi sulle piastrelle, ma presto il
fragore della folla divenne alto e potente. Chiamavano una persona per nome.
Volevano lui.
Riemerse nella luce della
sala, galvanizzato dall’esultanza del pubblico. Alzò le braccia al cielo con i
pugni chiusi e l’entusiasmo crebbe, incontrollabile.
- Connessione! - gridò sotto
lo stimolo delle unità di elaborazione di centomila individui. Sasha!,
urlavano, travolti dalla loro stessa fede. Erano veri
amici.
I suoi tre avversari lo
aspettavano alle posizioni di partenza, sul fondo dell’arena. La prima mossa
spettava a lui. Scelse il campo per lo scontro.
Creò un’ampia cattedrale,
sorretta da contrafforti titanici che sottraevano peso alle pareti, ornate da
azzardati archi rampanti e vetrate spinte all’infinito. La potenza di calcolo
dei suoi sostenitori gli diede la possibilità di riprodurre i filtraggi di luce
nel chiaroscuro della navata.
L’attacco iniziale giunse
dalla sua destra. Una colonna di ghiaccio volò a fendere l’aria con un sibilo.
Sasha si chinò e rialzò il braccio come se stesse cogliendo un frutto caduto da
un albero. In risposta al movimento, dalla pavimentazione marmorea della
cattedrale si estruse un dosso, su cui si schiantò l’enorme dardo, frantumandosi
in schegge che scivolarono lontane.
- Nuvole d’inferno! - elaborò
Sasha, in sequenza. Il dosso si aprì al centro e ne fuoriuscì magma infuocato
che sublimò il ghiaccio in vapore ardente. Infine, un forte aliseo sospinse le
nuvole nel contrattacco vittorioso. La sofferenza del suo oppositore si espanse
nella sala di rappresentazione, unico fattore più grande dell’appagamento del
pubblico per la spettacolare fantasia della giocata.
Avrebbe potuto uccidere
l’avversario e aumentare il proprio punteggio, ma in quello scontro nessuno
sarebbe morto per mano sua. Consentì che si ritirasse. Era un regalo che doveva
a Lu con molti anni di ritardo. La magnanimità dimostrata guadagnò alla sua
causa un nuovo settore dell’arena.
Rispetto. L’affluire del loro
sentimento inebriò il suo cervello attraverso i microcavi di trasmissione.
Quell’ultimo incontro sarebbe stato la sua apoteosi.
Un’alleanza.
La percepì concreta,
nell’opposizione di forze scaturita dall’unione dei due giocatori rimasti. Gli
fu immediatamente chiaro che il loro accordo era anomalo. In esso vi era una
stella e un satellite, un gigante e un nano, una mente e un
braccio.
- La tua sconfitta giungerà
improvvisa - gli annunciarono.
- Se ne sarete capaci! -
ribatté Sasha. Cori di richiamo gli confermarono il sostegno del
pubblico.
- Il tuo declino è iniziato e
ancora non te ne rendi conto - disse una voce giovanile per mezzo del corpo di
un leopardo, sopraggiunto alle spalle di Sasha con andatura da caccia. La fiera
gli affondò i denti in una coscia, scuotendo la testa e tirando. Le piastre
d’ispessimento si piegarono sotto la pressione dei muscoli circostanti e si
spezzarono in punti circolari, in corrispondenza delle ferite inferte
dall’elaborazione. Si era guadagnato un’emorragia interna senza nessuna
lacerazione esterna.
Un brivido corse tra il
pubblico. Era incertezza, dubbio e disorientamento. Vi furono alcune defezioni,
nuove forze per gli avversari. Sasha indirizzò contro l’anello debole
dell’alleanza l’ira tagliente causata dal tradimento dei tifosi, sotto forma di
spade in acciaio di Toledo. Annientarono il leopardo e saettarono veloci a
straziare le carni altrui. Il vantaggio era stato
ristabilito.
Tuttavia, con l’esclusione
del secondo giocatore, nell’equilibrio di forze nulla era mutato. Colui che lo
affrontava aveva una piccola schiera di accoliti, inamovibili nella loro
fiducia, incrollabili nel loro credo. Lo conoscevano nell’intimo e lo
idolatravano, l’avrebbero seguito nel confronto, persino perendo con lui se si
fosse reso necessario. Sasha ne fu intimorito, perché era lo stesso legame che
lo aveva unito ai suoi fan agli inizi.
- Cosa vuoi da me? - si
sorprese a chiedere.
- La tua vita - gli rispose
l’altro giocatore. La frase arrivò sull’onda di un rombo di tuono crescente. La
mandria di purosangue arabi calpestò il marmo della cattedrale spezzandolo con
vigore, così da propagare le vibrazioni alle pareti che si incrinarono, in una
caduta continua di stucchi e affreschi di volta.
Il cozzo con gli zoccoli di
quei cavalli trascinò Sasha per la sala di rappresentazione, restituendo dolore
a ogni respiro e spasmi a ogni battito del cuore.
Orrore, analizzò la sua unità di
elaborazione, interconnessa con le molte altre che affollavano le tribune.
Orrore per un campione gettato nella polvere, orrore per il crollo di un
mito.
La sala fu riempita con
un’ambientazione diversa e datata, non scelta da lui. L’arena scalò in una
dimensione più contenuta, con un grande tabellone segnapunti in sospensione
sull’area di gioco, delimitata da balaustre in legno della Stiria. Sasha si
rammentava perché erano state poste a quei tempi. Inducevano un senso di
sicurezza negli spettatori e limitavano la risposta sensoriale durante le
elaborazioni, quando ancora non erano state rese obbligatorie le tute di
contenimento.
- Sono trascorsi vent’anni
dal tuo esordio, Hadziadić - gli disse il giovane avversario, in piedi qualche
metro più avanti. - Io c’ero. Sedevo lassù, in trentaduesima fila. - Gli spalti
gremiti si spopolarono, settore per settore, posto dopo posto. Un bambino,
isolato nei suoi cinque anni, saltellava felice sulla gradinata, colmo di un
tifo sincero, mai domo.
- Non ti conosco - replicò
Sasha, dopo aver analizzato i lineamenti mediterranei
dell’altro.
- Strano... Se oggi sono qui,
è merito tuo. Sono Kostas Alexoulis, e ti ho messo in
ginocchio.
Sasha fu rapito da un flusso
dati che lo trasportò a quella trentaduesima fila, nel cervello di quel bambino
di cinque anni, per vedere con i suoi occhi.
Si riconobbe da ragazzo
mentre il combattimento d’esordio volgeva al termine, nel crescente entusiasmo
di un pubblico ignaro di avere di fronte una nuova stella di prima grandezza.
Sovrastava un uomo che aveva sconfitto con un punteggio irrecuperabile, in
misura eguale a quella con cui lui era stato battuto da Alexoulis. Il match
doveva chiudersi a quel punto, perché il terzo decesso avrebbe posto la vittoria
sub iudice, legandola ai capricci della giuria. All’opposto, Sasha aveva
voluto infliggergli il colpo di grazia, provare cosa volesse dire avere diritto
di vita e di morte su un uomo, ascoltare la massa umana in subbuglio aprirgli la
strada per divenire una leggenda vivente.
Percepì l’ingenuità,
l’innocenza, l’apprensione e l’orrore del bambino, nel momento in cui il
perdente subiva la sua sorte. In un’altra elaborazione, Sasha provò anche ciò
che aveva avuto nell’animo un figlio mentre il padre moriva nel
Gioco.
- Rispetto... - disse, pieno
di sgomento.
- Mio padre stava morendo e
io nutrivo rispetto per te! - ruggì Kostas, tra le lacrime. Gli alzò la
testa con una mano e distese l’indice dell’altra. - Osserva i bambini di oggi,
sostieni il loro sguardo, se ne sei capace, e ammira la nascita di un nuovo
campione!
La Crvena Zvezda si
riempì di ragazzi di ogni età, trepidanti, ansiosi di conoscere l’esito dello
scontro. Sasha si perse in quell’eccitazione, assaporandone l’inebriante
freschezza, rinnovata per l’eternità. Nell’atto di ucciderlo col peso
insopportabile delle sue colpe presenti e passate, la futura generazione di
giocatori gli trasmise un’ultima elaborazione.
Oblio.