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Il campione

Inserito Giovedì 29 novembre 2007

Narrativa un racconto di Gianluca Turconi

finalista alla XII Edizione del premio Alien


pubblicato in "L'alveare e dintorni"

Nel riflesso dello specchio agganciato al soffitto, Sasha esaminò il corpo della ragazza sdraiata accanto a lui sul letto e non lo riconobbe. La giovane donna teneva la testa appoggiata al braccio sinistro, usato come cuscino, e una gamba piegata ad angolo spuntava dalle lenzuola sgualcite. La linea della schiena nuda, come i fianchi ben modellati, non lo condussero a scoperte illuminanti. Dalle labbra appena socchiuse il suo respiro usciva leggero, durante un sonno soddisfatto seguito a un incontro che era stato qualcosa più di semplice sesso.

Un lampo di luce e la cella di memoria principale catapultò Sasha nell’arena Crvena Zvezda, Belgrado, settantaduemila spettatori, dodici punti di vantaggio, tre morti, vittoria convalidata. Sugli spalti, occhi di bambino.

Ingenuità, sentì scorrere dentro di sé, una volta ripreso il controllo del proprio io, appena passato il flashback.

Si alzò dal letto con la bocca impastata dal sapore dolciastro di MDMA allucinogeno e altro, non identificabile. Crema spermicida trasmessa per contatto, gli suggerì l’unità di elaborazione. Doveva essere stata una notte memorabile.

La moquette che ricopriva il pavimento era morbida sotto i piedi. Gustò la sensazione di leggerezza mentre si recava al bagno. Il biancore del locale lo abbacinò. Non era casa sua. Lui non aveva una casa, solo camere d’albergo, con interfacciamento diretto sulla rete sensoria e cameriere servizievoli. Da anni non aveva più neppure un nome, non nel vero senso della parola. Tutti lo avevano, ma a lui non serviva.

- Perché sono un campione... - si disse, insoddisfatto.

Riempì il lavandino con acqua profumata all’essenza di rosa e si lavò le mani. Si guardò in un nuovo specchio, una lastra quadrata appesa sopra rubinetti a pressione. Le piastre dell’ispessimento scheletrico si intravedevano sotto la pelle del petto, affiancate dai microcavi di trasmissione a formare un mosaico astratto. Un sorriso innaturale si dipinse sul suo viso. Sapeva che parte degli impulsi necessari a quel movimento derivavano dall’unità di elaborazione, sepolta nei pressi dell’ipotalamo.

Un allarme suonò nella sua testa. Era quasi in ritardo per l’allenamento.

Fu un’impresa raccattare i suoi vestiti sparsi nella camera da letto, tra montagne di registrazioni con repliche di eventi sportivi e biancheria intima femminile. Si soffermò ancora un istante a studiare la ragazza. Non seppe decidersi se fosse una prostituta oppure no. Nel dubbio, lasciò un assegno sostanzioso, con un biglietto: comprati un regalo. Se l’era meritato comunque.

Oltrepassata la porta della stanza, Sasha si ritrovò in un trilocale privato, con una decina di sue oloproiezioni appese alle pareti, in pose studiate. Su un’immagine, si scoprì accanto alla ragazza che dormiva nell’altra camera. Le stava firmando un autografo.

- Ci mancava anche questa, una fan. - sospirò. Le aveva regalato un sogno in cambio di una notte e si augurò che fosse cosciente di ciò in cui si era andata a cacciare. Era entrata negli ingranaggi dello star system; ora qualunque reporter di provincia avrebbe spulciato nel suo passato solo per scrivere un articolo di colore che fungesse da contorno alla cronaca di quella sera.

Una voce infantile lo fece trasalire: - Chi sei?

La bambina era seduta al tavolo della minuscola cucina, intenta a mangiare latte e corn flakes caramellati, sotto finestre oscuranti che ruotavano la porzione d’ombra per tenere fuori il sole. Aveva al massimo dieci anni e grandi occhi azzurri. Somigliava molto alla sua fan.

- Sono un amico di... - Sasha ebbe un momento di panico nel non conoscere la risposta. - Tua sorella - azzardò.

La bambina agitò il cucchiaio in direzione delle immagini.

- Sei tu nelle oloproiezioni? - domandò. Lui annuì. - Forte! Non mi piace molto lo sport, ma Angelika ne va matta. - Sasha aveva scoperto almeno il nome della ragazza nella camera da letto. - Vieni a sederti, dividiamo la colazione.

- Sono in ritardo.

- Niente scuse. Mamma e papà sono andati al lavoro, ma per prepararti del latte basto io. - Recuperò una tazza da un mobile in formica azzurra. - Lo vuoi caldo o freddo?

Per uscire alla svelta dalla situazione, Sasha si sedette al tavolo. - Freddo - rispose.

Lei ottemperò e riempì il contenitore sino a due dita dal bordo. Mischiò il latte con gemme di cioccolato prese da un’altra scatola aperta per l’occasione.

- Pronto! - disse, con entusiasmo.

- Buono - le rivelò, masticando il cioccolato croccante. Era vero, genuinamente buono.

- Allora, come ti chiami?

- È scritto sulle immagini.

La bambina lesse la didascalia in rilievo sotto un suo ritratto. - Aleksandar Hadiadi... Haziadiz. - tentò.

- Hadziadić. Aleksandar Hadziadić - la corresse. La pronuncia del suo cognome gli uscì di bocca a stento, arrugginita. Da due decenni nessuno gliela chiedeva più. - Ma per gli amici, quelli veri, sono Sasha.

- E io come ti devo chiamare?

- Mi hai offerto la colazione, perciò sei mia amica. - Lei gradì la confidenza concessa.

- Va bene, Sasha. Io sono Lu, che sta per Luise. Lo sai che hai un nome strano? Da dove vieni?

- Sono nato a Niš, in Serbia.

- È lontana da Amburgo?

Sasha disegnò con l’indice un breve tratto sul tavolo. - Due ore di suburbana. - Col dito compì un piccolo salto tra i due estremi della retta. - Meno della metà usando un volo di linea. Sono ad Amburgo per una serie di trasferte sulla costa atlantica.

Lei rimase interdetta: - Una serie di cosa?

- Manifestazioni sponsorizzate per il Gioco.

- Ah. Sei molto bravo come giocatore? - La domanda gli strappò una risata.

- C’è chi dice che io sia il migliore mai nato.

- Sì, sì. - Lu aggrottò la fronte per sottolineare come non credesse affatto all’affermazione. - Dimostramelo.

Dopo essersi puntellato al tavolo con i piedi, Sasha si dondolò sulla sedia. - Vediamo... - Finse di riflettere. - Che te ne pare di questo?

Prese un pezzo di cioccolato e lo lanciò in aria, a un metro sopra le loro teste. Il dolce dalla forma irregolare ruotò su se stesso fino al culmine della parabola ascensionale, quindi prese a scendere. Nella ricaduta si allargò in un mostro dolciario da venti chili, tanto grande da far piegare all’indietro Lu per la paura di esserne schiacciata. Prima che avvenisse, il pezzo riconquistò le sue dimensioni originarie e Sasha lo acchiappò al volo con la bocca.

- È stato spaventoso! - si eccitò lei.

- Così doveva essere.

- Voglio sapere come ci sei riuscito - pretese.

- Un prestigiatore non rivela mai i suoi trucchi.

- Per favore... - Lo sussurrò con tale dolcezza da farlo cedere.

Sasha si batté due colpi sulla tempia con le nocche. - Sta tutto nella nostra mente: ciò che una cosa realmente è e anche ciò che riteniamo potrebbe essere. Tu puoi immaginare tanto la gemma di cioccolato contenuta nella confezione quanto l’esemplare gigante che hai creduto di vedere, ma un unico elemento appartiene alla realtà, qui e in questo istante. La mia abilità sta nel farti pensare che entrambi invece siano reali.

- Ci riesci da solo?

- Naturalmente no, piccola. Ho bisogno di un grosso aiuto. Me lo fornisce un’unità di elaborazione cerebrale simile alla tua. - Le sfiorò la nuca dietro l’orecchio. - Forse un pochino più potente. - Calcolò quanti impianti tradizionali servissero per avere l’equivalente della potenza del suo. Un migliaio non sarebbero bastati. - Poi c’è il pubblico... Se volete, tu e la tua famiglia potete venire al match di oggi. Sarete miei ospiti.

Infilò la mano nella tasca posteriore dei pantaloni e porse alcuni accrediti d’ingresso gratuito.

- No, grazie - declinò lei.

- Perché?

- Possono morire delle persone durante il Gioco - fu la sua risposta.

L’acclamazione della folla prese Sasha da dentro, fino a trascinarlo di nuovo a Belgrado. Rammentava ogni fase della sua partita d’esordio, dal cedimento del primo avversario alla proclamazione ufficiale della vittoria. Soprattutto, aveva impressa la sensazione empatica di essere parte integrante di quella massa di esseri umani assiepata sulle tribune. Eppure, tra il pubblico, occhi di un bambino che guardava.

Innocenza e apprensione, gli restituì la cella di memoria, le stesse dipinte nei tratti fanciulleschi di Lu.

- Come stai? - si preoccupò la bambina di fronte al suo malessere.

- Meglio - le garantì, a denti stretti. - Ogni tanto mi succede. Sono scompensi temporali, nient’altro che ricordi in affioramento nella mia cella di memoria. Passano in fretta. - Lu non comprese il linguaggio. - Niente di cui ti debba preoccupare. È meglio che vada o mancherò l’appuntamento.

- Non aspetti che mia sorella si svegli?

- Preferisco di no. Salutala da parte mia. - Identificò la vera uscita nell’angusto spazio dell’appartamento e vi si diresse.

- Sasha! - lo richiamò.

- Dimmi.

- Sei una persona simpatica, per essere un giocatore. - Un secondo sorriso, amaro, spuntò sulle labbra di Sasha.

- Anche tu sei simpatica, Lu. - Si lasciarono con un cenno della mano per saluto.

L’uscita lo condusse in un corridoio d’albergo, in mezzo a droidi di pulizia e inservienti affaccendati. Stringeva ancora la maniglia in mano, a dividere i due mondi solo pochi centimetri di legno e alluminio. L’addetto al piano, in divisa blu con fregi dorati ai polsi e bottoni d’ottone a chiusura, gli parlò come fossero stati amici d’infanzia, con un forte accento di Novi Beograd.

- Falli a brandelli questa sera, campione! - In aggiunta all’incitamento, gli regalò una calorosa stretta sull’avambraccio.

Sasha controllò l’interno della stanza. Non c’era nessun trilocale e nessuna Lu, ma uno schermo da parete che trasmetteva il notiziario delle tredici e un letto singolo, vuoto. L’albergo era la realtà.

Quella realizzazione lo portò a telefonare al suo agente per comunicargli la decisione. Non ci avrebbe ripensato.

I disordini cominciarono appena superato il ponte maggiore sulla Sava. Degli studenti universitari si erano organizzati in gruppi di contestazione lungo il viale alberato che conduceva all’arena. Al passaggio della sua auto, si misero a bombardarla con una sostanza che Sasha si augurò fosse solo sangue di maiale o vernice colorata, come accaduto altre volte.

Una ragazzetta bionda, che poteva avere la metà dei suoi anni, si fece quasi mettere sotto per schiacciarsi contro il finestrino laterale e gridargli con odio vero: - Assassino!

- Vuole che chieda alla polizia di fornirci una scorta? - si informò l’autista, le dita già vicine all’innesto per effettuare la chiamata.

- No. I tumulti si calmeranno da soli arrivati all’arena - chiarì lui.

E così accadde. La struttura della Crvena Zvezda era stata ammodernata dai tempi del suo frequente ricordo, grazie all’aggiunta di un quarto livello sopraelevato per il pubblico e di ripetitori più potenti. L’area sensoria diretta copriva perlomeno un chilometro quadrato. Circondato dai suoi tifosi in coda ai botteghini, si sentì al sicuro. Lì i contestatori non sarebbero mai giunti.

All’interno dello stadio, trovò Andreas in piedi negli spogliatoi, intento a mangiarsi le unghie, stretto nel suo vestito di sartoria italiana. Nel momento in cui lo vide, il procuratore scavalcò a fatica una panca e gli venne incontro.

- Sasha, cos’è questa storia del tuo ritiro? Non dirai sul serio? Non puoi darmi questo dolore. - L’uomo strinse le mani al petto. Nel movimento spiegazzò la camicia stirata.

- Sei un grande attore, Andy - gli disse Sasha, mentre indossava la tuta di contenimento ricoperta dai riquadri colorati degli sponsor. - Avresti dovuto scegliere il teatro invece di diventare il mio agente.

- Non mi fai ridere.

- Non era mia intenzione.

- È una decisione definitiva?

- Sì. Questo è il mio ultimo incontro. - Andreas divenne paonazzo.

- Sei folle a comportarti in questo modo. Non ti puoi alzare una mattina e decidere di chiudere la tua carriera. Siamo amici da quindici anni, mi merito qualcosa di più di una telefonata per mettermi al corrente della notizia. Riflettici... Se è per gli scompensi temporali, puoi prenderti una pausa. Tre mesi in una clinica di rieducazione e ne esci come nuovo.

Sasha si spazientì. - Ascoltami bene. Ho trentanove anni, venti dei quali spesi nel circuito professionista del Gioco, e stamattina ho avuto degli scompensi concatenati. Vivevo in un ricordo contemporaneo ad altri che non erano miei. Ho salutato persino una bambina incontrata tre anni fa ad Amburgo. Già quel giorno avrei dovuto prendere la decisione di ritirarmi, perché mi aveva fatto capire molte cose sulla mia vita. Devo tirarmene fuori prima che io muoia sul campo o in un letto di qualche albergo a cinque stelle. Ho iniziato in questa arena e qui smetterò, quindi non sprecare il fiato, perché niente che dirai mi spingerà a cambiare idea.

Sasha si voltò e abbandonò lo spogliatoio per incamminarsi nel tunnel che portava alla sala di rappresentazione. Udì il rumore dei suoi passi sulle piastrelle, ma presto il fragore della folla divenne alto e potente. Chiamavano una persona per nome. Volevano lui.

Riemerse nella luce della sala, galvanizzato dall’esultanza del pubblico. Alzò le braccia al cielo con i pugni chiusi e l’entusiasmo crebbe, incontrollabile.

- Connessione! - gridò sotto lo stimolo delle unità di elaborazione di centomila individui. Sasha!, urlavano, travolti dalla loro stessa fede. Erano veri amici.

I suoi tre avversari lo aspettavano alle posizioni di partenza, sul fondo dell’arena. La prima mossa spettava a lui. Scelse il campo per lo scontro.

Creò un’ampia cattedrale, sorretta da contrafforti titanici che sottraevano peso alle pareti, ornate da azzardati archi rampanti e vetrate spinte all’infinito. La potenza di calcolo dei suoi sostenitori gli diede la possibilità di riprodurre i filtraggi di luce nel chiaroscuro della navata.

L’attacco iniziale giunse dalla sua destra. Una colonna di ghiaccio volò a fendere l’aria con un sibilo. Sasha si chinò e rialzò il braccio come se stesse cogliendo un frutto caduto da un albero. In risposta al movimento, dalla pavimentazione marmorea della cattedrale si estruse un dosso, su cui si schiantò l’enorme dardo, frantumandosi in schegge che scivolarono lontane.

- Nuvole d’inferno! - elaborò Sasha, in sequenza. Il dosso si aprì al centro e ne fuoriuscì magma infuocato che sublimò il ghiaccio in vapore ardente. Infine, un forte aliseo sospinse le nuvole nel contrattacco vittorioso. La sofferenza del suo oppositore si espanse nella sala di rappresentazione, unico fattore più grande dell’appagamento del pubblico per la spettacolare fantasia della giocata.

Avrebbe potuto uccidere l’avversario e aumentare il proprio punteggio, ma in quello scontro nessuno sarebbe morto per mano sua. Consentì che si ritirasse. Era un regalo che doveva a Lu con molti anni di ritardo. La magnanimità dimostrata guadagnò alla sua causa un nuovo settore dell’arena.

Rispetto. L’affluire del loro sentimento inebriò il suo cervello attraverso i microcavi di trasmissione. Quell’ultimo incontro sarebbe stato la sua apoteosi.

Un’alleanza.

La percepì concreta, nell’opposizione di forze scaturita dall’unione dei due giocatori rimasti. Gli fu immediatamente chiaro che il loro accordo era anomalo. In esso vi era una stella e un satellite, un gigante e un nano, una mente e un braccio.

- La tua sconfitta giungerà improvvisa - gli annunciarono.

- Se ne sarete capaci! - ribatté Sasha. Cori di richiamo gli confermarono il sostegno del pubblico.

- Il tuo declino è iniziato e ancora non te ne rendi conto - disse una voce giovanile per mezzo del corpo di un leopardo, sopraggiunto alle spalle di Sasha con andatura da caccia. La fiera gli affondò i denti in una coscia, scuotendo la testa e tirando. Le piastre d’ispessimento si piegarono sotto la pressione dei muscoli circostanti e si spezzarono in punti circolari, in corrispondenza delle ferite inferte dall’elaborazione. Si era guadagnato un’emorragia interna senza nessuna lacerazione esterna.

Un brivido corse tra il pubblico. Era incertezza, dubbio e disorientamento. Vi furono alcune defezioni, nuove forze per gli avversari. Sasha indirizzò contro l’anello debole dell’alleanza l’ira tagliente causata dal tradimento dei tifosi, sotto forma di spade in acciaio di Toledo. Annientarono il leopardo e saettarono veloci a straziare le carni altrui. Il vantaggio era stato ristabilito.

Tuttavia, con l’esclusione del secondo giocatore, nell’equilibrio di forze nulla era mutato. Colui che lo affrontava aveva una piccola schiera di accoliti, inamovibili nella loro fiducia, incrollabili nel loro credo. Lo conoscevano nell’intimo e lo idolatravano, l’avrebbero seguito nel confronto, persino perendo con lui se si fosse reso necessario. Sasha ne fu intimorito, perché era lo stesso legame che lo aveva unito ai suoi fan agli inizi.

- Cosa vuoi da me? - si sorprese a chiedere.

- La tua vita - gli rispose l’altro giocatore. La frase arrivò sull’onda di un rombo di tuono crescente. La mandria di purosangue arabi calpestò il marmo della cattedrale spezzandolo con vigore, così da propagare le vibrazioni alle pareti che si incrinarono, in una caduta continua di stucchi e affreschi di volta.

Il cozzo con gli zoccoli di quei cavalli trascinò Sasha per la sala di rappresentazione, restituendo dolore a ogni respiro e spasmi a ogni battito del cuore.

Orrore, analizzò la sua unità di elaborazione, interconnessa con le molte altre che affollavano le tribune. Orrore per un campione gettato nella polvere, orrore per il crollo di un mito.

La sala fu riempita con un’ambientazione diversa e datata, non scelta da lui. L’arena scalò in una dimensione più contenuta, con un grande tabellone segnapunti in sospensione sull’area di gioco, delimitata da balaustre in legno della Stiria. Sasha si rammentava perché erano state poste a quei tempi. Inducevano un senso di sicurezza negli spettatori e limitavano la risposta sensoriale durante le elaborazioni, quando ancora non erano state rese obbligatorie le tute di contenimento.

- Sono trascorsi vent’anni dal tuo esordio, Hadziadić - gli disse il giovane avversario, in piedi qualche metro più avanti. - Io c’ero. Sedevo lassù, in trentaduesima fila. - Gli spalti gremiti si spopolarono, settore per settore, posto dopo posto. Un bambino, isolato nei suoi cinque anni, saltellava felice sulla gradinata, colmo di un tifo sincero, mai domo.

- Non ti conosco - replicò Sasha, dopo aver analizzato i lineamenti mediterranei dell’altro.

- Strano... Se oggi sono qui, è merito tuo. Sono Kostas Alexoulis, e ti ho messo in ginocchio.

Sasha fu rapito da un flusso dati che lo trasportò a quella trentaduesima fila, nel cervello di quel bambino di cinque anni, per vedere con i suoi occhi.

Si riconobbe da ragazzo mentre il combattimento d’esordio volgeva al termine, nel crescente entusiasmo di un pubblico ignaro di avere di fronte una nuova stella di prima grandezza. Sovrastava un uomo che aveva sconfitto con un punteggio irrecuperabile, in misura eguale a quella con cui lui era stato battuto da Alexoulis. Il match doveva chiudersi a quel punto, perché il terzo decesso avrebbe posto la vittoria sub iudice, legandola ai capricci della giuria. All’opposto, Sasha aveva voluto infliggergli il colpo di grazia, provare cosa volesse dire avere diritto di vita e di morte su un uomo, ascoltare la massa umana in subbuglio aprirgli la strada per divenire una leggenda vivente.

Percepì l’ingenuità, l’innocenza, l’apprensione e l’orrore del bambino, nel momento in cui il perdente subiva la sua sorte. In un’altra elaborazione, Sasha provò anche ciò che aveva avuto nell’animo un figlio mentre il padre moriva nel Gioco.

- Rispetto... - disse, pieno di sgomento.

- Mio padre stava morendo e io nutrivo rispetto per te! - ruggì Kostas, tra le lacrime. Gli alzò la testa con una mano e distese l’indice dell’altra. - Osserva i bambini di oggi, sostieni il loro sguardo, se ne sei capace, e ammira la nascita di un nuovo campione!

La Crvena Zvezda si riempì di ragazzi di ogni età, trepidanti, ansiosi di conoscere l’esito dello scontro. Sasha si perse in quell’eccitazione, assaporandone l’inebriante freschezza, rinnovata per l’eternità. Nell’atto di ucciderlo col peso insopportabile delle sue colpe presenti e passate, la futura generazione di giocatori gli trasmise un’ultima elaborazione.

Oblio.


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