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Capacità utopica e scrittura come utopia: Woman on the edge of time

Inserito Mercoledì 16 gennaio 2008

Saggistica un saggio di Antonella Russo su un romanzo di Marge Piercy

Scarica in formato PDF questo articolo e le informazioni sulla scrittrice



Nella presentazione del libro Fuori Luogo, Augusto Ponzio scrive:

Fuori luogo è la singolarità di ciascuno, il proprio sé irriducibile all’io, all’individuo, all’identità, e inevitabilmente coinvolto nel rapporto con gli altri, senza alibi, senza sostituti, in questo senso unico, incomparabile, irriducibilmente altro. U-topia rispetto al ruolo, alla posizione, alla funzione, alla comunità, all’appartenenza, all’identità. Fuori luogo […] è l’eccezionalità del rapporto del singolo con altri, del suo trovarsi inestricabilmente coinvolto nel destino di altri, a renderlo unico. La singolarità non indifferente all’altro è l’esorbitante nella riproduzione dell’identico, riproduzione che è la condizione della riproduzione di questa forma sociale che si impone come mondiale, globale (Ponzio 2007: 9).

Per “fuori luogo”, come ci spiega nell’undicesimo capitolo, non si intende un cambiamento di posto, quindi nel senso geografico di movimento spaziale, bensì è lo stare fuori dal discorso dominante, dall’ordine del discorso, fuori dai luoghi dell’identificazione, dell’omologazione.

Avvalendosi delle teorie di alcuni tra i maggiori filosofi del linguaggio e semiotici come Lèvinas, Bachtin, Barthes e Rossi-Landi, Ponzio traccia le problematiche riguardanti il rapporto tra identità e alterità, soffermandosi in particolare sull’atto sacrificale che la prima compie nei confronti della seconda in un epoca che è quella della globalizzazione, in cui il processo di omologazione e di identificazione degli stessi bisogni, desideri, immaginari, esigenze, è tale che l’io, chiuso nei suoi ruoli, funzioni, obblighi, diritti e doveri, sviluppa sempre più un senso di differenza- indifferente e di rassicurante responsabilità limitata nei confronti dell’altro.

L’affermazione dell’identità, scrive, trova posto oggi più che mai nella sua funzionalità a quella che si può definire una comunicazione-produzione, in cui la comunicazione nel ciclo produttivo non riguarda più solo il momento intermedio tra produzione e consumo, ma tutti e tre i momenti di produzione, scambio e consumo. Ne viene fuori che le merci funzionano come messaggi e i messaggi come merci (come aveva mostrato Ferruccio Rossi-Landi nel libro Il linguaggio come lavoro e come mercato del 1968) e che la classe dominante detiene il capitale/controllo della comunicazione, sicchè l’ideologia di quest’ultimo “si presenta come la logica stessa della realtà attuale, come sua ideologica” (ivi: 27-28). Conseguenza di tutto ciò è l’alienazione del soggetto parlante, ovvero di un soggetto che si trova sempre più sottomesso ai significanti dell’ideologia dominante e che dice sempre più o meno ciò che vuole dire, però mai esattamente ciò che vuole dire (Colaizzi 2007: 144).

A ciò si aggiunge, inoltre, che produttività, competitività e occupazione diventano le parole d’ordine della Commissione Europea, in quanto la ricchezza fondamentale è sempre più legata alla ricerca, alla conoscenza, all’informazione, a quella risorsa definita come “immateriale”, ovvero l’intelligenza umana che l’attuale forma di produzione cerca di asservire affinché sia funzionale alle ragioni di mercato.

Tuttavia, continua Ponzio, nonostante la logica del capitalismo sia la logica dell’identità, dell’indifferenza, della riduzione dei rapporti umani a rapporti conoscitivi, fissati dalla posizione di ciascuno nell’ambito di competenze e conoscenze, “nulla di tutto questo riesce a sciogliere l’intrico fra io e altro, a eliminare l’asimmetria del rapporto, a far cessare l’inquietudine per altri” (Ponzio 2007: 18). L’io vive, infatti, una singolarità che è plurale, in quanto è attraversato dall’altro, vive di relazione con l’altro, con il sé che costituisce l’alterità assoluta dell’io, in un rapporto che Lévinas chiama di “infinizione”(Ponzio 2007:79), di eccedenza della totalità, dell’identità, della coscienza.

Considerando questa premessa, cercherò di offrire un’interpretazione semiotica del romanzo Woman on the edge of time di Marge Piercy, riflettendo in particolar modo sul concetto di “utopia” di cui credo sia capace e portatore ogni essere umano, quell’utopia come “fuori luogo”, come apertura e movimento verso l’alterità, come possibilità che emerge quando all’immaginario si lascia lo spazio per interagire col reale, per prospettarlo diversamente da come esso è e praticarlo in questa diversa prospettiva. A ciò segue una scrittura come pratica utopica, nel senso che non è costruzione di un modello ideale e perfetto, come accade per le utopie classiche basate su ideali di società autarchicamente isolate, totalitarie e repressive, bensì è sovversione di ogni rigidità sistematica in grado di alterare i segni e le norme convenzionali.

Pubblicato nel 1976, il romanzo si colloca nel solco della tradizione utopico- fantascientifica femminile inaugurata da Mary Shelley e diventa un cult-book del movimento femminista di quegli anni. Connie Ramos, la protagonista, è una chicana di trentasette anni, disoccupata, vittima della discriminazione razziale, sociale e sessuale che vive in uno squallido bilocale nel ghetto dei portoricani di New York. La Piercy ci descrive e ci fa vivere tutta la disumanizzazione sperimentata dalla protagonista: la sua solitudine, le difficoltà economiche, fino alla sua presunta pazzia. Accusata, infatti, di aver maltrattato la figlia, nonché di aver aggredito il magnaccia della nipote per difenderla dalle percosse di lui, viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico[1]. Il referto medico parla di “soggetto socialmente disadattato” che “si mostra ostile e sospettosa nei confronti dell’autorità” tendente “ad affrontare i problemi in modo violento e con atteggiamenti ostili e punitivi” (Piercy 1990: 412), deve essere “normalizzata”.

Nel descriverci questa realtà, che ci ricorda (anche se vissuta in modo molto più drammatico) Qualcuno volò sul nido del cuculo di Ken Kesey, la Piercy denuncia la difficile condizione dei pazienti all’interno dei manicomi. Quando Connie, ad esempio, viene portata in clinica dopo essere stata picchiata, viene “bollata” come pazza e vive tutta l’indifferenza, il disprezzo e il pregiudizio da parte degli infermieri:

“Qui tu, in bagno, che puzzi”, disse a Connie parlandole sopra la testa. Incominciarono a levarle i vestiti di dosso.

“So spogliarmi da sola”.

“Oh! Per la miseria, che diavolo è ’sto casino? Si è buttata giù dalla finestra o che cosa?”

“Sono stata picchiata. Da un magnaccia. Non il mio…stava picchiando mia nipote. È lui che mi ha portato qua.”

“Ora cosa ti sei messa in testa?” disse l’infermiera nera spingendola nella doccia come un cane che deve essere lavato. “Per qualche livido che ti sei fatta da sola!”

“Puzzerà di meno quando uscirà di qui. Ci si chiede come riescano a vivere insieme senza mai lavarsi. Ma anche questo fa parte della malattia” […]. Aveva voglia di urlare che si lavava regolarmente, né più né meno di loro, che era colpa loro se si era sporcata. Ma non osò… Non l’avrebbero ascoltata (ivi: 28)

I medici, dal canto loro, guidati più da una logica economico- gestionale, pianificano la sperimentazione, su un gruppo di pazienti “adatti”, di un dispositivo, che inserito nel cervello, ha lo scopo di placare gli istinti aggressivi e controllarne le emozioni:

…quella notte non dormì. Il giorno dopo sarebbero venuti a prenderla, l’avrebbero portata all’ospedale dove l’avrebbero operata. […] le avrebbero messo una macchina nel cervello. Lei era un esperimento. Avrebbero violato il suo corpo, il suo cervello, il suo stesso io. Una volta che lo avessero fatto non avrebbe più potuto credere nemmeno ai suoi sentimenti. Non sarebbe stata più la stessa. Sarebbe stata il loro prototipo sperimentale. Il loro giocattolino. Il loro strumento. (ivi: 307).

L’umiliazione di sentirsi uno strumento è tanta, ma non è una novità per una donna che nella sua vita ha sempre subito il continuo intervento dello stato sia nelle scelte riproduttive che nell’ambito familiare, senza mai poter scegliere ma sentendo come una colpa il fatto di aver messo al mondo una figlia che avrebbe subito la sua stessa discriminazione:

…forse quei bastardi che l’avevano fatta sterile per fare pratica, per divertimento, avevano fatto bene. Che aveva messo al mondo un’altra se stessa in tutto e per tutto, che era un delitto essere messi al mondo poveri e con la pelle scura (ivi: 72).

Stanca della condizione di oppressione che vive, emerge in lei il desiderio di ribellione, si lascia andare a ciò che Peirce definisce “gioco del fantasticare”, ovvero quella tendenza universale e caratteristica specifica della mente umana al sognare, a creare mondi alternativi, capaci di alterare e trasgredire la realtà esistente e che permette di sviluppare la riflessione intorno a ideali e aspirazioni che rientrano nella dimensione etica della significanza (Cfr. Petrilli 2005). Questa capacità è la stessa che con Rossi-Landi prende il nome di “lavoro immateriale”, intendendo per quest’ultimo la “capacità di non stare alle cose così come sono, […] di inventare, di produrre, a differenza degli altri animali non-umani, più mondi, mondi diversi […] capacità di progettazione, di inventiva, di innovazione” (Ponzio 2007: 290-293).

Connie si rende conto dell’importanza e della necessità di prospettare delle alternative rispetto al mondo in cui vive e si isola[2] ogni volta che consente alla presenza di Luciente di “riempirla” (Piercy 1990: 73) e di lasciarsi trasportare nel 2137 nel mondo di Mattapoisett. Il loro incontro viene descritto come un transfert, che a partire dalle teorie di Freud sull’esistenza e l’interminabilità dialogica del soggetto con l’alterità, all’interno di un processo di “semiosi illimitata” nel senso di Charles Peirce (Colaizzi 2006: 54), può essere interpretato come l’incontro con l’altro da sé: la presenza di Luciente rappresenta l’alterità stessa di Connie. Ciò viene sottolineato dalle parole di Luciente “noi due siamo in contatto” (Piercy 2007: 62), come dalle visite di Connie, nel mondo futuro, non fisiche ma mentali:

Connie mormorò: “I vestiti. Devo cambiarmi”.

“Il tuo corpo si trova dov’era prima, negli stessi abiti, in realtà tu non sei qui. Se avessi preso una botta in testa e fossi svenuta, mettiamo, saresti ritornata all’istante nel tuo tempo…” (ivi: 90)

Attraverso Luciente, Connie si racconta, si sottopone ad un processo di autoanalisi, percorrendo il suo passato, presente e futuro, si decostruisce per ricostruirsi, per intraprendere un percorso di crescita interiore. Se all’inizio si mostra spaventata e ancora chiusa, pian piano si abbandona a Luciente, senza paura, in un rapporto dialogico, nel senso bachtiniano, che presuppone sempre una domanda e risposta, nell’impossibilità della chiusura, vissuto con spontaneità, coinvolgimento, accoglienza, responsabilità morale e senza limiti, fuori dalla totalità:

Percepì distintamente Luciente che la sollecitava, per la prima volta da quando l’avevano rilasciata dall’isolamento: non quel sentirsi sfiorata da una presenza che cresceva e si dileguava, ma la solida forza della concentrazione che gravitava intorno a lei. Resistette. Sedere in veranda era ancora una novità, un piacere convalescente come la prima volta che si mette piede fuori dal letto dopo una lunga malattia. Sentì di nuovo Luciente che insisteva e fu come, bè, come rifiutarsi di andare ad aprire la porta ad un’amica che ti sapeva in casa. Come poteva considerare Luciente un’amica? Eppure aveva cominciato a farlo (ivi: 110).

E ancora il bisogno di questa presenza che, in quanto altro, diventa assenza:

Sentì una specie di vuoto dentro, il contatto con Luciente stava iniziando a scivolare via e lei precipitava di nuovo in ospedale. Per un momento respirò il caldo soffocante della piccola stanza di isolamento, ne percepì l’odore stantio di feci, l’odore dei corpi terrorizzati in gabbia. Lottò come un nuotatore per non andare a fondo. Lanciò un muto appello a Luciente: Aiutami! (ivi: 141).

Connie si rifiuta di essere inglobata nello squallore quotidiano dell’ospedale, luogo costruito per il completo annientamento dell’individualità, luogo della totale oggettivazione, della perdita completa della propria soggettività. Il manicomio come spazio chiuso, infatti, spinge il malato ad identificarsi gradualmente con le regole e lo schema dell’istituto, ad istituzionalizzarsi affinché la sua follia non abbia più forza (Cfr. Foucault 1963). Questo è reso evidente nel dialogo tra Connie e i dottori:

“Non voglio passare la mia vita qui, lei lo vorrebbe?”

“Certo che no. E allora, Connie, forse può riuscire a capire che lavoriamo per il suo bene. Dopo tutto perché la società dovrebbe occuparsi di lei? Lei ha dato prova di non saper vivere con gli altri. L’hanno rinchiusa dove non poteva nuocere a se stessa e agli altri. Non è così?”

“Ma a me qui mi si può nuocere? Non è così?”

“Lei è abbastanza in sé per vedere quello che succede ai vecchi pazienti, come si abituano alla vita in ospedale. […] Assuefatti ad una vita sicura”.

“Sicura per lei!” […] “Voglio ritornare alla mia vita!”

“Questa non è la sua vita? […] Ho idea che questa sarà la sua vita per parecchi anni a venire se noi non l’aiutiamo. […] Noi vogliamo che lei torni a funzionare senza il rischio che commetta quei gesti sconsiderati.” (Piercy 1990: 289)

Parafrasando Artaud, potremmo dire che è uno strano modo di curare una persona cominciando con l’assassinarla, però forse l’unico mezzo che si possiede per rendere funzionale chi, come Connie, è “fuori luogo”, pecca di utopia, di eccedenza, di irriducibilità al sistema. Connie viaggia per uscire dalla totalità, viaggia con Luciente piena di speranze verso il futuro migliore di Mattapoisett, società che potremmo definire di vocazione semioetica (Cfr. Ponzio, Petrilli 2003), per l’importanza, l’interesse ai sintomi della vita del proprio popolo, nonché per il senso di rispetto e responsabilità senza limiti verso il prossimo. A Mattapoisett, Connie immagina case psichiatriche ben diverse da quelle in cui è rinchiusa lei, costruite allo scopo di educare all’intraconoscenza, cioè alla conoscenza di se stessi, del proprio corpo, delle proprie emozioni e dei propri stati mentali per “ricevere […] concentrarsi, approfondirsi, raggiungere il nonconscio” (Piercy 1990: 157). Gli ospedali psichiatrici di questa società sono, infatti, luoghi in cui la gente sceglie di andare quando vuole “sprofondare in se stessa, lasciarsi andare”(ivi: 77), senza che qualcun altro decida quando è il momento di “disgregarsi e reintegrarsi”, per ricordarci che “la sola libertà che meriti questo nome è quella di perseguire il nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro o li ostacoliamo nella loro ricerca”, come sosteneva John Stuart Mill (1981: 34).

Al mondo di Mattapoisset, però, se ne oppone un altro in cui la parola “libertà” non ha senso, un mondo in cui lo scopo del potere non è tanto reprimere, quanto creare gli stessi desideri e le stesse credenze. Un giorno, chiedendo con “furia testarda” a Luciente di riceverla, Connie si ritrova nell’appartamento di Gildina, una donna disegnata con il bisturi secondo i canoni estetici di una “femminilità da fumetto, dalla vita sottile e le enormi tette a punta” (ivi: 316), in una New York futura governata dalle multinazionali, in cui vediamo uomini di basso livello ridotti a “banche d’organi ambulanti”, a pezzi scomponibili, assistiti dalla telemedicina e l’aumento del potere biotecnologico che ha portato a mutazioni di carattere genetico. Connie è spaventata nel vedere come in questo mondo, tutto sia indotto artificialmente: non ci sono ospedali psichiatrici perché adesso ci sono le droghe che servono “per tirare su, calmare, farti dormire, per svegliarti, per darti euforia, passione, tutto quello che ti serve” (ivi: 320), le finestre sono sostituite da immagini che possono essere cambiate a seconda dei gusti, il cibo è insapore e gommoso, fatto di carbone, alghe e sottoprodotti del legno. Allo spavento, causato dal fatto che questo è l’altro mondo che potrebbe realizzarsi, in quanto versione accelerata dei problemi esistenti nella sua realtà, si sostituisce la ribellione che porterà Connie ad uccidere i dottori del sistema psichiatrico di cui è prigioniera, affinché non le sia impedito di salvare e realizzare il mondo di Mattapoisett:

li ho assassinati. Perché sono loro i violenti. Sono loro che hanno i soldi e il potere, che hanno i veleni che intorpidiscono la mente e inaridiscono il cuore. Li ho uccisi, perché è così la guerra. […] Per Skip, per Alice, per Tina, per il Capitano Cream e per Orville, per Claud, per voi che potrete nascere dalle mie speranze, a voi dedico il mio atto di guerra. Almeno per una volta, ho combattuto e vinto (ivi: 410).

Forse questa conclusione ci fa riflettere sul fatto che proprio il senso di oppressione e la violenza sia psicologica che fisica perpetrata da parte dei medici, la conducono al gesto estremo: alla violenza risponde con la violenza, per mettersi al riparo, soprattutto quando ad essere sacrificata è la sua alterità.

Non è un caso che il viaggio intrapreso da Connie sia narrato tramite il romanzo, il genere che più si presta alla sperimentazione e alla sovversione, che “non consiste necessariamente nel dire ciò che colpisce l’opinione pubblica, la morale, la legge, la polizia, ma nell’inventare un discorso paradossale (puro di ogni doxa): l’invenzione (e non la provocazione) è un atto rivoluzionario” (Barthes 2001: 114).

L’invenzione che caratterizza Woman on the edge of time si identifica in una narrazione non lineare, rappresentata dall’alternarsi continuo di registri narrativi differenti: la Piercy, infatti, nel descriverci i mali della società, la situazione difficile che vive la protagonista, il suo lasciarsi andare al ricordo della vita passata, introduce il genere realistico nel romanzo che all’improvviso si intreccia con quello utopico identificabile nel viaggio che Connie compie con Luciente nel mondo futuro e a quello distopico rappresentato dal contatto con il mondo di Gildina. Alla fine del libro, inoltre, la Piercy inserisce le cartelle cliniche di Connie dei vari ospedali, inserendo quindi un altro genere che si caratterizza, però, per il suo basso livello di monologicità, di significazione, in quanto funzionale alla realizzazione dell’identità del soggetto (V. Petrilli 2005: 109-110), poiché rappresenta l’ideologia ufficiale del sistema psichiatrico e dei valori sociali ad esso connessi, a differenza dell’alto livello di dialogicità rappresentato dagli altri generi sopra menzionati, in cui la parola della scrittrice si presenta sempre come parola indiretta, caratterizzata dalla pluralità di voci e di punti di vista che popolano il romanzo.

Per questo motivo e considerando le riflessioni di Bachtin sulla condizione del tacere che è propria dello scrittore, possiamo notare come la Piercy realizza il suo discorso attraverso un gioco di rinvii da interpretato ad interpretante, cosicché la sua parola “si situa in un dialogo infinito” (Cfr. Ponzio 2004), non si lascia imprigionare nella sua realtà, ma rompe i confini del suo tempo e rivive nel dialogo con gli interpretanti dei due mondi futuri, quello di Luciente e quello di Gildina.

Proprio per questo suo carattere prevalentemente dialogico, il romanzo si presenta come un ipertesto, per le continue digressioni che presenta, come mostra questo passaggio:

Dopo cena si mise a letto mentre gli altri pazienti si attardavano in giro a parlare; le luci erano ancora accese in tutta la corsia e le risate provenienti dal televisore sembravano birilli che cadevano in una pista di bowling. All’inizio lei e Eddie avevano vissuto di fianco a un bowling nel Brox […]. In quell’appartamento era rimasta incinta. Si ricordava di quando stava a letto con il rombo sordo del bowling che filtrava dal muro…Sentì di nuovo Luciente che si avvicinava. Anche stavolta un approccio violento […] si spinse in avanti e si ritrovò stretta a Luciente (Piercy: 336)

Si crea così la condizione ideale per il lettore, che può sviluppare una lettura “non obbligata”, non vincolata, bensì può scegliere di spostarsi, viaggiare liberamente, tra i diversi percorsi interpretativi offerti, per avviarsi verso il processo di ri-scrittura nel momento che esce dal testo, collocandolo in rapporto alle proprie esperienze, desideri e immaginari, leggendo “alzando la testa” e interrompendo la lettura “non per disinteresse ma per l’ininterrotto affluire di idee, stimoli e associazioni” (Barthes 1984: 23).

La scelta della Piercy di una scrittura ipertestuale, di creare una mescolanza di generi, trova la sua spiegazione nella volontà di trasgredire, di sfidare quell’ideologia dominante, che fa di Connie una pazza per il suo carattere sovversivo, troppo utopico, progettando e presentando delle alternative e dei possibili mondi futuri spiazzanti e defamiliarizzanti. Il risultato è una scrittura “a livello zero” (Barthes 1982), ovvero libera dalla schiavitù ad un ordine manifesto, infunzionale ai bisogni e agli scopi comunicativi, che dimostra quella stessa voglia e necessità della protagonista di uscire dai luoghi del discorso, nonché di sfuggire alla staticità, di “disubbidire” alle finalità comunemente associate al pensiero utopico, per intraprendere quel movimento senza fine verso l’utopia come non luogo dell’identità.

Ritornando a ciò che è stato detto nella premessa, Woman on the edge of time ci mostra, quindi, la possibilità dell’esistenza di un rapporto di “infinizione” dell’io con l’altro, nonostante i limiti imposti dalla logica del potere dominante, in questo caso rappresentato dal potere psichiatrico, che non assume solo il ruolo di recludere o reprimere chi come Connie è considerata deviante, bensì di volerne controllare l’intera vita. A questo controllo sfugge la capacità di utopia, caratteristica della protagonista e propria di ogni essere umano, che ho identificato con l’espressione di Rossi-Landi “lavoro immateriale”, come capacità di non stare alle cose così come sono, non accettarle passivamente, ma prospettare delle alternative alla realtà esistente. Infatti, come ci spiega Ponzio, nonostante il lavoro stesso si presenti nella forma di lavoro alienato, lavoro- merce, questa situazione deve essere superata e divenire il punto di avvio del produrre, dell’immaginare o almeno desiderare una situazione diversa (Cfr. Ponzio 2007). Al controllo sfugge la stessa scrittura, che rivendica la necessità dell’instintuale, dell’insensato in un universo sempre più rivolto alla logica della funzionalità economica.


Bibliografia
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Bachtin M., 1988, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane (1979), Torino, Einaudi.

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NOTE
[1] Foucault definisce le cliniche psichiatriche “eterotopie di deviazione”, quelle nelle quali vengono collocati quegli individui il cui comportamento appare deviante in rapporto alla media e alle norme imposte dall’ordine del discorso dominante (Cfr. Foucault 2001).


[2] L’isolamento è la caratteristica specifica dell’utopia, grazie al quale diviene luogo adatto alla sperimentazione, privo di contatto e quindi di contaminazione con il mondo esterno. Allo stesso modo, Barthes in Sade, Fourier, Loyola, evidenzia come la prima operazione che i tre logoteti compiono è quella di isolarsi: “la lingua nuova deve scaturire da un nuovo materiale; uno spazio anteriore deve separarla dalle altre comuni, vacue, sorpassate, il cui ‘rumore’ potrebbe disturbarla: nessuna interferenza di segni; […] Loyola esige il ritiro: nessun rumore, poca luce, la solitudine; Sade rinchiude i suoi libertini in luoghi inviolabili […]” (Barthes 2001: xxii).


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