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Assenze

Inserito Martedì 25 maggio 2004

Narrativa un racconto di Roberto Sturm


Assenze

Finalmente entro in casa. Accompagno la porta che mi segue docilmente e mi avvio verso la cucina. Improvvisamente il nodo alla gola si scioglie come d’incanto. Mia moglie è incastrata nell’angolo cottura, mi volta le spalle mentre armeggia con i fornelli.
“Ciao tesoro. Dove sono le bimbe?”
“Sono in camera, a giocare,” mi dice senza voltarsi. “Forse non ti hanno sentito. Com’è andato il viaggio? Sei stanco?”
Appoggio la borsa e la busta con i due orsacchiotti che ho comprato alla tabaccheria della stazione sopra il tavolo. Con in mano il bouquet di quattro rose rosa prese dal distributore automatico della stazione, mi avvicino a Francesca. Le cingo la vita e le bacio il collo. La sento un po’ rigida, una rigidità che scompare quando vede le rose. Si volta. Nello sguardo una piacevole nota di sorpresa. Vederla dopo dieci anni scatena in me una ridda di sensazioni indescrivibili. E’ vero, è sempre bellissima.
“Grazie tesoro. Adesso cerco un vaso. Ma che cos’hai, ti senti bene?”
“Molto bene, direi.”
Socchiude i suoi occhi verdi, quegli occhi che ho sognato ogni notte in questi ultimi anni. Adesso potrò vederli di nuovo ogni giorno.
“Sicuro? Hai un aspetto strano, sembri diverso rispetto a stamattina.”
“Davvero?”
Vorrei dire tante cose, ma decido che è il caso di tacere. Mi avvicino al tavolo, prendo la busta con gli orsacchiotti.
“Vado a salutare le bambine. Ho preso qualcosa anche per loro.”

Il treno procede a velocità costante, senza scossoni. Come un bisturi nelle mani di un chirurgo impegnato in una delicata operazione. Il precario equilibrio del momento sembra fondersi nel luminoso tramonto di fine maggio, con la luce che lentamente si affievolisce inghiottita dalle montagne circostanti. Il tempo sembra essersi fermato, anch’esso sopraffatto dall’irrealtà della situazione.
Perché, evitando inutili giri di parole, è un altro me stesso che siede nel sedile di fronte al mio. Un altro Maurizio, solo con un vestito diverso. Molte delle sue frasi sono già scolpite nella mia memoria. Indelebilmente.
“Come quando abbiamo l’impressione di vivere un déjà vu. Probabilmente è un momento già vissuto da un altro di noi. Da un’altra parte, però.”
Sono sorpreso di come io sia riuscito a mantenere un atteggiamento dignitoso, nonostante l’assurdità della situazione. Tanto silenzio, come avessi paura della mia stessa voce. Una calma apparente dentro cui si scatena una tempesta di emozioni indescrivibili.
Dieci minuti dopo che l’altro Maurizio si è seduto di fronte a me già sento di cominciare ad accettare una situazione che credevo intollerabile per qualsiasi mente umana. Forse è vero che l’uomo riesce ad abituarsi a tutto.
“Ma nelle realtà dove mi trovo io, devono verificarsi delle asincronie che mi fanno incrociare con altri me stesso. Non sono mai riuscito a spiegarmi come, forse sono io l’elemento disturbante. Un incrocio di universi paralleli,” precisa. “Non è la prima volta che mi accade, e temo neanche l’ultima. Sono l’unico, tra quelli che ho incontrato finora, cui è successo.” La sua lieve espressione interrogativa viene fugata dal mio sguardo smarrito.
Il treno stava ripartendo dalla stazione di Fabriano quando avevo guardato l’orologio. “Più o meno un’ora all’arrivo,” avevo pensato.
Ero stato attraversato da un fremito interiore quando la porta dello scompartimento si era aperta. Avevo alzato lo sguardo per incrociare i miei stessi occhi. Il mio viso. Il mio corpo.
“Ecco, me lo sentivo,” aveva mormorato l’altro con un sorriso tirato.
Io ero rimasto immobile, inebetito dal mio doppio. Lui aveva appoggiato la borsa da viaggio sul portabagagli e sedendosi aveva raccolto il libro che mi era caduto dalle mani improvvisamente molli. Come il resto del corpo.
“L’ho già letto,” aveva detto molto semplicemente. “Ma è normale. Se non l’avessi già fatto, l’avrei letto in futuro.
Universi paralleli che s’incrociano.
“Forse è vero che ad ogni scelta che facciamo nasce una realtà alternativa. Vedrai, fino a un certo punto le nostre vite collimeranno, poi ci sarà qualcosa che…” si era interrotto, vagando con lo sguardo nello scompartimento deserto. “Sai,” aveva ripreso “non so perché ma è sempre in treno che succede. In uno scompartimento vuoto come questo. Il treno è la sola costante di tutte le vite che ho vissuto. Perché sei su questo treno?” mi aveva domandato.
“Una riunione di lavoro a Roma. Tre o quattro volte l’anno, non di più,” avevo risposto accorgendomi che erano le prime parole che profferivo.
“Io lavoro a Fabriano, faccio il pendolare. Tutti i santi giorni, Ancona Fabriano e viceversa.”
“Io mi fermo a Falconara.”
Un sorriso indecifrabile, quasi sardonico sul suo volto. Anche se avrei potuto dire il mio, visto il contesto.
“No, io mi fermo a Falconara.”
Mi aveva spiegato che quando incontrava un altro sé, c’era invariabilmente lo scambio di ruoli, lo scambio delle realtà.
“Tu vivrai nella mia realtà attuale credo per sempre. Non ho mai incontrato due volte la stessa persona, lo stesso me. Io vivrò nella tua finché non si verificherà un’altra sovrapposizione di universi, poi cambierò di nuovo.”
Aveva cominciato a parlarmi della sua realtà, che entro breve sarebbe diventata la mia, per vedere in quale punto divergevano.
“Non ce ne sarebbe bisogno, perché non appena scenderò ti calerai immediatamente nella mia, di realtà. Come se ci fossi sempre vissuto.”
La differenza alla fine era saltata fuori. Lui era sposato e io no. Alla soglia dei trentacinque anni mi barcamenavo tra una relazione e un’altra, tra periodi di stanca assoluta e altri movimentati all’eccesso. Ma non mi ero voluto più legare, Francesca aveva lasciato il segno dieci anni prima. Mi aveva lasciato, l’unica a cui avessi veramente tenuto, l’unica a cui tenessi ancora.
Un classico.
Avevo fatto un balzo sul sedile quando mi aveva detto che lui era sposato con Francesca.
Che ora io ero sposato con Francesca, avevo pensato immediatamente. Avevamo due figlie. Giulia e Giorgia. Non ero riuscito ad impedire che due lacrime di commozione solcassero il mio volto.
“Francesca,” aveva colto al volo quel momento. “Quando è successo?”
“Dieci anni fa. Mi ha lasciato.”
Si era avvicinato e mi aveva accarezzato il volto, asciugandomi le lacrime con una dolcezza che ognuno può avere solo con se stesso.
“E’ sempre bella come allora. Ma è più matura, più affascinante adesso. Sono io che sono cambiato.” Aveva sottolineato le ultime parole. “Sai, sapendo che le mie sono situazioni temporanee tendo sempre a non farmi coinvolgere troppo dai sentimenti.”
La mia risposta era stata un sorriso di gratitudine.
Il treno aveva cominciato a rallentare. La spiaggia di sabbia e il mare annunciavano l’approssimarsi di Falconara. L’altro Maurizio si era alzato, aveva preso la mia borsa, mi aveva allungato la mano augurandomi in bocca al lupo.
“Ma tu non vuoi sapere niente?”
“No, non m’importa. Io non starò qui per sempre.”
Era vero, avrebbe incontrato un altro lui, prima o poi. Un altro noi.
Il treno si era fermato, lui si era avviato verso la porta. Io mi ero affacciato dal finestrino, per salutarlo. Ma dalla porta dello scompartimento era uscita una sola persona che non era Maurizio. Evidentemente lui era già passato nell’altra realtà.

Adesso sono qui, davanti alla porta di casa con le chiavi in mano, prese dalla borsa dell’altro Maurizio che adesso è diventata la mia e un nodo alla gola. Mi sono immediatamente calato nella nuova realtà, con tutte le informazioni che mi servono. Credo di sapere tutto, di conoscere ogni dettaglio della mia nuova vita.
Infilo le chiavi nella serratura, con le mani leggermente tremolanti. Un’emozione forte s’impadronisce di me.
Mi chiedo se Francesca e le bambine, vedendomi, si accorgeranno di niente. Se si renderanno conto di avere un marito e un padre diverso di fronte. Mi chiedo se si accorgeranno che il bacio di Maurizio stasera sarà pieno di tutto l’amore che non ho potuto dare loro in questi ultimi dieci anni. Gli anni della mia assenza.


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