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Inserito Lunedì 14 settembre 2009

Narrativa un racconto di SERGIO GAUT VEL HARTMAN

Altro fallimento. González tornò a fermarsi. Lo squalo gli aveva reciso la gamba all’altezza del ginocchio; la dentatura era impressa nel moncherino. García, da parte sua, morì sul sentiero, o così sembrava. Ci mangiammo l’altra gamba di González per ristabilire la simmetria e ci giocammo a sorte la vedova di García. Martínez e io tirammo un sei e dovemmo fare lo spareggio. Gettai un tre, ma a lui venne un due. Sul volto della vedova apparve una leggera espressione di sollievo.
La discussione divenne generale. López sosteneva l’impossibilità di combattere gli squali con armature di crosta. Gutiérrez al contrario era convinto che i poteri della sabbia dovessero essere limitati; eravamo già rimasti vittime dei mulinelli, che si aprivano su abissi senza fondo e potevano inghiottire un’isola intera; dell’incandescenza ferruginosa che si incollava alla pelle come scintille di cera e dei denti di quarzo degli squali, affilati come cesoie. Quanti trucchi ancora poteva riservarci la sabbia? Non molti, credeva Gutiérrez, e Pérez lo appoggiava. López si esasperò e ci trattò da imbecilli. La sabbia usava le proprie armi in maniera aleatoria, per cui non eravamo in grado di prevedere quale fosse la prossima. Le corazze di crosta potevano in ogni caso servire contro l’incandescenza, ma non contro gli squali, i mulinelli o eventuali altre invenzioni. Cinque spedizioni, disse López, cinque fallimenti contraddistinti dall’illogico comportamento della sabbia. Perché supporre che allo squalo facesse obbligatoriamente seguito l’incandescenza? La sabbia si burlava di noi; López lo sapeva e noialtri non ci rifiutavamo di ammetterlo.
Fernández suggerì di inviare un uomo con armatura di crosta e un altro con slittino. Se il caso stabiliva che il nemico fosse lo squalo, l'uomo in armatura si sarebbe sacrificato perché l'altro potesse forse raggiungere l’isola vicina, schivando i morsi. Se, al contrario, la sabbia diveniva incandescente, sarebbe sopravvissuto solo quello con l’armatura. López si pizzicò la guancia, segno inequivocabile che disprezzava l’idea. Il mulinello, disse, inghiottirà entrambi. È come giocare a dadi, protestò Fernández, le possibilità si equivalgono: una su sei. No, insisté López, una su chissà quante. La sabbia conserva le carte migliori per quando ci decidiamo a lasciare l’isola in massa; se tutti abbandonassimo l’isola nello stesso momento, alcuni sopravviverebbero, pochi forse, anche se comparisse una mezza dozzina di armi sconosciute.
Rodríguez si alzò e si diresse verso López con un tono tra l’annoiato e il seccato. Lei, disse, propone come sempre di affogare la speranza, di dimenticarci delle altre isole, di abbandonare le spedizioni e la ricerca di una soluzione per il nostro calvario. Sì, rispose López rigido, propongo questo, perché no?
Pérez mi passò il binocolo. La sabbia era quieta a sufficienza perché potessimo vedere l'isola vicina avvolta in una magia serena e fantasmagorica. Sembrava una mela accuratamente liscia fino ai tropici, con il picco verticale di un balcone naturale affacciato al polo nord, dondolandosi sulle onde di sabbia che lambivano la base. Sulla piattaforma, appoggiati alla balaustra, c’erano due tizi con binocolo. Domandai a Pérez se ci stessero guardando, ma assicurò di no, osservavano un’isola fuori portata per la nostra vista, ubicata a sudovest della loro. Mi chiusi in un silenzio che Pérez non cercò di infrangere. Dopo, impulsivamente, dichiarai che non c'era uscita, che López, l'eccentrico e perverso López aveva ragione. Eravamo immersi in un incubo e non riuscivamo a uscirne, per quando impegno mettessimo nel compito. Comunque, le mie parole suonarono pretenziose. Pérez sprofondò nelle spalle, mi strappò il binocolo dalla mano e scese dalla piattaforma.
Rinvenimmo un manoscritto, per puro caso. Era un testo scritto di nascosto da López.
“Abbiamo fallito. Definitivamente impossibile attraversare il mare di sabbia. Johnson e Smish si sono perduti nell'ultimo tentativo. Williams ritornò ferito, in uno stato disperato. Malgrado lo curassimo con attenzione, è morto nottetempo. Thompson impazzì e se la prese furioso con la sabbia, come se fosse un nemico in carne e ossa. La compagna di Williams pianse abbracciata al cadavere tutta notte e non si staccò fino a che lo seppellimmo, a cinquanta passi dall'isola. Entro pochi minuti i movimenti della sabbia resero impossibile identificare la tomba, il che ci riempì di spavento: così poca cosa siamo. Il silenzio si abbatté sui naufraghi come un’ombra demente e Thompson si allontanò ululando nella notte, probabilmente in direzione sbagliata...”
González lesse a alta voce ciò che aveva scritto López e tutti scoppiammo a ridere. Il testo, assurdo da ogni punto di vista, tentava di descrivere una realtà differente, un'amabile congettura in cui esseri ipotetici agivano senza alcuna logica. Al tempo stesso, ciò che López aveva scritto sottolineava l’assurdo della nostra situazione. Su un’isola vicina, simmetrica alla nostra, esseri immaginari vivevano pene immaginarie. In questo contesto, la risata poteva essere interpretata solo come uno sfogo dalla paura, dato che i personaggi del racconto erano come noi condannati, ridevamo della disgrazia altrui invece di piangere per la nostra.
Quando ci calmammo, gli sguardi si posarono sul trasgressore il quale, incredibilmente, appariva pentito. A ogni modo, allo scoccare delle sette, senza permettere che le suppliche di López ci commuovessero, in diversi lo afferrammo e Sánchez gli strappò le orecchie.
A notte fonda, inerme di fronte all’oscurità e insonne, scoprii un’ombra che si muoveva dietro di me; era López, ancora dolorante, che nel sedersi di fianco a me cominciò a commentare quanto accaduto poche ore prima. Ammise che lo scritto era una mera frode, che no aveva idea di come si chiamassero quelli dell’altra isola, sempre che avessero nomi, che tantomeno sapeva cosa provassero, come si comportassero con i feriti e i morti e in quale maniera fossero arrivati sull’isola. Lo calmai dicendo che non c’era nulla di personale nella faccenda delle orecchie e che in fondo condividevo la sua eccitazione di conoscere qualcosa di più del mondo che ci era toccato in sorte. López rispose alle mie scuse con una sonora pacca, però non sembrò offeso né addolorato; la pacca era stata, arguii, un modo di recuperare la propria autostima, seriamente danneggiata dagli avvenimenti della sera. Ridemmo insieme e dormimmo abbracciati, anche se prestai attenzione a mantenermi distante dai brutti orifizi che rimanevano dove prima aveva le orecchie.

* * *

Gli uomini si allontanarono dalla nostra isola verso sud, benché a velocità molto differenti. Gutiérrez camminava lentamente, oppresso dal peso dell'armatura di crosta. Domínguez, dal canto suo, partì sparato come una freccia sugli sci di osso. Scendeva le dune e accelerava, il che gli permetteva di salire i seguenti a gran velocità, vacillando sulla sommità come se stesse per cadere di schiena, per tornare invece a discendere ancora più veloce. Ancora e ancora si pentì di quel modo di procedere, finché a metà strada tra le isole scomparve per non riapparire. Presupponemmo che un mulinello l’avesse inghiottito, per cui ci concentrammo sull’affaticato Gutiérrez, che continuo nella sua penosa avanzata barcollando sotto il sole. A prima vista sembrava una mosca che battesse le ali sulla pelle gialla del deserto. I binocoli passavano di mano in mano per dimostrare che la mosca era un uomo, e che malgrado la protezione dell’armatura soffriva e aveva paura. La minaccia dell’incandescenza aumentava a ogni passo, come un boia che ritardi il movimento supremo, quello che decide il passaggio dalla vita alla morte, e Gutiérrez lo sapeva. L’altra isola era molto lontana e la tranquillità della sabbia, lungi dal tranquillizzarlo, lo riempiva di terrore. Adesso, pensava Gutiérrez, adesso si accende e mi uccide, adesso, adesso. Improvvisamente la sabbia mulinò, però non nel modo di quando diventa incandescente, bensì formando un’ampolla, una sottile bolla d’aria di rara trasparenza che avvolse completamente l’uomo. Gutiérrez si sentì intrappolato e cominciò a colpire la bolla con i pugni. Potevamo quasi percepire la sua disperazione, udire le grida, ma la sfera di sabbia resistette ai tentativi della preda. Intrecciammo immediatamente teorie e si incrociarono scommesse. Le congetture più solide partivano dall'assunto che la radiazione solare, combinata con il panico di Gutiérrez, scaldava e dilatava la sabbia, curvandola su se stessa fino a trasformarla in una bottiglia a grande tensione superficiale e enorme elasticità. Un’altra teoria, il cui unico sostenitore era López, pretendeva di dimostrare che la bolla d’aria era una fatamorgana, uno dei molti fantasmi che popolavano il deserto e deambulavano tra le isole. Stavolta, diceva López, l’illusione era sferica e confondeva sia Gutiérrez che noi, che lo vedevamo da grande distanza avvalendoci del binocolo, uno strumento così poco affidabile. Respingemmo la spiegazione di López come assurda, e alcuni scommisero frutti e piccoli animali. La bolla sarebbe stata classificata come un nuovo nemico, il numero tredici, un’arma della sabbia fino allora inedita il cui intento, ancora una volta, era cancellarci dal mondo dei vivi.
Quando Gutiérrez cessò di agitarsi, la bolla d’aria si sfaldò improvvisamente. Il corpo rigido rimase sulla sabbia, come una squama oscura sui lombi di un pesce fossile.
Era evidente che non saremmo riusciti a attraversare il deserto avanzando in superficie. Indifesi contro gli squali, l’incandescenza, le bolle d’aria e i mulinelli, ci restava solo di scavare un tunnel, nella speranza che il deserto non potesse reclamare le profondità come proprie. Laggiù dove il vento e il sole erano preclusi, i trucchi della sabbia dovevano essere limitati. Comunque López (ancora una volta l’ostinato e contraddittorio López) contestò l’efficacia del compito che eravamo sul punto di affrontare. Nulla, disse, nulla ci autorizza a supporre che il comportamento della sabbia dipenda dal vento, dal sole e da agenti naturali invisibili; il suo potere deriva da una forza intrinseca che abbiamo attivato per caso, e come conseguenza della nostra insuperabile ignoranza. La gente cominciò a inquietarsi, López, sempre più eccitato per il suo stesso discorso, arricchì la teoria con argomenti forzati. Siamo meno di germi che attaccano un corpo sano e pieno di difese, argomentò; il deserto non ha neppure bisogno di utilizzare tutte le risorse di cui dispone per polverizzarci, per eliminarci dal gioco quasi senza prestarci attenzione; siamo le formiche che gli elefanti schiacciano nella marcia verso l’abbeveratoio...
Sánchez si avvicinò, cercando con lo sguardo la nostra approvazione, e valendosi di uno strumento che sembrava un incrocio tra tenaglie e coltellaccio, estrasse la lingua di López che mulinava e la tranciò con uno scricchiolio. Quasi tutti approvammo con un cenno del capo, benché lo spostamento di Sánchez fosse stato così rapido da non darci il tempo di pensare. López si tappò la bocca con le mani e Sánchez estrasse la lingua dal suo attrezzo come se si trattasse di una cosa viva.
Iniziammo a scavare, ammucchiando la sabbia sui lati del pozzo. Alcuni si assunsero il compito di raccogliere nastri da utilizzare come sostegno. L’inquietudine causata dall’episodio della lingua di López scomparve di fronte all'attività febbrile. Lavorammo con le pale, ma anche con badili, rastrelli, perfino cucchiai e addirittura con le mani, Era come se l’atto di strappare sabbia al deserto rappresentasse una rivincita particolarmente dolce, una vendetta contro gli elementi crudeli che ci affliggevano e ci facevano soffrire. Nonostante ciò la sabbia sembrava inoffensiva, fluttuando come polline nell’atmosfera mattutina prima di posarsi al suolo, Verso mezzogiorno rimpiazzai Martínez sull’osservatorio, e quasi immediatamente vidi che una colonna abbandonava l'isola vicina e si dirigeva verso sudest. Erano centinaia. Li osservai assorto per lunghi minuti, soprattutto perché la loro sola presenza indicava che López aveva perduto le orecchie ingiustamente. C’era gente sull’altra isola, e forse si chiamavano Smith e Johnson e White come immaginava López nel suo testo. Quest’ultimo nome, White, risveglio in me un desiderio profondo di volare sopra il deserto e raggiungere la colonna che si stagliava all’orizzonte. Solo dopo un certo tempo scoprii che White non era un nome suggerito da López, bensì un nome inventato da me, il che mi rendeva automaticamente complice di un delitto improbabile. Rivolsi l'attenzione agli uomini e alle donne che si allontanavano dall’altra isola. Sembravano formiche; una correzione fantastica, spinta da forze incomprensibili e fuori contesto, come la crescita di un fiume o un devastante incendio forestale. Affascinato dal movimento collettivo, tardai a accorgermi che una lingua gigantesca si alzava sopra la sabbia, volteggiava in aria come una tromba marina e, attorcigliandosi su se stessa, inghiottiva l’intera formazione in un colpo solo Quattordici, dissi fra i denti. Tra le due alternative, caso o simmetria, il deserto agiva in base alla prima, anche se con il proposito evidente di imporre la seconda a qualsiasi prezzo. Il divertente era che io fossi l’unico a avere assistito all’esodo e all’annichilimento degli abitanti dell’isola vicina, con la conseguenza che, senza testimoni che potessero confermare il mio racconto, sarebbe stato più prudente non menzionarlo. Inaspettatamente, scavare un tunnel per attraversare il deserto era diventato un lavoro superfluo.
Però non riuscii a mantenere il silenzio, anche se pure questo divenne irrilevante, nessuno voleva ascoltare la mia storia di esodo e annientamento. Il fervore generato dal lavoro era cresciuto in proporzione geometrica e tutti sembravano posseduti dal desiderio febbrile di scavare, ipnotizzasti, storditi. Tentai di richiamare l’attenzione di Fernández, ma mi scrollò di dosso con un paio di grugniti; non capiva neppure le mie parole. Vociferai spigando che una colonna aveva abbandonato l’isola vicina per essere spazzata via da una lingua gigante, che una nuova calamità minacciava la nostra esistenza, e così come la lingua era apparsa per cancellare quelli dell’altra isola, la sabbia poteva sfoggiare un altro trucco, il numero quindici del catalogo, per neutralizzare il nostro tentativo di traversata sotto la superficie. Se pure qualcuno comprese le mie parole, non dette credito a quello che significava. Continuarono a scavare la sabbia, perforando la superficie del deserto con un’ostinazione degna di miglior proposito. Ritornai stanco a scrutare il deserto dalla piattaforma, stranamente calmo adesso, vuoto, facendo (e questo suonò ridicolo) onore al nome.
Solo dopo un lungo momento scoprii che Pérez era accanto a me. Gli passai il binocolo e gli raccontai in fretta cos’era accaduto. Mi fermò immediatamente, spiegandomi che era al corrente di tutto, compreso l’interesse nullo che la mia storia risvegliava tra quelli di sotto. Protestai dicendo che non era una storia, e che se lo sapeva mi avrebbe fatto un grande favore chiarendolo alla gente. Per tutta risposta, Pérez mi descrisse i cambi intervenuti tra gli scavatori: nuove assegnazioni di mansioni, continui sorteggi e scommesse ai dadi, donne che cambiavano di mano con leggerezza. Inoltre Sánchez aveva iniziato a maneggiare il mutilatore arbitrariamente e López si sbatteva tentando di convincere tutti che il lavoro iniziato non aveva possibilità di successo.
Come corollario a tante calamità, la sabbia rimaneva sospettosamente quieta. Mi concentrai sul paesaggio, perforandolo con lo sguardo grazie alla inusuale trasparenza. Pérez era accigliato, come se si aspettasse qualcosa di prevedibile: la bolla d’aria che si formava davanti ai nostri occhi e scoppiava come una bomba, o lo squalo che saltava a fauci spalancate per strapparci la testa. Dopo un po’ mi resi conto che Péerz non utilizzava il binocolo per scrutare il paesaggio, lo metteva a fuoco in qualche punto della nostra stessa isola, probabilmente l'entrata del tunnel. Prima che sentissi la necessità di domandargli lo strumento, me lo passò con un grugnito.
Sánchez inseguiva López, che si muoveva a zigzag anche se diretto verso di noi. Negli occhi dell'inseguito si intravedeva un’inequivocabile domanda di aiuto, una muta supplica destinata a noi, e che a momenti si trasformava in terrore cieco. López si arrampicò sulla scala con cinque gradini di vantaggio su Sánchez. Mentre saliva a balzi si indicava tra le gambe quale nuova mutilazione cercasse di infliggergli il boia. Appena raggiunse la piattaforma si portò dietro di me. Sánchez, infuriato, con il mutilatore in mano, cercò di mettermi da parte per raggiungere il suo obiettivo, e ce l’avrebbe fatta se un evento eccezionale non fosse intervenuto a cambiare tutto.
Di fronte all’isola si stava formando un coltello di sabbia, un’immensa foglia inclinata a quarantacinque gradi, il cui ovvio proposito era precipitare su quelli intenti a scavare e farli a pezzi. Pérez e io cominciammo a gridare come pazzi, cercando di avvisarli del pericolo, ma fu inutile. Erano così concentrati sul lavoro che neppure si accorsero che l’assurdo coltello si muoveva silenzioso lungo una traiettoria circolare, recidendo al passaggio membra e teste con l’impersonale efficienza che distingueva tutte le armi della sabbia. Non potevamo crederlo, ma stava accadendo. Il coltello completò il perimetro dell’isola e si allontanò verso nord. Era il numero quindici del catalogo.
Ci guardammo terrorizzato. Perfino Sánchez aveva smarrito ogni tratto selvaggio e sembrava credere un muto perdono a López. Pérez approfittò dell’istante per afferrare il prezioso mutilatore di Sánchez e scaraventarlo di sotto, in direzione del deserto.
Entro pochi minuti notammo che l’isola si muoveva, allontanandosi dai morti e dai feriti che il coltello si era lasciati dietro, e anche da coloro che ne erano usciti indenni e che continuavano a scavare nel disordine più completo. Alcuni, come svegliandosi da un incubo, corsero verso l’isola, salvo desistere quando si accorsero che non avrebbero potuto raggiungerla.
L’isola si arrestò finalmente in un punto del deserto senza riferimenti. Non c’erano altre isole intorno e il cielo era estraneo, senza nuvole né stelle, un presagio di nuovi cataclismi. Decidemmo ai voti che non aveva senso prendere iniziative; avremmo atteso fino a che la situazione tornasse a cambiare. Sánchez y López, stranamente mansueti, furono d’accordo, benché per ragioni differenti. Sánchez pareva costernato dalla perdita del mutilatore, malgrado le sue possibilità di utilizzarlo fossero quasi nulle. Ci adattammo, riprendendo l’abitudine di consumare i prodotti dell’isola per sostentarci; giocammo ai dadi e elaborammo complesse teorie per spiegare cosa succedeva, benché nessuna ci sembrasse pienamente soddisfacente.
Dopo un tempo imprecisato ricevemmo la visita degli uccelli di sabbia. Questo è il metodo con cui chi manovra il nostro mondo distribuisce le donne. Le donne caddero sopra i cuscini di paglia che avevamo preparato espressamente e le sorteggiammo secondo il procedimento abituale. López ottenne un due, Pérez un quattro, Sánchez e io tirammo un cinque. Nello spareggio lui tirò un tre e io un uno, ma non mi importava, Sánchez ha un gusto pessimo in materia di donne e sapevo che avrebbe scelto la rossa strabica dai seni grandi che non avrei voluto con me per tutto l’oro del mondo.


traduzione italiana di Franco Ricciardiello
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