Un vetro traslucido
contiene
di un automa,
l’anima e il corpo,
immerso in quelle acque vitali
come liquido amniotico
che della propria madre
un cordone alimenta.
Dalle estremità
di quel simulato acquario,
s’insinuano i cavi
tra le ibride membra,
e, fuoriescono
come serpi dalle loro tane,
traversando con vividi
e concitati spasmi,
l’intero corpo;
Un legame
che per quanto piccolo sia,
per quanto prodotto
sia dall’immaginazione,
fa di quell’androide
un essere vivo.
Così erompe come da una tombale
eco,
una voce metallica
che del nulla i silenzi amplifica:
“In ogni primordiale preesistenza
il genere umano la propria speranza
sopprime,
e la macchina artificiale
d’illusa tirannia regge il
comando”.
Tutto tace, adesso,
e come forte emicrania
fluisce tra i sintetici cavi
un sordo pensiero,
per alimentare
di quelle effimere connessioni
gli umani intervalli.
Al di là di una sintetica morte,
oltre i confini del reale,
una voce molto lontana
ai decaduti androidi tiene
compagnia,
come tenebrosa bruma
che s’erge davanti i nostri occhi.
Immersa in una fitta nebbia
di disperazione e malinconia,
un’intelligenza artificiale
preesiste la forma e la struttura:
un cimitero meccanico,
da cui la nostra Autocoscienza
la sua energia e ascendente, trae.
Parte II
S’aprono i miei occhi,
abituandosi a quei miasmi organici
che del mio corpo vestono
di aliene sembianze una gabbia
amniotica.
Il respiro più si fa forte,
e di quella membranosa barriera
un sofferto e spasmodico
singulto di lacerazione fiorita
cresce nel grembo di una macchina:
Filamenti di muscoli,
nervi e liquido tissutale
a conferirle una vitalità inerte.
Poco più di un fanciullo
di nuove esperienze alla ricerca,
io sono,
mia prima immagine ed ultimo
pensiero
fuori della sacca amniotica, un
grande albero;
Della materna placenta
si liberano gl’ultimi resti,
che oramai divengono
del mio passato da umano,
un semplice riflesso.
In quell’aria madida d’urla
e strazianti grida di sordi
embrioni,
avvinti nell’atto di nascere,
ognuno di noi, un dio si congegna,
un’ostetrica della razza umana,
capace di dispensare la vita e la
morte.
Oh, si, basterebbe semplicemente
strappare di quei maledetti cordoni
dei quali divenni invidioso,
un solo vagito.
Parte III
Dal suo sonno uterino
la creatura si sveglia,
ed osserva di una matrice
la contorta sequenza,
come il feto appena nato
della propria madre contempla il
nulla.
Curva la sua tenue e tenera testa,
seguendo di una lasciva lacrima
il sofferto travaglio;
Una saetta, un istante di pensiero,
e da quella culla virtuale
arretrare fece il mio corpo per lo
spavento.
Sento della creatura l’irrequieta
estasi,
e di lei non solo ma di tutte le
creature
che in quella stanza spartivano il
mio destino.
Chi prima chi dopo
dal proprio sonno letargico
trova il concitato risveglio.
In quel momento solo rimasi,
al centro di tre anelli,
acclamato dalle squassanti
e stridule urla dei miei figli:
Animali in rivolta
che della loro libertà
rivendicano un solo diritto,
Cavie da laboratorio
che agonizzano prima
del loro triste destino.
Con un solo gesto,
aprii le loro “gabbie”,
radunandoli a me,
poiché ne divenni la nuova regina
madre!
Da quel momento
soltanto il mio corpo
ridotto a brani ricordo,
prima di esalare l’ultimo respiro,
tempestato dalla furente rabbia
dei miei stessi figli.