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A RITROSO

Inserito Martedì 28 settembre 2004

Narrativa un racconto di Lanfranco Ferrario

Era ora!

Finalmente risalire  la corrente del tempo era diventato possibile: dopo tanti studi avevo individuato l'equazione base dell'Equilibrio Zymiano, il sistema che regola e limita tutta la nostra Quando-esistenza.

All’alba dei settantasette anni avevo dunque trovato quel luogo dove tutte le mie teorie sarebbero diventate concrete possibilità.

Mi spiego.

Con quella formula avevo definito che qualità e quantità del reale hanno dei punti d'incontro, dei luoghi comuni alle più diverse dimensioni, dei passaggi che possono essere percorsi da corpi solidi e spirituali e cioè da cose e pensieri.

Quei punti, che definii Piccoli Campi Intrafessurali, riescono a sopportare le pressioni di coesione tra i vari livelli di esistenza solamente perché scaricano energia attraverso gallerie di materia, le Incregallerie

Attraverso uno di questi canali interdimensionali ora ero pronto a partire per un viaggio che sarebbe stato il più grande nella storia dell'umanità: mi sarei mosso nel tempo.

Nel passato, precisamente.

Il mio obiettivo, infatti, era viaggiare attraverso gli anni già trascorsi fino ad un preciso momento della mia primissima adolescenza, un momento che per una certa sua singolarità mi aveva rincorso negli anni senza mai abbandonarmi, rimanendo sempre immerso in una nebbia confusa e indeterminata.

Volevo tornare ad un episodio preciso della mia giovane vita  e svelare il segreto di quell'incerto istante lontano.

La scienza e la mia curiosità correvano di pari passo e mi spronavano a partire.

E così feci.

Tutto successe in un attimo: una volta concluso il calcolo matematico inviai il totale ottenuto al computer  centrale attraverso la rete dei server, chiusi la cabina di eiezione e balzai dentro l’Incregalleria che mi si apriva davanti

Sprofondai in un vortice di colori e suoni e mi parve di colare attraverso tutta la materia dell’universo.

Quando il viaggio si concluse, e cioè pochissimi secondi dopo, davanti a me c’erano la mia città e il 1968. Da dove mi trovavo vidi subito la latteria che mi ero ripromesso di raggiungere e la riconobbi con un tuffo profondissimo al cuore.

Le vecchie sedie di plastica arrostivano al sole dell'estate e stavano in equilibrio sui buchi nell'asfalto reso morbido dal caldo. Di fianco alla vetrina c'era la bicicletta

del signor Settegiorni, il proprietario della salumeria a fianco.

Le tovaglie bianche e blu stese sopra i tavolini rotondi muovevano dolcemente gli angoli al soffio di un vento invadente e mai fresco, un vento di città.

Mi dovetti appoggiare ad un albero.

La testa mi girava e sentivo le gambe cedere: l'impatto emotivo con quello scorcio della mia vita passata mi aveva sconvolto.

Non so come descrivere la sensazione che si prova nel respirare l'aria della propria gioventù perchè non è solo la mente ma sono anche i polmoni stessi a salutarla e stringerla con forza, smaniosi di quell'ossigeno da troppo tempo scomparso.

Rivivere è più di ricordare perchè tutto sa di casa.

Fui sul punto di piangere, tradito da una commozione che sembrava togliermi il fiato. I grandi alberi di Via dei Pittori mi carezzavano con l'ombra delle loro grandi foglie quasi mi avessero riconosciuto.

Chiusi gli occhi e attesi.

Mi ero immaginato molte volte quel momento ma mi accorsi di essere assolutamente impreparato a quella meraviglia.

Guardai l’orologio: segnava le dodici e quindici.

Mancava poco all'uscita da scuola.

Se ricordavo correttamente poco dopo lo squillo della campanella io sarei sbucato dall'angolo alla mia destra e assieme ad alcuni miei compagni avrei attraversato la strada a pochi metri da dove mi trovavo adesso.

Ero felice e impaziente.

Poi, d’un tratto, sentii un vociare lontano e capii che i bambini della scuola media stavano riversandosi in strada tra risate e spintoni come una mandria di puledri selvaggi e assolutamente, splendidamente liberi.

Concentrai lo sguardo per paura di confondermi tra tante teste spettinate e di non riconoscermi. Le cartelle ondeggiavano sulle gracili spalle dei ragazzi e il loro movimento metteva allegria.

Fui premiato e mi vidi.

Ero piccolo, più piccolo di quanto ricordassi, biondissimo e pallido.

Camminavo velocemente e mi aggiustavo continuamente gli occhiali sul naso. Parlavo con un ragazzo più alto di me con un viso che non riuscivo a riconoscere.

Leggero e spensierato gli sorridevo.

Provai a immaginare la causa di tanta gioia ma subito compresi che la mia espressione serena era dovuta semplicemente alla felicità che abita le anime semplici.

Per un attimo io e me stesso fummo uno al fianco dell'altro, proprio davanti alle strisce pedonali.

Attraversammo la strada praticamente assieme quindi mi lasciai superare.

Fissavo i passi di quel bambino che ero stato, le scarpette nere e lucide, la giacca ben abbottonata. Tutto mi ricordava l'ordine accogliente della casa dei miei genitori, l'odore di legno che mi assaliva ogni volta che rientravo, la voce di mia madre e i passi lenti e pesanti di mio padre, l’abbaiare del cane.

Ero stato davvero un bambino fortunato perchè la sorte mi aveva donato l'amore di due genitori speciali, ognuno a suo modo.

Ed ecco che il piccolo me stesso entrò in latteria.

Affrettai il passo e rimasi a guardare dalla vetrina.

Quello era il momento, quello il tempo della chiarezza.

Mi vidi mentre con le mani piccole e bianche davo dei soldi al lattaio.

Lui indicò uno scaffale.

Dalla vetrina  vedevo chiaramente le merci  esposte: caramelle gommose, ripiene, al latte e alla liquirizia, gomme americane, bon bon alla frutta e alla menta, lecca lecca e orsetti di zucchero.

Il bambino che ero rimase a guardare tutti quei colori, quelle forme strane e curiose, immerso nell'odore dolce tipico dei negozi che un tempo vendevano un po’ di tutto e che di un po’ di tutto profumavano.

Poi, finalmente, il mio piccolo io allungò la mano destra e prese una caramella, una grossa caramella azzurra a forma di cagnolino, un dolce gioiello racchiuso nella sua plastica trasparente, quindi uscì velocemente dal negozio e corse verso casa spinto, se non ricordavo male, dal desiderio di mostrare alla mamma quanto aveva acquistato con i soldi della mancia.

Lo seguii con lo sguardo e provai il desiderio di chiamarlo, di parlargli, di vedere da vicino i suoi occhi e sentire le sue parole, di cercare di rivivere un po’ di quella fresca innocenza che era stata mia così tanto tempo fa.

Come sarebbe stato bello accompagnarlo fino a casa parlando di come era andata la lezione di matematica o dei suoi giochi preferiti! E che meraviglioso momento avrei vissuto se fossi salito con lui sul vecchio ascensore foderato di legno scuro! E ancora chissà cosa avrei provato se avessi finto di sbagliare piano e mi fossi dilungato sul pianerottolo finché mia madre, bella e giovane, non avesse aperto la porta di casa per aprire al bambino!

Tutti quei tesori erano lì, ad un passo da me.

Ma seppi trattenermi.

Non appartenevo alla vita di quel piccolo e non dovevo in alcun modo interferire con quanto era già accaduto.

In fondo avevo ottenuto il risultato che cercavo: la caramella che quel giorno mi ero comprato era quella azzurra.

Non quella rossa alla fragola o quella bianca e nera alla liquirizia e nemmeno quella al cioccolato a forma di chicco di caffé.

Era la più chiara, a vedersi la più delicata, quasi eterea nella sua confezione semplice e trasparente: un piccolo cagnolino azzurro.

Guardai l'orologio e vidi che era ora di tornare, l'equazione base dell'Equilibrio Zymiano stava per riportarmi al mio tempo.

Felice di sentire ancora per qualche minuto nei polmoni l'aria dei miei primi indimenticabili anni, feci l'ultima cosa che mi restava da fare.

Entrai nella latteria  e comprai una decina di quelle morbidissime  caramelle  azzurre.


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