un saggio di Marcello Bonati
Ian Watson ha cominciato a venir fuori negli anni ’70, anni nei quali la
Sf stava passando un gran brutto momento: stagnazione di idee,
stanche ripetizioni, “…crisi di superficialità, superbia e incultura…” come
la definisce il Malaguti; apportando, invece, alla Sf, ottime innovazioni,
rinnovando, all’interno della fervidissima tradizione fantastica inglese,
come ben dice il Gandolfi “…i fasti dell’invenzione di stampo wellsiano e
(spingendoli) fino agli estremi limiti dell’immaginazione, creando terreno
fertile per tutta una generazione di nuovi scrittori, da Pamela Sargent a
Ian McDonald. (“Ian Watson, o le radici del misticismo tecnologico”, “Il
paradiso degli orchi” n. 2, '93, pag. 59), potendo anche essere
considerato un precursore della successiva ondata cyberpunk.
James G. Ballard, il grande della Sf inglese, lo ha definito “scrittore di
idee”, mentre per John Clute e Peter Nicholls “…la narrativa di Ian
Watson, a volte obbiettivamente difficile per la sua complessità, può essere vista come una
vivace rivolta contro l’oppressione intellettuale e politica, ma anche come una dichiarazione dei
limiti - almeno per quanto riguarda gli esseri umani - del concetto di realtà. Quest’ultimo,
essendo stato creato su misura dei nostri ristretti canali percettivi, risulta soggettivo e
parziale; il tentativo umano di accedere a realtà più complesse, attraverso metodi che vanno
dalle droghe alle discipline linguistiche, dalla meditazione a un’educazione radicalmente
innovativa, non sarà mai completamente coronato dal successo. L’umanità è troppo limitata,
troppo poca cosa per afferrare la realtà. Ian Watson è forse lo scrittore di fantascienza
contemporaneo che meglio sintetizza questi temi, e il meno illuso.” (citato in “Gli autori-Ian
Watson e Michael Bishop”, di Giuseppe Lippi, “Urania” n. 1431, ed. Mondadori, 2002, pag.
202).