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Draghi di carta

Inserito Lunedì 04 ottobre 2004

Narrativa un racconto di James P. Blaylock
illustrazioni di Antonio Folli

Si dice che siano successe strane cose a questo mondo (e si dice che alcune ne succeda­no ancora), ma la metà, se proprio dovessi giudicare, sono bu­gie. Non c'è modo di dirlo, a volte. Per settimane il cielo sopra la costa a nord é stato d'un grigio: fitte nuvole in cielo come lana cardata a non più di quindici metri da terra impalate sulle cime degli albe­ri, sulle sequoie e gli ontani e gli abeti canadesi. L'aria è pe­sante per la nebbia che si posa sulla costa e sull'oceano aperto, ammassandosi di quando in quando sulla punta del molo e del frangionde, con tutti e due che svaniscono nel grigio cosicché non c'é un soldo di differenza tra il cielo e il mare. E quando la marea s'abbassa, e le scogliere che corrono via verso la punta appaiono attraverso la nebbia, coperte dalle vesciche d'acqua marroni e dalle foglie gommose del fuco, dal merletto rosa delle alghe e dalle foglie viscide della lattuga di mare e dell'erba anguilla... é facile immaginare la massa scura del pesce che sta nei giardini delle acque profonde e adescarlo su, verso il verde pallido dell'acqua bassa, a nutrirsi all'alba.

illustrazione di Antonio Folli

C'è la possibilità, naturalmente, che delle cose alate, le loro controparti se volete, abitino le tane nelle nuvole; che nelle vallate e nelle caverne dei cieli pesanti e bassi ci siano bestie impensate. A volte penso che se un uomo potesse tirar via senza preavviso il velo di nubi che oscura i cieli, strappandolo via in un attimo, allora sorprenderebbe un mondo di stranezze là in alto nei cieli: cose a forma di pallone con piccole ali sospese come le pinne dei pesci palla, e creature spinose e coriacee; nient'altro che ossa e denti e con becchi lunghi a sua volta, la metà dei corpi pieni di nervature.

Ci sono state notti in cui ero certo di averle udite, quando la nebbia era appesa alle cime degli alberi e le sirene gemevano oltre la punta e l'acqua sgocciolava dagli aghi degli abeti canadesi oltre la finestra sul tetto sottile del garage di Filby. Ci sono stati i suoni di strilli smorzati e lo sbattere arioso di ali distanti. In una di queste notti che passeggiavo lungo la scogliera, le nuvole si sono aperte per un attimo e una spruzzata di stelle come un carnevale vorticoso ha brillato nelle profondità finché, come una tenda che viene chiusa lentamente, le nuvole non si sono ammucchiate le une sulle altre e non si sono più divise. Sono certo d'aver intravisto qualcosa (un'ombra, la promessa di un'ombra) che offuscava le stelle. Fu la mattina dopo che l'affare dei granchi ebbe inizio.

Mi svegliai a giorno fatto col suono del martellare di Filby contro qualcosa nel garage: penso si trattasse di artigli, artigli di rame. Non che facesse molta differenza. Mi sveglio. Non riesco ad addormentarmi fino ad un'ora circa prima dell'alba. C'è un certo uccello, dio solo sa di che razza, che canta fino alla fine della notte e si azzitta proprio quando sorge il sole. Non chiedetemi perché. Comunque c'era Filby che stava battendo un po' prima di mezzo­giorno. Aprii l'occhio sinistro e lì , in cima al cuscino, c'era un paguro rosso sangue con gli occhi posti sulla sommità delle antenne che mi stava occhiando come fosse orgo­glioso di sè stesso, agitando le pinze a tutto spiano. Saltai su. Ce n'era un altro che strisciava nella mia scarpa e altri due che si liberavano del mio orologio da taschino trascinandolo via nel suo fodero verso la porta della camera.

La finestra era aperta e la zanzariera spaccata. Le bestie si arrampicavano dalla catasta della legna e si issavano attraver­so la finestra aperta per rovi­stare tra i miei effetti personali mentre dormivo. Li buttai fuo­ri, ma quella sera ce n'erano di più, a dozzine piegati sotto il peso della conchiglia che stri­sciavano verso casa con un occhio al mio orologio da taschino.

Era una migrazione. Una volta ogni cento anni, mi dice il dottor Jensen, ad ogni paguro del creato viene la brama del pellegrinag­gio e corre a riva. Jensen s'era accampato sulla spiaggia di casa per studiare le cose. Si dirigevano tutti a sud, come uccelli migratori. Per la fine della settimana ce n'era una quantità seccante in marcia, milioni a sentir Jensen, che continuava ma lasciarono stare casa mia. Diminuirono col trascorrere della settimana successiva e sembravano avanzare alla spicciolata da acque più profonde ed erano sempre più grossi: le dimensioni del pugno di un uomo, all'inizio, poi della testa e poi uno gigantesco, grosso come un maiale, inseguì Jensen fino ai rami più bassi di una quercia. Per venerdì c'erano solo due granchi, entrambi più grossi di un'auto. Jensen se ne andò a casa farfugliando e bevve fino ad ubriacarsi. Era là il sabato, comunque, di questo gli si deve dar credito. Ma non apparve niente. Specula che da qualche parte lungo la costa, nell'acqua profonda di un baratro, un centinaio di braccia oltre la scomparsa degli ultimi colori, ci sia una bestia monumentale, cieca e aggrinzita dalle pressioni spettacolari e con addosso un cappotto di conchiglia, che sta sentendo la strada verso riva.

Di notte, a volte, sento gli echi casuali di schiamazzi lontani, solo un'impressione nebbiosa e in sordina, e mi fermo a fissare le pagine di un libro aperto, la luce del focolare che si riflette sui cristalli tagliati dei miei occhiali; rumori innumerevoli là nella notte nebbiosa tra cui c'é il clack clack clack occasionale di quello che potrebbe essere il granchio impossibile di Jensen che striscia su a gettare un'ombra nella luce del portico, a richiedere il mio orolo­gio da taschino. Fu la notte dopo l'apparizione del granchio delle dimensioni di un maiale che ne entrò uno nel garage di Filby (apparentemente forzando la porta) e fece un bel pasticcio col suo drago. So quello che state pensando. Anch'io pensai che fosse una panzana. Ma le cose da allora si sono messe in modo da farmi ricredere. Apparentemente conosceva Augustus Silver. Filby era un suo accolito, Silver era il maestro. Ma l'affare del drago, mi dicono, non è tanto una questione di meccanica. E' un problema di prospettiva. E' stata quella la rovina di Filby.

C'è stato uno zingaro che fece una breve visita in un carro l'anno scorso. Apparentemente non parlava. Per un dollaro era capace di fare le cose più sorprendenti. Si strappò la lingua, appena arrivato, e la buttò in mezzo alla strada. Poi ci ballò sopra e se l'infilò in bocca, come nuova. Poi tirò fuori le interiora (metri e metri come salsicce che escono dal macinacarne) e le ributtò tutte dentro e con un pizzico richiuse il buco che aveva fatto nell'addo­me. Fece sentir male mezza città, badate bene, ma avevano pagato per vederlo. E' suppergiù quello che ho sempre provato per i draghi. Non credo neppure alla metà delle cose su di loro, ma darei un bel po' per vederne volare uno, anche se non fosse nient'altro che una buona illusione.

Ma il drago di Filby, quello che stava mantenendo per Silver, era un disastro. Il granchio (penso fosse un granchio) lo aveva fatto a pezzi e tirato fuori la bambagia. Mi ricordava uno di quei grossi coccodrilli essiccati che si trovano nei negozi di antiquariato, tut­to mangiato a morsi dagli insetti e che sembra triste e stanco, con la coda piegata di lato e un pezzo dell'ovatta dell'imbottitura che appare da uno squarcio della schie­na.

Filby era fuori di sé. Non é bene, per una persona cresciuta, comportarsi così. Aveva raccolto l'avanzo sbrindellato di un'ala essiccata e ci si stava flagellando. Si frustava e si ingiuriava. Allora non lo conoscevo molto bene e così guardai tutta la strana scena dalla finestra della cucina: la porta del garage che si apriva e si chiudeva battendo al vento, Filby che piangeva e si lamentava attraverso la porta aperta, dando in escande­scenze in lungo e in largo, slanciandosi e arrestandosi teatralmente, la porta che si chiudeva sbattendo tagliando via per circa trenta secondi l'intera faccenda imbarazzante e poi si spalancava completamente per tradire un Filby lamentoso che cercava qua e lì tra i detriti sul pavimento del garage: i resti di quello che una volta era stato un drago in carne ed ossa, per così dire, costruito dall'onnipresente Augustus Silver anni prima. Natural­mente non mi ero fatto nessuna idea allora. Augustus Silver, dopo tutto. Il che quasi giustifica il tirare avanti da parte di Filby. E ho tirato un po' avanti anch'io da allora, anche se, come ho detto, la maggior parte di ciò che ha stimolato l'intero affare é incominciata ad apparire sospetta allo stesso modo delle bugie e i sussurri nella notte nebbiosa, il clamore e il ronzio e il movimento di ali incominciava a suonare come una risata appena mascherata, diventando sempre più confusa con i mesi e sorgendo dal nulla: dalle nuvole, dal vento e dalla nebbia. Anche le lettere occasionali da parte dello stesso Silver erano diventate sospette.

Filby é un eccentrico. Posso vederlo chiaramente. Come finan­zi i propri progetti é al di fuori delle mie conoscenze. Piccoli lavori strani, non ho dubbi: riparazioni e simili. Ha le mani di un meccanico archetipo: dita a spatola, unghie nere, tacche e tagli e graffi che non saprebbe identificare. Deve solo toccare un muc­chio di componenti, agitarci sopra le mani, e le deboli eccitazioni dell'ordine e del progetto sembrano fremere attraverso i membri incrociati del suo banco di lavoro. E qui un enorme paguro si era intrufolato e in una sola notte aveva fatto a pezzi un capolavoro, una meraviglia, una cosa che non poteva essere riattaccata. Perfi­no Silver l'avrebbe gettata. Non l'avrebbe presa neppure il gatto.

Filby fu scontroso per molti giorni, ma sapevo che ne sarebbe venuto fuori. Avrebbe bighellonato attorno casa in modo apatico, agitando giornali del giorno prima e un lampo di luce da un filo di rame gli avrebbe afferrato l'occhio. Il ferro avrebbe suggerito qualcosa. Funziona così. Non solo ha l'irritante abilità di coesistere coi rifiuti meccanici, ma ci parla anche, sussurrandogli delle possibilità.

Presto, qualche mattina, si sarebbe messo a lavorare di gran lena (mannaggia a tutti i paguri) mettendo assieme le diecimila scaglie d'argento di un'ala, as­semblando le punte di rubino di un occhio sfaccettato, scrutando attraverso una lente uno spruzzo di fine metallo filato dentro una treccia che sarebbe corsa lun­go la colonna vertebrale di una creatura che, una volta liberata in una notte neb­biosa, sarebbe scomparsa in un attimo tra le nuvole e se ne sarebbe andata. Così sognava Filby. E lo devo ammettere: ave­vo una fiducia totale in lui, nel drago che sognava di costruire.

All'inizio della primavera, cosi com'è, qualche settimana dopo l'affare dei gran­chi rossi, stavo zappando il giardino.

Un'altra gelata era improbabile. I pomo­dori erano stati piantati da una settimana e un enorme bruco verde pieno di spire si era mangiato le foglie delle piante. Non erano rimasti che gli steli ed erano imbrat­tati da una specie di poltiglia. Una volta, da bambino, stavo scavando tra i rifiuti qualche giorno dopo una piovuta e tirai fuori un verme grosso un dito con il muso di un essere umano. Lo seppellii. Ma questo verme dei pomodori non aveva quel genere di muso. Era piacevole, di fatto, con piccoli occhi porcini e una bozza al posto del naso, come succede per i nasi dei bruchi. Così lo lanciai oltre la siepe nel giardino di Filby. Sarebbe tornato di qua, non c'erano dubbi. Ma sarebbe tornato strisciando da qualsiasi posto, anche dalla luna. E dato che era così (se ciò era inevitabile) allora non sembrava che ci fossero delle ragioni a metterlo tanto fuori della sua strada, se vi riesce di seguire il mio ragionamento. Ma le piante erano un disastro. Le sradicai e gettai anch'esse nel giardino di Filby che è comunque pieno di erbacce, ma Filby in persona si era sporto dalla siepe come una gurgula ghignante e un fascio d'una mezza dozzina di viticci masticati gli volò in faccia come un calamaro. Non si tratta, comunque, del genere di cose che preoccupano Filby. Non se ne curò. Aveva una lettera di Silver spedita un mese prima da qualche parte dal sud.

Allora conoscevo appena la reputazione dell'uomo. Avevo sentito di lui, ma chi non lo aveva fatto? E potevo ricordare a malapena di aver visto le foto di un uomo grosso, barbuto, coi capelli scompigliati e lo sguardo appassionato negli occhi, fatte quando Silver era coinvolto con la lega meccano-vivisezionista, nei giorni in cui iniziavano a conoscere la verità sulla mutabilità della materia. Lui e altri tre all'università furono i responsabili della breve inondazione di unicorni, alcuni dei quali si dice vaghino per le colline attorno a noi, mutanti interessanti, certo, ma non quel tipo di meraviglie da soddisfare Augustus Silver. Dalle foto appare come il tipo che si butta a testa in giù in una pozza gelata e mangia grano bulgaro e miele a cucchiaiate.

E qui c'era Filby, a sbarazzarsi dei resti delle piante di pomo­doro danneggiate e tenendo una lettera in mano, commosso vivamente. Una lettera del maestro! Era stato per anni nei tropici e aveva visto una cosa o due. Sulle colline delle giungle orientali aveva avvistato un drago con quella che quasi sicuramente era una cassa toracica di bambù,Volava col battere furioso da xilofono delle canne ad aria e aveva la testa di un'enorme lucertola, la coda a tridente di una razza cornuta e ali meccaniche costruite d'argento e spago e la pelle di carpa. Gli aveva fatto venire certe idee. I draghi migliori, era sicuro, sareb­bero venuti dal mare. Stava per far vela verso San Francisco. Le cose si potevano acquistare a Chinatown, certe "necessi­tà", come aveva messo nella lettera a Filby. Si citava il moto perpetuo, la costruzione di una creatura immortale, saldata con le parti di una dozzina di animali selvatici.

Io ero ancora in attesa dell'emis­sione dell'ultimo granchio, e anche Jensen. Scrisse una monografia, una relazione di grossa accuratezza scienti­fica in cui si postulava la correlazione tra il numero decrescente delle creature e l'enormità delle loro dimensioni. Si era accampato sulla scogliera col figlio, Bumby, guardando la nebbia di traverso, gli occhi fissati alle lenti di un telescopio speciale (uno che vedeva le cose, così come disse, in modo particolarmente chiaro) e in attesa della prima chela tremante dell'animale enorme che si drizzava fuori dalla risacca grigia, dall'acqua ricadente drappeggiata da erbacce, e del muso del granchio che sarebbe seguito, attirato verso sud da una specie di magnete migratorio verso solo il cielo sa che cosa. O il granchio passò via lungo la costa nascosto dalla nebbia, o Jensen s'era sbagliato: non c'é stato nessun ultimo granchio.

La lettera da Augustus Silver mise le ali a Filby, come si suol dire, che volò a costruire il suo drago, inviando una lettera verso est in cui includeva quaranta dollari, la sua quota arretrata alla Società del Drago. Il bruco dei pomodori, lui stesso un drago senza ali, tornò strisciando nel giardino quattro giorni dopo e si impegno con una mezza dozzina di piantine fresche, mordicchiando arabeschi merlettati lungo le foglie. Lanciarlo di nuovo sul terreno di Filby non avrebbe risolto nulla. Era un verme con una determinazione monumentale. Lo misi in una vaschetta (una vaschetta grande da tre litri e mezzo di sott'aceti, vuota dai sott'aceti, naturalmente) e ci avvitai sopra un coperchio coi buchi fatti con le pinze. Visse felice in un piccolo giardino di foglie e sporcizia e stecchi e pietre levigate, mordicchiando occasionalmente foglie di pomodoro.

Passai sempre più tempo con Filby ad osservare, in quei giorni dopo l'arrivo della prima lettera, le ossa meccaniche e le articolazioni e gli organi del drago messe assieme. Diversamente dal suo mentore, Filby non aveva quasi nessuna conoscenza della vivise­zione. Ne aveva avversione, credo, e come conseguenza le sue creazioni erano quasi completamente meccaniche... e quasi com­pletamente inverosimili. Ma aveva una tale aurea di certezza attorno a sé, una tale convinzione assoluta e irriducibile che anche il progetto più inverosimile sembrava, inesplicabilmente, credibi­le.

Ricordo un sabato pomeriggio con particolare chiarezza. C'era stato il sole per la prima volta da settimane. L'erba non era stata ravvivata da lumaconi e lumache la notte precedente, un segno, credo, che il tempo stava cambiando verso il secco. Ma ero nel giusto solo a metà. Sabato aveva albeggiato senza nuvole. Il cielo era invisibilmente blu, macchiato dalle chiazze di quelli che potevano essere stati passeri o corvi che volavano proprio sopra le cime degli alberi, o facilmente qualcos'altro, qual­cosa di più grosso: draghi, diciamolo, o gli abitanti peculiari di qualche mondo delle nuvole molto distante. La luce del sole si riversò dai vetri molati della finestra della mia camera, e giuro che potevo sentire le piante di pomodoro e di cipolla e di pisello che si schiudevano in fiore, affrettandosi verso il sole. Ma verso mezzogiorno grandi nuvole scure si intorpidirono sopra il Coast Range, le loro ombre che strisciavano attraverso i campi e le sequoie, le staccionate e le siepi. Uno spruzzo di pioggia veleggiò sulla brezza di terra che andava rinfrescandosi, e l'odore dolce dell'ozono si levò dal selciato del vialetto di Filby portando con la minuta traccia iniziale una specie inde­finibile di promessa e di rammarico: la promessa di meraviglie non risolte, rammarico per i periodi e i frammenti di tempo persi che si allontanavano intruppati come paguri in migrazione, inesorabilmente, irreparabilmente, verso le nebbie.

Così fu un sabato pomeriggio di arcobaleni ed ombrelli e Filby, ancora animato dal pensiero dell'avvicinarsi di Silver, mi mostrò qualcuna delle sue cose. La casa di Filby era una meraviglia, condannata interamente alle sue collezioni. Teste intagliate tagliuzzate da steatite e avorio e legno ferroso popolavano le stanze, come strani ricordi di un viaggio lontano. Gli acquari ribollivano, pieni di piante acquatiche e creature strane e chiazzate: anguille maculate e pescifoglia, ghiozzi sommersi nella sabbia fino al naso, pesci piatti con tutti e due gli occhi nello stesso lato della testa, e anablebi sfreccianti che hanno la capacità meravigliosa di vedere simultaneamente sopra e sotto la superficie dell'acqua e così, a differenza del pesce mondano che nuota sotto, erano inclini alla filosofia. Suggerii la stessa cosa a Filby, ma non sono certo che capisse. Libri e pifferi e oggetti curiosi riempivano una mezza dozzina di casse e carte stellari erano appese ai muri. C'erano gli schemi di costruzione di qualcuna delle prime opere di Silver, schizzi intricati e turbinosi completamente ricoperti di quelli che per me erano calcoli e commenti assolutamente privi di significato.

Il lunedì arrivò un'altra lettera di Silver. Aveva continuato verso est, con la promessa di qualcosa di molto raro nella linea dei serpenti: un serpente proboscide, diceva, con i polmoni che correvano per tutta la lunghezza del corpo. Ma sarebbe venuto sulla costa occidentale, questo era certo, a San Francisco. Sarebbe arrivato entro una settimana, un mese, non poteva essere assolu­tamente preciso. Sarebbe arrivato un messaggio. Chi poteva dire quando? Ci accordammo che avrei fatto in macchina le cinque ore verso sud lungo la strada costiera, in città, per prenderlo: io avevo un'auto.

Filby era fradicio di sudore per co­struire la creatura prima dell'arrivo di Silver. Desiderava così ardentemente avere l'approvazione del maestro, vedere negli occhi di Silver la breve elet­tricità della sorpresa e dell'eccitazione. E non avrei messo in dubbio per un momento che ci fosse implicato un elemento di invidia. Filby, dopotutto, aveva languito per anni all'università all'ombra di Silver ed ora era sul punto di diventare lui steso un maestro.

Così là, nel garage di Filby, appoggiati ad una parete di montanti d'abete sgrossato e assi di sequoia, stavano in silenzioso riposo le spalle, il collo e l'ala destra della bestia, la testa una massa di cristalli pastello sfaccettati, filo di pianoforte e le ossa strette nella morbida presa di gomma di una morsa da banco. Fu di venerdì, la mattina della terza lettera, che Filby toccò le punte spellate di due fili di rame microscopicamente fini e gli occhi del drago ruotarono intorno ai loro assi, molto lentamente, ammiccando un paio di volte, passando in rassegna il garage stretto e fiocamente illuminato con uno sguardo antico ed esperto prima che i fili si dividessero e la vita guizzasse via.

Filby era trionfante. Ballò intorno al garage, urlando per la gioia, facendo piccole capriole. Ma la mia proposta di prenderci il pomeriggio libero, andarcene in macchina a Fort Bragg a mangiare e a farci una birra si scontrò con un rifiuto impassibile. Silver, a quanto sembrava, era all'orizzonte. Dovevo partire nella mattina­ta. Avrei dovuto, quasi certamente, passare un paio di nottate in attesa. Non si poteva mettere fretta ad Augustus Silver, natural­mente. Filby, dal canto suo, avrebbe lavorato al drago. Sarebbe stato un affare di una notte e un giorno, a stare larghi. Decisi di prendere con me il bruco dei pomodori per compagnia, per così dire, ma la bestia s'era infilata sotto tutta la robaccia per un sonnellino.

Questo fatto di dover essere un emissario di Filby mi fece l'effetto di ritrovarmi abbastanza dubbioso quando mi svegliai il sabato mattina. Ero un vicino che era stato intrappolato in una rete d'entusiasmo tutta particolare. Io qui mi stavo infilando calzini pesanti e andavo incespicando per la cucina, con fiocchi di nebbia che strisciavano dal davanzale e gli abeti canadesi come fantasmi oltre i vetri gocciolanti, mentre Augustus Silver si dimenava sui flutti oscuri del Pacifico da qualche parte oltre il Golden Gate, con il pugno pieno di ossa di drago. Chi ero io da andare a dirgli qualcos’altro oltre a "Filby m'ha mandato." O qualcosa di più oscuro: "Saluti da Filby." Forse in questi circoli uno semplicemente strizzava l'occhio o faceva un segno o portava un tipo speciale di cappello con una visiera di trenta centimetri e un occhio incastonato in una piramide cucito sul davanti. Mi sentivo come uno scemo, ma l'avevo promesso a Filby. Il suo garage era illuminato all'alba ed io ero stato svegliato una volta durante la notte da uno strillo lacerante, interrotto bruscamente e seguito dalla risata schiamazzante di Filby e da un piccolo brano di canzone.

Avrei dovuto parlare con un anziano cinese di nome Wun Lo in un ristorante fuori Washington. Filby si riferiva a lui come "la connessione". Avrei dovuto presentarmi come un amico del Capitano Augustus Silver ed attendere gli ordini.

Ordini: che diavolo di gergo era? Nel fioco bagliore della lampada, a mezzanotte passata, un discorso segreto di quel tipo sembrava ragionevole, perfino soddisfacente, all'alba gelida era ridicolo.

Erano quasi sei ore fino alla città, serpeggiando per strade tortuose, con qualche tratto qua e là che era finito nel mare per via delle piogge invernali. La nebbia veniva su dalle insenature piene di scogli e si abbarbicava alle pareti rocciose, get­tando un velo grigio su fiori nutriti di rugiada e l'erba del litorale. I paletti argentati delle staccionate spuntavano su dall'oscurità con qua e là il teschio di una vacca o di una capra impalato in cima, e poi il passare via veloce di una mezza dozzina di cassette postali sui pali, arrugginite e messe di sbieco verso la scogliera, assieme a cipressi tutti contorti che sembravano sul punto di buttarsi a mare.

A tratti, senza nessun preavviso, la nebbia scompariva in un batter d'occhio ed appariva un chilometro e mezzo di superstrada sgombra, stranamente nitida e cristallina, in contrasto col suo precedente stato di opacità. Oppure appariva all'improvviso un viale nel cielo, la cui fine remota sprofondava nel blu opalescente e appariva distante e irraggiungibile come la fine dell'arcobaleno. Attraverso uno di questi viali, balzando in evidenza forse per tre secondi, starnazzò la massa sgraziata di quello che avrebbe potuto essere un uccello enorme, che si affannava come contro un vento violento e tumultuoso proprio sopra la nebbia bassa. Con la stessa facilità poteva essere qualcos'altro, di molto più grosso. Un drago? Una delle creazioni di Silver che faceva il nido nelle fitte foreste nebbiose di color smeraldo della Coast Range? Era impossibile dirlo... e un pezzetto di qualcosa, un frammento d'ala, cadde chiaramente da lassù e filò dritto in mare. Forse a cadere fu semplicemente uno stecco che veniva riportato al nido da un airone ambizioso. In un attimo la nebbia si richiuse, o piuttosto l'auto schizzò via dalla schiarita momentanea e ogni opportunità di identificare la bestia, o meglio di studiarla, svanì. Per un attimo pensai di rigirarmi e tornare indietro, ma era improbabile che fossi riuscito a ritrovare lo stesso pezzo di schiarita o che, riuscendoci, la creatura fosse ancora visibile. Così andai avanti, inanellando curve tra le colline coperte di sequoie che potevano essere abili pitture appese lungo i bordi spettrali della Highway One, coi ganci che le tenevano nascoste alla vista persi nella nebbia che stava al di sopra. Poi, quasi senza avviso, l'asfalto umido si trasformò in un'ampia sopraelevata e di li a poco nella distesa ronzante del Golden Gate Bridge.

In basso alcune barche silenziose lottavano contro la marea. Una di esse sarebbe potuta anche essere l'imbarcazione di Augustus Silver nell'atto di inclinarsi per entrare nell'imbarcadero. Probabilmente non era così. Dall'aspetto erano barche da pesca, piene di scampi e calamari e scorfani dagli occhi d'insetto. Guidai fino alla periferia di Chinatown e parcheggiai; lasciata l'auto e m'immersi nella folla che sciamava da Grant e Jackson e a Portsmouth Square.

Era il capodanno cinese. Le strade erano appesantite dall'odore di dolci alla mandorla e di nebbia, di anatra laccata e di polvere da sparo, d'aglio e di alghe. In alto esplodevano i razzi in grandinate di scintille appena visibili ed uno, on­deggiando sopra la strada mentre il fuso bruciava, fece vela dritto verso Washington, fischiando e brillando e spumeggiando verso il muro di un negozio d'antiquariato, cadendo poi a terra inanimato, come imbarazzato per le proprie stravaganze. Il fumo e il botto dei petardi, la calca della gente che mulinava e l'assurdità irritante della mia missione mi condussero giù verso Washington, finché non inciampai nella porta aperta e affumicata d'un angusto ristorante su tre piani. Si chiamava Sam Won.

Una parata di capocuochi abbigliati di bianco si spostava bruscamente dalle verdure. Le grandi padelle cinesi sibilavano. Ciotole presuntuose di riso bianco fumavano sul bancone. La testa d'un pesce grossa come un melone occhieggiava da una teglia. E là, ad un tavolinetto d'acciaio e formica plastificata, sedeva il mio contatto. Doveva essere lui. Filby era stato stupendamente accurato sulla sua de­scrizione. L'uomo aveva una barba grigia che terminava sopra la piana del tavolo e un abito dello stesso colore che era più grosso di qualche taglia, e prendeva delle cucchiaiate di un brodo chiaro in modo cosi meccanico e deciso che il suo mangiare era quasi un cerimoniale. Lo avvicinai. Non c'era altro da fare che farla corta. "Sono un amico del capitano Silver," dissi sorridendo e allungando la mano. Si inclinò, mi toccò la mano con un dito flaccido e si alzò. Lo seguii nel retro del ristorante.

Mi ci volle solo qualche secondo per vedere abbastanza chiaramente che il mio viaggio era stato interamente inutile. Chi poteva dire dove si trovasse Augustus Silver? Singapore? Cylon?

Bombay? C'erano state delle erbe spedite da Est proprio due giorni prima. Fui colpito all'istante dalla stupidità della mia posizione. Che diavolo stavo facendo a San Francisco? Provai la sensazione sgradevole che i cinque capocuochi proprio fuori della porta si stessero facendo una risata a mie spese e che il vecchio Wun Lo, lo sguardo fisso verso la strada, stesse per chiedermi del denaro: un biglietto da cinque dollari, solo fino alla paga. Non ero forse l'amico di Augustus Silver?

Le mie preoccupazioni furono arrestate temporaneamente da una vecchia fotografia appesa sopra un camino ricoperto dalle tegole. Raffigurava una specie di strana città di capanne da qualche parte lungo la costa settentrionale. C'era una leggera nebbia, a sufficienza da velare la campagna attorno ed era evidente che la foto era stata fatta al tramonto, dato che le ombre lunghe e profonde gettate dalle strane bicocche si stendevano verso l'interno tra gli alberi. La punta di un faro era appena visibile sul bordo del Pacifico oscuro e un numero modesto di piccole barche stava all'ancora al di sotto. Era sconcertante, certo... doppiamente, per il fatto che il faro, la lingua di terra che svoltava verso di esso, la baia verde di cipressi ed eucalipto era, ne ero convinto, Point Reyes. Ma la città di capanne, ne ero ugualmente certo, non esisteva, non po­teva esistere.

Le catapecchie del gruppo ruzzolavano giù verso il limite della baia, un lungo arco che scendeva le colline come una strana scala gotica e tutte, lo giuro, erano fatte in parte con le spoglie di draghi, di enormi rettili alati: stagno e rame, pelle e ossa. Alcune erano accatastate di segui­to, inclinate una contro l'altra come i castelli di carte. Alcune erano appollaiate in cima a bidoni d'olio o palette in legno messe per dritto. Qua non c'era altro che un'ala spezzata che gettava un frammen­to d'ombra, là c'era quello che sembrava essere una creatura tollerabilmente com­pleta che mancava, suppongo, di qualsiasi parte essenziale che una volta era servita ad animarla. E accanto a un pentolone da cucina con un uomo che con qualche probabilità poteva essere lo stesso Wun Lo, c'era Augustus Silver.

La sua barba era immensa: la barba di un vagabondo delle colline, di un cercatore finalmente tornato dopo anni di miniere sconosciute, e quella barba e un cappello di feltro a larga tesa, la sua giubba orientale e il bagliore della conoscenza arcana che brillava nei suoi occhi, lo stesso arpione che teneva nella destra serrata, l'ampiezza delle spalle... tutti questi particolari sembrava­no quasi deificarlo, come se fosse un'incarnazione di Nettuno appena uscita dalla baia, o di un Odino errante che si è fermato per bere petali di fiore in un gruppo bizzarro di baracche lungo la costa. Proprio il suo aspetto annullò ogni mia indecisione. Lasciai Wun Lo che annuiva in una sedia e che, evidentemente, aveva dimenticato la mia presenza.

Il fumo pendeva nell'aria delle strade. Migliaia di suoni (una cacofonia di voci, esplosioni, girandole fischianti, musica orienta­le) si mescolavano in una strana specie di silenzio armonioso. Da qualche parte verso nord-ovest c'era un villaggio costruito con le pelli dei draghi. Se non altro, se non avevo scoperto niente sull'arrivo di Augustus Silver, avrei dato almeno uno sguardo al gruppo di baracche della fotografia. Mi spinsi attraverso la calca in direzione di Washington, incurante delle faville e delle esplosioni. Poi quasi magicamente, come il mar Rosso, la folla si divise e un'ampia corsia d'asfalto mi si aprì davanti. Ad entrambi i lati di una strada tutto d'un tratto sgombra c'erano dei visi ghignanti, gelati nell'attesa. Si levò una grossa ovazione, una confusione, un battere di cimbali cinesi e un suonare di piccoli corni di canna. Girato l'angolo e correndo alla pazza velocità di un treno espresso, avanzava la testa furbesca d'un drago di carta, che penzolava avanti e indietro, una criniera incolta dai colori dell'arcobaleno che gli fluttuava dietro. Il corpo della cosa era lungo mezzo caseggiato e sembrava costruito con migliaia di foglietti della carta di riso più fine dai colori pastello, fogli e fogli che minacciavano di liberarsi e dissolversi nella nebbia. Una dozzina di persone accucciate dentro correva lungo il selciato, tutti insieme che urlavano e salmodiavano mentre la folla si richiudeva alle loro spalle e, in un'onda, premeva verso est in direzione di Kearny, col tumulto e i colore che mutavo ancora una volta nel silenzio.

Per questo il resto del pomeriggio ebbe un'aria di irrealtà che, stranamente, rendeva più profonda la mia fede in Augustus Silver e nelle sue creazioni, anche se ogni evidenza razionale sembrava puntare decisamente in direzione opposta. Guidai verso nord uscendo di città e prendendo la scorciatoia a San Rafael verso la costa, verso Point Reyes e Inverness, serpeggiando lungo il fianco verde delle colline mentre il sole si abbassava nel cielo pomeridiano verso il mare. Fu poco prima del buio che mi fermai a far rifornimento.

La curva della costa davanti a me era cugina stretta a quella della foto e bungalow raggruppati sul fianco della collina potevano essere stati gli spettri delle baracche del drago, se si serravano abbastanza gli occhi tanto da confondere l'immagine attraverso un intreccio di ciglia. Forse lo avevo riportato indietro, non posso più dire per niente quale dei due mondi avesse sostanza e quale fosse il fantasma.

Un banco di nebbia era scivolato verso riva. Se non fosse stato per questo, forse, avrei potuto aggiungere la cima del faro e completare il quadro. Così com'era potevo vedere solo il velo grigio della nebbia che si acciuffava in una debole brezza verso terra. Al distributore chiesi una mappa. Sicuramente, pensavo, da qualche parte nelle vicinanze, forse in vista se non fosse stato per la nebbia, c'era il mio villaggio. L'impiegato, un ammasso d'olio di motore e salviette di carta blu che masticava tabacco, non ne aveva sentito parlare, del villaggio del drago, voglio dire. Mi guardò di traverso. Alla vetrina c'era appesa una cartina. Non costava niente guardarci. Così mi diressi verso un cubicolo di acciaio e vetro, gelido per la ruggine e per l'aria del mare e studiai la mappa. Mi disse poco. Era stata appesa di recente, il nastro che la teneva agli angoli non si era ingiallito né aveva incominciato a venir via. Attraverso una porta aperta alla mia destra c'era il garage oscuro dove un meccanico cinese armeggiava col telaio di un'auto su un paranco.

Mi voltai per andarmene proprio mentre la nebbia sospesa inghiottiva il sole, gettando la stazione di rifornimento nell'ombra. Sopra il Pacifico oscuro si dilatavano le nebbie trascinate dal vento marino, un ciuffo penzolante che si incurvava verso il cielo in un'ondata, come l'erba di una pozza dilavata dai marosi o la coda ondeggiante di un enorme drago di nebbia, e per la frazione di un secondo gli ultimi raggi morenti del sole della sera brillarono dalle nebbia stracciata, illuminando la vecchia pompa del distributore, l'interno dell'ufficio sbiancato, il garage buio e cosparso di attrezzi.

La carta alla vetrina sembrò arricciarsi agli angoli, il nastro scuro e secco all'istante. Il fondo bianco si tinse di ombre d'avorio antico e d'ocra pallida, e quelle che erano state delle brutte pieghe nella carta apparvero, per un momento, come delle strade finora sconosciute che portavano dalle sequoie verso il mare.

Fu la strana combinazione, ne sono sicuro, di sera, sole morente e nebbia che saliva a rendermi, per un attimo, incerto se il meccanico fosse accucciato nella sua tuta sotto qualche automobile enorme e pinnata, figlia della peculiare architettura dell'inizio degli anni '60, o se invece stesse lavorando sotto la conchiglia di cromo e ferro di un drago inclinato, gelato in volo sopra il pavimento di cemento tutto gras­so e composto da spire di tubi da riscaldamento e vecchi pneumatici polverosi.

Poi il sole ne se andò. L'oscurità cadde in un attimo e tutto fu come era stato. Guidai lentamente verso nord attraverso il villaggio. Non c'era, naturalmente, nes­sun villaggio di capanne fatto con gli scarti dei draghi. Non c'era altro che magazzini e lotti liberi pieni d'erbacce e il cemento e lo stagno consumati di una costruzione industriale occasionale. Un groviglio di stradicciole circondate da baracche strane e cadenti, solo alcune su pali come in attesa di una marea di proporzioni apocalittiche. Ma le baracche erano fatte di doghettato e ghiaia bituminosa, non c'era alcun accenno a un drago da nessuna parte, neppure la punta di un'ala arrugginita nel jimsonweed e mostarda.

Decisi di non passare la notte in un motel, anche se ero tentato a farlo, nella remota possibilità che la nebbia si dissipasse e che i raggi di luna acquosi della costa lavassero via dalla linea costiera qualsiasi cosa (uno scherzo della luce del sole o uno scherzo della nebbia) che per un istante mi aveva confuso alla stazione di servizio. Ma, come dico, il giorno era stato, in massima parte, infruttuoso e il pensiero di sborsare venti dollari per la stanza di un motel era intollerabile.

Era tardi, quasi mezzanotte quando arrivai a casa, esausto. Il bruco dei pomodori dormiva nella sua tana. La luce ardeva ancora nel garage di Filby così uscii per sbirciare attraverso la porta. Filby sedeva su uno sgabello, il mento sulle mani, che guardava fisso alla testa smantellata della sua bestia. Istantaneamente mi rammaricai di aver guardato dentro; mi avrebbe chiesto notizie di Silver e io non avrei avuto niente da dirgli. Le notizie (o piuttosto la mancan­za di notizie) sembrarono prosciugargli fino in fondo l'energia. Non avrebbe dormito per due giorni. Jensen s'era fatto vedere qualche ora prima borbottando di una marea meravigliosamente alta e del suo sospetto che l'ultimo dei paguri avrebbe potuto ancora farsi vedere. Non avrebbe voluto, Filby, dare un'occhiata alla spiaggia quella notte? No, Filby non avrebbe voluto. Filby voleva solamente assemblare il suo drago. Ma c'era qualcosa non proprio a posto: un filo o un altro che faceva contatto, o una gemma che era stata tagliata male... e la creatura non ri­spondeva. Erano solo dei rot­tami.

Mi doletti con lui. Sbarra la porta al paguro di Jensen, dissi, e aspetta l'alba. Sembrava ec­cessivo come insulsaggine ma Filby, credo, era pronto ad accettare qualsiasi ragiona­mento, senza badare a quanto fosse vuoto, per abbandonare il suo rabberciamento.

Tutti e due sedemmo fino a che non sorse il sole, la­sciandoci trasportare da remi­niscenze lacrimose e dibat­tendo sui vantaggi di un giro giù alla scogliera per vedere come se la stava passando Jensen. L'alta marea, apparen­temente, era accompagnata da una risacca monu­mentale dato che negli spazi di silenzio meditativo potevo sentire proprio la furia e il fragore delle ondate che collassavano sulla spiaggia. Mi sembrava poco probabile che ci fosse qualche paguro in marcia.

I giorni che seguirono non videro nessun cambiamento nel tempo. Continuò a gocciolare e ad essere fosco. Non arrivò nessuna lettera da Augustus Silver. Il drago di Filby sembrava essere in uno stato di declino perpetuo. Il problema che lo infettava si ritirò in profondità col passare dei giorni come se si prendesse gioco di Filby che lo cercava a tentoni durante la veglia, che annaspava verso di esso, certo in mattinata di tenere il problema con sicurezza per la coda, imbronciato quello stesso pomeriggio perché ancora una volta gli era sfuggito. La creatura era una meraviglia perfetta di parti separate. Non avevo avuto idea della sua età. Centinaia di quelle parti, per la fine della settimana, erano poggiate con precisione sul pavimento del garage, una dopo l'altra nell'ordine in cui erano state smontate. Cerchi concentrici di ossa si espandevano come increspature in uno stagno, e per il martedì della settimana successiva grosse quantità ne erano state raccolte in barattoli del caffé che stavano qua e là per il banco di lavoro e sul pavimento. Filby stava decadendo, lo si poteva vedere. Quella settimana passò meno tempo nel garage di quanto non ne avesse passato là un solo giorno le settimane precedenti, e al contrario dormiva per lunghe ore nel pomeriggio.

Io avevo ancora la speranza di una lettera da Silver. Era, dopotutto, là fuori da qualche parte. Ma ero tormentato dal sospetto che una tale lettera avrebbe potuto contribuire certamen­te ad accertare le illusioni di Filby (o le mie) e così prolungare quello che col passare dei giorni prometteva di essere lo sgonfiamento finale di quelle stesse illusioni. Meglio nessuna speranza, pensavo, della speranza impossibile, dell'attesa rovinata.

Ma verso la fine del pomeriggio, quando dalla finestra dell'attico po­tevo vedere Jensen farsi strada con cura tra le scogliere portando con se un cannocchiale in legno e ottone, mentre il bagliore arancio di un sole diffuso si radiava attraverso la nebbia sottile sopra il mare, mi chiesi dove fosse Silver, quali strani mari solcasse, quali meraviglie bisbigliate lo stessero trascinando lungo sentieri della giungla proprio quella sera.

Un giorno sarebbe arrivato, di questo ne ero certo. Ci sarebbe stata una nebbia rattoppata illuminata dalla luce avorio della luna. Il suono della musica orientale, di banjo cinesi e gong di rame avrebbe echeggiato sopra l'oscurità dell'oceano aperto. La nebbia avrebbe vorticato e si sa­rebbe aperta, rivelando un universo di stelle e pianeti e l'aurora boreale che danza in colori trasparenti come la luce delicata d'arcobaleno delle lanterne di carta appese al cielo spazzato dal vento. Poi la nebbia si sarebbe richiusa e fuori dalle brume spettrali, sollevandosi nella risacca, la sua nave si sarebbe diretta alla bocca del porto, lentamente, fenden­do l'acqua come uno spettro, strane creature marine visibili nella scia fosforescente, lasciandosi andare una dopo l'altra e tornando al mare come se avessero accompagnato lo scafo per diecimila miglia d'oceano misterioso. Ci saremmo messi a bere una birra, tutti e tre, nel garage di Filby. Avremmo convocato Jensen dalla sua veglia.

Ma come ho detto non arrivò nessuna lettera e ogni attesa fu vana. La bestia di Filby era ridotta in parti: un vassoio di carni guaste, così com'era. La sua idea mi ricordava soprattutto i tristi resti ossei del tacchino del Giorno del Ringraziamento. Non ci si poteva fare niente. Filby non si sarebbe placato. Ma la nebbia, alla fine, si era sollevata. La quercia nel giardino stava schiudendo le foglie e le piante di pomodoro arrivavano all'altezza del ginocchio ed erano lussureggianti. Il mio bruco era ancora addormentato, ma avevo qualche speranza che l'aria primaverile lo avrebbe resuscitato. Comunque, quell’aria non stava facendo nulla per Filby. Guar­dava fisso per lunghe ore al miscuglio di detriti e quando in un momento male ispirato gli suggerii scherzosamente di mandare qualcuno a Detroit per un carburatore, mi gettò un tale sguardo selvaggio che mi defilai di nuovo lasciandolo solo.

Una domenica pomeriggio il vento soffiava facendo sbattere la porta del garage di Filby fino a che il rumore non divenne molesto. Guardai dentro furtivamente, inorridito. Non c'era niente nei pezzi di rottami accatastati che suggerisse un drago, tranne un'ala smantellata, con la seta e l'argento coperti da manate di grasso. Due gatti si aggiravano attorno. Cercai in giro qualche segno del paguro di Jensen sperando, di fatto, che una qualche spiegazione razionale e concreta potesse essere richiamata a spiegare il disa­stro. Ma Filby, ahimé, era semplicemente andato in pez­zi con i programmi del suo drago. Aveva perso qualsiasi strana ispirazione che gli dava la carica. La sua creazione gia­ceva tutta sparsa, con neppure due pezzi collegati. Cavi e fusi erano ammassati in mezzo a cristalli non meglio identificabili e il pezzo contor­to d'un macchinario elaborato era stato, abbastanza chiara­mente, molto seguito e ora giaceva freddo e morto, semi­nascosto sotto il tavolo da la­voro. Dei delicatissimi questi e quelli erano impantanati in una pozzanghera d'olio che schiu­mava per metà il pavimento.

Filby girava attorno, alla deriva, i capelli consunti. Ave­va ricevuto un'ultima lettera. C'erano degli accenni a un viaggio estensivo, forse del pericolo. La visita di Silver alla costa occidentale era stata di nuovo rimandata. Filby si passò la mano indietro sui capelli, dimentico del tormentato ri­sultato che l'azione causava. Aveva l'aspetto d'un pazzo Bedlam del 18° secolo. Bor­bottava qualcosa sul fatto di ave­re una sorella a McKinleyville e apparve abbastanza acceso quando aggiunse, senza moti­vo, che nella città della sorella, in profondità nel cuore della costa settentrionale, c'era il totem più alto del mondo. Due giorni dopo era partito. Gli chiusi la porta del garage e gli promisi di raccogliergli la po­sta con un occhio particolare per un francobollo esotico rivelatore. Ma non è apparso ancora niente. Ho preso l'abitudine di passare la sera sulla spiaggia con Jensen e il figlio, Bumby, tutti e due che sperano ancora nella fuoriuscita dell'ultimo paguro. I tramonti primaverili sono inimmaginabili. Bumby ne è innamorato quanto me e può vedere comparabili spire di colore e di forma nelle curve a spirale di una conchiglia o nelle peculiari profondità verdi di una pozza creata dalla marea.

Di fatto, quando il mio bruco dei pomodori è venuto fuori barcollando dalla tana e ha spiegato un enorme paio di ali diafane chiazzate di scuro, l'ho portato in spiaggia cosicché Bumby potes­se vederlo alzare le vele, così com'era. Il pomeriggio era senza nuvole e l'oceano sospirava sulla spiaggia. Forse la calma, insiste­va Jensen, avrebbe richiamato il paguro. Ma Bumby per allora era indifferente al favoleggiato paguro. Guardava nella scato­la della salamoia alla mezza dozzina di cerchi di un lumi­noso arancio che punteggia­vano l'addome di una gigante­sca farfalla sfinge che una vol­ta aveva strisciato tra le mie piante di pomodoro in un astuto mascheramento. Era magnifica e terribile allo stes­so tempo e aveva un fascino strano per Bumby che dava dei colpetti alla scatola inven­tando nomi e scartandoli.

Allorché svitai il coperchio, la farfalla svolazzò verso il cie­lo per qualche metro e girò attorno in un ovale impazzito, con Bumby che era attaccato alla sua scia e correva all'inse­guimento mentre il mostro si affrettava verso sud.

Il suo quadro m'é chiaro ora come acqua di sorgente: Bumby che corre e che salta, scalciando verso l'alto spruz­zate di sabbia, che si profila contro la scogliera muschiata che sale a picco e la magnifica farfalla sopra la testa, fuori portata, che alletta Bumby lungo la spiaggia del pomeriggio. Alla fine fu impossibile dire semplicemente cosa fos­se la chiazza nel cielo blu Cina: la minuta creatura alata per un attimo in controluce nel falso orizzonte della nostra piccola baia, o qualche grossissimo rettile volante che si avventa sopra l'oceano distante da dove scomparirà nel vuoto, oltre l'orlo della terra piatta.

illustrazione di Antonio Folli

titolo originale Paper Dragon

© James P. Blaylock

traduzione italiana Danilo Santoni


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