romanzo di Giampietro Stocco
Il fucile modello 1777 era pesante
e scivoloso nelle sue mani. Paolo Revello da Pallare, disertore dell’Armée
d’Italie, sudava copiosamente nell’ombra del folto cespuglio di rosmarini
che dominava il piazzale della Cascina. Il sole di aprile picchiava caldo sul
suo nascondiglio. L’aveva raggiunto Dio solo sapeva come, costeggiando nella
notte le mura assediate del castello della Cosseria. Gli invasori vi avevano
isolato dentro un migliaio tra austriaci e piemontesi, dopo avere portato il
terrore e la morte in tutta la Val Bormida.
Eccolo lì,
pensò Paolo, aguzzando lo sguardo verso un giovane magro, di bassa statura e dai
capelli lunghi, che teneva le braccia incrociate dietro la schiena. Non può
che essere lui. Certo, un fisico non imponente… Da dove veniva tutto quel
carisma che sembrava trasudare? Era appena uscito dalla costruzione dove,
avevano avuto ragione i contadini, era arrivato di buon mattino. Certamente per
dirigere l’assalto finale. Attorno a lui gli alti ufficiali dell’ Armée
parlavano animatamente, rivolgendosi con ossequio a quello che chiamavano ‘mon
génera’”. “Macellaio!” sibilò Paolo tra sé. Ricordava ancora come i suoi
scagnozzi avevano introdotto la coscrizione obbligatoria. A suon di bastonate, e
a colpi di fucile per i più riottosi. Come se lo avesse sentito, il giovane dai
capelli lunghi girò di scatto la testa verso i cespugli, subito imitato dagli
altri ufficiali. Immobile, Paolo sudò freddo, nelle narici l’aroma di rosmarino.
Ma lo sguardo da predatore del francese fu subito rapito da un corriere che si
stava avvicinando a cavallo.
Adesso o mai più,
pensò Paolo. Per usare il suo lucido moschetto ad avancarica avrebbe dovuto
mordere, per aprirla, la cartuccia che aveva già estratto dalla tasca e alzare a
metà il cane nel percussore, versando un po’ di polvere. Sì, tutto semplice,
però…A quel punto si accorse del dilemma. Il guaio era che avrebbe dovuto girare
poi l’arma in posizione eretta per infilare il resto della polvere nella canna e
poi inserire il proiettile e calcare lo stoppaccio. Si sarebbe dovuto alzare,
insomma, o comunque accomodare in una posizione semieretta che il suo
nascondiglio, un cespuglio che gli arrivava a malapena alla vita, rendeva
impossibile. Come fare? Fu allora che Paolo si ricordò dell’altra arma, quella
che, senza troppa convinzione, si era portata a tracolla e che adesso gli
premeva contro un fianco. Curioso moschetto, non troppo dissimile in lunghezza
dal suo preferito, ma così diverso nel meccanismo… Si diceva che fosse stato
fabbricato qualche anno prima a Napoli da un nobile eccentrico, un tale Raimondo
di Sansevero, ed era a retrocarica. Una caratteristica rivoluzionaria, che
permetteva dunque di armarlo anche da sdraiati. Glielo avevano spiegato una sola
volta, ed era sembrato semplice.
Asciugò le mani zuppe sul feltro
sporco dell’uniforme da fantaccino, poi dalla stessa tasca semilacera trasse un
altro tipo di cartuccia. Era cilindrica, di carta, riempita per la metà di polvere, su cui era posto l'innesco; la palla era posta
al di sopra di questo e tutto l’involto era poi chiuso come un sacchetto. Guardò pensoso l’oggetto per un istante. “Che tu possa trovare la tua strada,
amico mio,” disse sottovoce cercando di convincersi, poi aprì
l'otturatore posto vicino al calcio dell’arma e inserì la cartuccia nella
camera; chiudendo l'otturatore veniva compressa la molla dell'ago e l'arma era
pronta per lo sparo.
Paolo imbracciò il fucile ormai carico e
tornò a fissare lo sguardo verso la cascina. Il piccolo francese era ancora lì,
le braccia incrociate dietro la schiena. A un certo punto prese in mano i
documenti che gli aveva portato il corriere. Erano passati poco meno di due
minuti. Paolo era tra i più veloci del suo paese nell’armare un fucile a pietra
focaia, e tra le sue mani aveva un moschetto che si caricava in un terzo del
tempo. Tuttavia i nemici erano in molti, e il giovane era sicuro che avrebbe
avuto un’unica possibilità a disposizione.
Il francese lesse e
rilesse il dispaccio, poi lo gettò a terra. “Merde!” disse a voce alta, facendo
un passo avanti e girandosi verso il cespuglio di rosmarini. Trecento passi. Era
ancora troppo lontano. Paolo sistemò il moschetto appoggiandolo in una
biforcazione di rami, stando attento a non esporre la canna ad eventuali
riflessi. Un braccio ancora fermo dietro la schiena, l’altro che mulinava in
aria, il francese si stava rivolgendo animatamente ai suoi. Il volto, fino a
poco prima imperturbabile, ora era teso. Gli occhi sfavillavano. Piglio da
condottiero, pensò Paolo. Comprendeva poco quella lingua, ma capì che due
attacchi al Castello erano falliti in tre ore. Il francese continuava a
camminare verso il cespuglio di rosmarini. Duecento passi. “Non ancora, amico
mio, non ancora, “ mormorò Paolo nel silenzio rotto solo dalle esclamazioni
davanti alla cascina. Perdite gravissime, questo Paolo lo capì, gli invasori
stavano infrangendosi contro la resistenza del Castello. Quel fottuto Del
Carretto. E’ un osso duro, Filippo Del Carretto, non è vero, francese?
L’ultima frase, diretta all’eroico ufficiale che stava guidando la resistenza
nella fortezza, era stata chiarissima. Una tortora si posò da qualche parte alle
spalle di Paolo facendolo sobbalzare con il suo verso roco. Cento passi. Anche
quel fucile così strano avrebbe dovuto fare centro da quella distanza…
Adesso! Un respiro profondo, poi Paolo trattenne il fiato e tirò il
grilletto del suo fucile, proprio mentre il francese scorgeva il riflesso del
sole sulla canna dell’arma.
L’uomo si riempì i polmoni d’aria
per dare l’ allarme, ma il proiettile fu più veloce. Lo raggiunse in mezzo agli
occhi. L’impatto scoperchiò la calotta cranica e proiettò brani di materia
cerebrale sugli stivali dei generali Banel e Quenin. Il corpo crollò a terra
come un fantoccio. Per qualche istante il tempo si fermò. Ufficiali e soldati
dell’ Armée d’Italie rimasero immobili. Il generale Augereau, un uomo
grande e grosso, ruppe infine l’incantesimo, chinandosi sul corpo esanime nella
polvere.
“Napoléon est mort,”
disse rialzandosi con voce atona.
Paolo Revello da
Pallare ebbe appena il tempo di proiettarsi dal cespuglio di rosmarini verso il
burrone che precipitava sul Bormida. Udì appena la detonazione di un altro
fucile modello 1777. Il proiettile lo colpì alla schiena mentre già precipitava
nel vuoto. Si sfracellò sulle aguzze rocce dieci metri più in basso. La morte lo
raggiunse mentre sul suo volto si allungava un sorriso.
scarica il romanzo completo in
formato pdf
collegamenti:
Quante storie!, discussione a tre su allostoria
e dintorni - a cura di Massimo Giraldo, Danilo Santoni e Giampietro Stocco
Allostoria