E UN GIARDINO FIORIRA' NEL MIO DESERTO
Data: Martedì 11 gennaio 2005
Argomento: Narrativa


un racconto di Donato Altomare

L'aereo compì il solito giro prima di scendere sulla piccola pista di Abu Simbel. Fuori la temperatura superava i 40° all'ombra, ma questo era l'ultimo dei sui pensieri. Del resto, cos'altro ci si poteva attendere da un deserto?! Bruno si stirò con una certa difficoltà a causa della cintura di sicurezza ben stretta e si concesse qualche attimo di riposo, abbandonando le relazioni sul Progetto che l'avevano tenuto occupato per l'intero viaggio.

Fu un errore. Libera da vincoli, la sua mente corse indietro a rinvangare le tristi vicende degli ultimi giorni.

«Vuole costituirsi parte civile?

Clara…

«Professor Vanzi, capisco che questo è un momento molto doloroso, ma devo conoscere le sue intenzioni Questi delinquenti…

Clara.

Li aveva fissali a uno a uno. Negli occhi E aveva ricevuto per tutta risposta uno sguardo di sfida. Strano, ma la sua ira s'era chetata Non avrebbe mai accettato da loro il pentimento. Non si violenta e uccide barbaramente una ragazza per poi piangere fredde lacrime di coccodrillo E solo per paura della giustizia.

«No, – aveva risposto deciso.

L'ispettore l'aveva fissato perplesso. Poi si era limitato a sollevare le spalle

Uno scossone lo riportò alla realtà Pesantemente, con numerosi sobbalzi, il vecchio Fokker da trasporto, trasformato in passeggeri, si posò sulla pista come un uccellaccio trasandato. Subito lo stridìo dei freni. Infine, vibrando, l'aereo si fermò.

Il caldo lo fece boccheggiare. Faticò a muovere i primi passi, poi, finalmente, raggiunse la bassa costruzione dove i doganieri egiziani parevano divertirsi un mondo a fare il proprio lavoro con esasperante lentezza ammiccando tra loro per il sudore che incollava alla pelle le vesti dei bianchi.

«II professor Bruno Vanzi?»

«Sì, sono io.»

L'uomo gli tese la mano. Era non molto scuro di carnagione, con un viso piuttosto simpatico. «Il mio nome è Abhela Bathor. Abhe per gli amici. Le pongo il benvenuto da parte del governo.»

Il sole li colpì non appena uscirono dalla sala passeggeri. Fuori, l'unico riparo era costituito da due palme troppo lontane perché la loro ombra potesse raggiungerli. «Vorrei andare subito alla base» disse Vanzi con un sospiro di sollievo. Se le formalità erano tutte lì, poteva ritenersi davvero fortunato.

«Certo. E' tutto pronto.» L'egiziano lo precedette portando i bagagli. Con cura li depositò su una vecchia jeep, spalancò la traballante porta, fece accomodare l'ospite e, salendo al posto di guida, partì. Durante il viaggio non aprì bocca. La fuoristrada procedeva sulla stretta striscia di terra battuta emettendo lamenti d'ogni genere, eppure il guidatore non pareva preoccuparsene.

«E' sempre così caldo qui?»

Abhe sorrise mostrando denti bianchissimi: «Oh no, professore, oggi è una giornata fresca.»

Vanzi sollevò un sopracciglio e non chiese più nulla. Capiva che quella gente aveva ben poco di cui vantarsi. La minima possibilità d'ostentare una certa superiorità nei riguardi di uno straniero non veniva trascurata.

«Ecco, siamo arrivati.» C'era una recinzione molto alta. La strada era bloccata da un robusto cancello. L'egiziano aprì un cassetto della jeep e gli porse un comando elettronico. «Non esiste una chiave. Solo questo apparecchio può aprire e chiudere la serratura. Lo tenga sempre con sé.»

Bruno gli dette una rapida occhiata poi pigiò l'unico pulsante che spiccava rosso e usurato. Il cancello si spalancò con uno scatto metallico per poi richiudersi velocemente alle loro spalle. In lontananza si scorgeva la splendente cupola della base, una cupola avvolta da centinaia di pannelli solari. Percorsero un altro paio di chilometri prima di raggiungerla. Nel deserto le distanze sono falsate, come pure le dimensioni apparenti.

«Come già saprà, la base è autonoma. Lei sarà solo qui. Io provvederò ai rifornimenti una volta alla settimana.»

Si limitò ad annuire. Sapeva che la base aveva bisogno di un controllo umano limitatissimo, almeno per la prima fase del Progetto Eden. E sapeva anche di essere solo. Era stato lui stesso a rifiutare assistenti. Erano nove anni che lavorava con un gruppo di scienziati a quell'ambizioso tentativo, solo che sino ad allora era rimasto sepolto in tranquillissimi laboratori a San Francisco o a Roma.

Poi, improvvisa, la morte violenta di Clara. E dentro di lui qualcosa era mutato, tanto da spaventarlo. Lì per fortuna, aveva le piante da seguire e poco tempo per pensare. O, almeno, questa era la sua speranza.

«Se ha bisogno di me può chiamarmi per radio» continuò Abhe, «vorrei, se me lo concede, darle un consiglio. Nel deserto, quando si è soli, una piccola difficoltà a volte può significare la morte. Non lo dimentichi, professore, la prego.»

Bruno annuì distrattamente. Sapeva ogni cosa. Non l'avevano certo mandato lì allo sbaraglio. «Non lo dimenticherò, signor Abhela.»

«Solo Abhe, per gli amici, ricorda?»

«Certo. ..Abhe. Vorrei congratularmi con te. Parli molto bene la mia lingua.»

Lui parve felice per il complimento. «Sono stato cresciuto da una famiglia italiana. Io non ho più genitori e devo tutto a loro.»

«Me ne dispiace.»

«Oh no, professore. Come dicono qui, molta sabbia si è accumulata sulle piramidi e il vento ha spostato molte dune da quando è successo.»

Tornò alla jeep e mise giù le due valige. Poi balzò sul sedile di guida: «Un'ultima cosa che certo al Centro Smistamento non le avranno detto. Vede, professore, il deserto, a volte, fa… fa strani scherzi.

Il deserto e il sole. Non creda a tutto quello che le sembrerà di vedere.»

«Oh sì,» convenne Bruno con un leggero sorriso, «fontane che zampillano, odalische dal ventre nudo e ondeggiante. E magari una fresca fetta d'anguria.»

L'egiziano sorrise di riflesso, ma i suoi occhi restarono ammonitori: «Anche altre cose, anche altre cose...» Poi, mormorando un saluto nella sua lingua madre, accese il motore e con un incredibile balzo partì lasciandolo solo e perplesso sotto il sole implacabile.

Fu allora che accadde.

Il vento si sollevò improvvisamente, Bruno sentì il rumore della sabbia contro le vetrate della base. Pareva un lontano crepitare di fuochi d'artificio. Girò lo sguardo. E la superficie di una duna lontana si mosse sotto la spinta del vento. Ma non come avrebbe voluto. C'era parte della sabbia che andava via, parte che restava a formare segni incredibilmente simili a lettere: CIAO.

Fu questione di attimi. Sbatte le palpebre, ma lo stesso vento aveva cancellato tutto. Allora sollevò lo sguardo al cielo e borbottò: «Cominciamo bene!»

Al fresco della base gli parve d'essere in paradiso.

Il lavoro si rivelò subito impegnativo. Pretendeva tutta la sua attenzione e le sue capacità professionali.

L'avevano chiamato Progetto Eden. Un nome altisonante per qualcosa che aveva a che fare con la lattuga, i fagioli e il cotone. Eppure era il più ambizioso progetto per la coltivazione del deserto mai tentato.

Poco distanti dalla cupola principale c'erano le serre, centinaia e centinai di metri quadrati di sabbia coperti da una struttura argentata capace di respingere quasi il 70% dei raggi solari. Tutto con l'unico scopo di strappare aree coltivabili al lento inesorabile avanzare del deserto, per riprendersi con gli interessi i territori fertili ricoperti dalle dune. E avevano iniziato con le piante che parevano più indicate: lattuga, fagioli e cotone.

Appena disfatte le valige aveva esplorato il suo regno. Era perfetto. Un computer da mille gigabytes era in grado di regolare le funzioni della base e lo stesso ciclo di coltivazione. Miliardi di cellule solari fornivano l'energia, più che sufficiente a trasformare la maledizione del sole in vita. E se questo non fosse bastato, lì, a due passi, ben sepolto in una casamatta di cemento armato sonnecchiava un generatore atomico.

Così riuscì a non pensare più a Clara. Passava quasi tutto il suo tempo tra le serre e il laboratorio, facendo ogni tanto una capatina in sala radio tanto per non perdere del tutto i contatti col mondo esterno.

Il sole nasceva, splendeva fulgido e si rituffava sfrigolando tra le sabbie lasciando il cielo a una notte gelida e incredibilmente stellata. Lì la cattiveria, l'egoismo, tutte le brutture di un mondo privo di scrupoli parevano solo vaneggiamenti di un folle.

Fu proprio durante una delle sue regolari visite alla sala radio che riuscì a captare un comunicato. Era in inglese, una lingua che conosceva bene. Ed era concitato. C'era stato un attentato sanguinoso. L'Egitto aveva accusato la Libia d'essere la mandante dei terroristi e aveva ammassato le truppe ai confini. La Libia per tutta risposta aveva accusato l'Egitto di cercare un pretesto per violare i suoi sacri confini e aveva messo in allarme l'intero esercito. Insomma, sull'Africa Settentrionale si addensavano nubi di guerra.

Bruno non diede molto peso alla questione, ma per scrupolo chiamò l'Ambasciata americana al Cairo. Lui si trovava piuttosto lontano dal confine libico, ma era egualmente in Egitto e non gli andava proprio di lasciarsi coinvolgere in qualche stupido conflitto.

Dopo essersi qualificato al marconista attese alcuni minuti. Infine: «Frank?» Il vice console era un vecchio amico di università.

«Bruno?! Che piacere sentirti, non sapevo fossi da queste parti.»

«Hai ragione, è colpa mia. Dovevo passare a salutarti, ma non avevo voglia di vedere nessuno. Scusami.»

«Sì, ho saputo. Cosa posso fare per te?» disse in tono sinceramente contrito.

«Cosa c'è di vero in questa storia?»

«Egitto e Libia?»

«Esatto.»

«Più di quanto si dice in giro. Non ci sono ancora giunti gli ordini dagli Stati Uniti, ma circola voce che l'Ambasciata sarà evacuata. E non solo la nostra. Pare che tutti i cittadini stranieri debbano abbandonare le due nazioni.»

«Ma, Santo Cielo, non è la prima volta che i due paesi si beccano come galletti sollevando la cresta!»

«Non dirlo a me, ma temo che stia per succedere qualcosa di molto grave. Non posso dirti di più. Devo correre a una riunione. Appena avrò notizie precise ti chiamerò.» Non chiuse subito la comunicazione. «Bruno» disse con voce preoccupata, «non allontanarti troppo dalla radio. E tieni sempre pronte le valige. Passo e chiudo.»

La radio ronzò senz'anima. Stravolto, Vanzi girò lo sguardo verso le dune che si perdevano all'orizzonte oltre lo spesso vetro. Pazzesco… assurdo… abbandonare tutto...

Il vento sollevò la sabbia che ticchettò sulle pareti.

Pareva un pianto leggero.

Due giorni dopo era tornato Abhe. Lo scienziato non gli aveva detto nulla. Né del timore che quel contrasto idiota mettesse in forse il Progetto né del davvero insolito comportamento del deserto. In realtà aveva sorpreso l'egiziano a fissarlo come a cercare nei suoi occhi segni di pensieri anormali.

«Ha bisogno d'altro?» chiese quando ebbe terminato di scaricare le provviste.

«No, grazie» gli rispose. «Soltanto una domanda. Cosa intendevi quando parlavi degli scherzi del deserto?»

«Vede, professore» rispose subito Abhe, «il deserto è... vivo. No, non come lo intendete voi scienziati. E'... VIVO... davvero. Il deserto parla a chi lo sa ascoltare. Il deserto pensa. E agisce. Proprio come fa lei. E non mi guardi come se stessi dicendo assurdità. Son certo che prima o poi se ne accorgerà. E quando avverrà, non pensi di essere impazzito.»

Bruno riuscì a contenere la sua sorpresa. Udite le prime parole la sua mente era andata al saluto, a quel ciao scritto sulla sabbia dalla sabbia. Ma per fortuna il suo stupore era stato mal interpretato dall'egiziano, forse abituato a sollevare ilarità con quelle affermazioni. Lo ringraziò, gli offrì del thè e tentò d'aiutarlo a sistemare i viveri nei capienti frigoriferi. Abhe lo fissò inorridito e, quasi offeso, gli disse che era suo compito fare il lavoro pesante. «Lei» mormorò «è qui per aiutare la mia terra, usa la sua intelligenza per darci cibo. E il deserto capisce.»

«Non esageriamo. Sono qui perché mi pagano molto.»

Abhe scosse il capo con un debole sorriso: «Sarà, ma il deserto capisce solo questa lingua.» Portò la mano al petto, poi rimontò sulla jeep e salutò allegramente.

Vanzi lo seguì con lo sguardo mentre s'allontanava sulla scalcinata auto. E quando scomparve alla vista lui si piegò sulle ginocchia e afferrando con la mano una manciata di sabbia bollente che scivolava via come mercurio brillante sussurrò: «Tu sei vivo, lo so, perché darai parte della tua vita alle mie piante.» Poi corse verso le serre. Controllò con puntigliosità che tutto fosse a posto. La temperatura costante, i valori dell'umidità, l'afflusso dell'acqua che cadeva con lento stillicidio nelle piccole buche che celavano i semi sintetici. Infine si fermò.

In un angolo aveva piantato delle margherite. Una manciata di semi veri gettati lì senza nessuna logica e con soltanto la speranza che fiorissero. Quel fiore piaceva molto a Clara. Clara…

Tornò nella cupola con il cuore pesante. E quella notte non riuscì a dormire. Il ricordo era tornato prepotente. Non l'aveva vista da morta, non aveva voluto guardare il suo volto distorto dal terrore, né sfiorarne il corpo coperto dal suo sangue e dallo sperma dei giovani drogati. Che non riusciva a odiare.

Improvvisamente un crepitio. Sollevò il capo. Un'ombra parve attraversare la grande specchiatura trasparente della volta. Strano, lì fuori non poteva esserci nessuno. Eppure qualcosa si era mossa, preceduta dal solito rumore frantumato della sabbia scagliata dal vento contro le pareti di vetro e d'acciaio. Scese dal letto. «Clara?» chiamò stupidamente. Stupidamente? No, per lui non era morta, non era mai riuscito ad accettare l'idea che della sua donna fosse rimasto soltanto un corpo in putrefazione in una tomba ricoperta dalle margherite. Ancora un rumore. Pareva proveniente dalla biblioteca. Con circospezione e senza accendere le luci vi entrò. Ampie vetrate a camera lo isolavano dall'esterno senza però impedire allo sguardo di spaziare sulle dune che parevano enormi pachidermi antidiluviani addormentati.

Il crepitio… Si girò di scatto verso destra. Sul vetro scritta con la sabbia c'era una breve poesia:

Sarò tua d'inverno

quando la neve

chiazzerà di bianco

il mio deserto.

Un'ondata d'emozioni lo investì. Cosa… cosa stava succedendo? Era forse impazzito? Clara… sì… lei… aveva scritto quei versi che il vento stava velocemente portando via, e lui, due volte sciocco, ancora stentava a capire.

Stupido e sciocco. Poiché Clara non c'era più e le sue erano solo visioni.

Eppure nell'aria... come un sospiro... ancora il vento.

Il richiamo della radio lo fece sobbalzare: «Vanzi in ascolto. passo.»

«Bruno. sono io. Frank. Fortuna che ti ho trovato subito. Ascoltami attentamente. La situazione sta precipitando. Egitto e Libia sono praticamente in guerra.»

«Che si scannino pure. Al diavolo tutti i guerrafondai.»

«HANNO CHIESTO L'INTERVENTO DEGLI ALLEATI.»

Bruno non rispose subito. Gli ci vollero alcuni secondi prima di capire in pieno la drammaticità della notizia. «Avranno rifiutato. Santo Iddio. DEVONO aver rifiutato.»

«Hanno assicurato l'intervento. Entrambi.»

La voce di Bruno quasi tremava: «E' una follia! Useranno le atomiche.»

«Esatto. L'hanno confermalo. Si sono detti intenzionali a chiudere velocemente il conflitto.»

«Allora era tutto deciso! »

L'amico tacque per qualche istante. Quindi: «Hai colto nel segno. Le decisioni sono state prese. Ma non temere. La guerra sarà limitata ai soli due paesi. Qualche bomba da una parte. qualche bomba dall'altra. E la certezza che un fatto simile non si ripeterà nel mondo.»

«COSA?!» il microfono quasi gli schizzò via dalle mani. «E chi assicura che non si ripeterà? Chi?»

«L'orrore, Bruno, l'orrore di quello che verrà mostrato dal vero. Mi capisci? Dopo tanti anni le terribili immagini di Hiroshima sono ormai dimenticate. la potenza distruttiva dell'atomo è divenuta soltanto uno spauracchio ridicolo. Bisogna rinfrescare la memoria a quei capi di stato troppo smaniosi di menar le mani solo per vedere cosa succede. Sai quante nazioni dispongono di arsenali atomici? Non te lo dico, l'elenco è troppo lungo. Ci vuole un esempio per dissuadere questa gente dall'usare tali armi. Bisogna che il mondo veda con i propri occhi. Anche l'uso dell'atomica su Hiroshima e Nagasaki suscitò grande orrore, ma troncò un conflitto che avrebbe fatto ancora milioni di vittime.» Aveva parlato d'un fiato.

«Ma non è possibile che non abbiano pensato alle conseguenze. Le nubi radioattive distruggeranno la flora e la fauna anche dei paesi vicini. Ne sconvolgeranno il clima portando il gelo e la siccità là dove gelo e siccità non ci sono mai stati. Le specie migratorie saranno investite dalle radiazioni in volo e le porteranno in luoghi lontanissimi.»

«Calmati. Bruno. Non dannarti a cercare di convincere me. Ormai non c'è più nulla da fare.»

Lo scienziato trasse un profondo sospiro. «Cosa dovrei fare io?»

«Nulla. Non corri alcun pericolo, puoi restare, ma se vuoi un mio consiglio, scendi fino a Behen. Un elicottero militare francese sta raccogliendo alcuni connazionali. Deciditi in fretta. L'ultimo volo è per domani nel pomeriggio.»

«E le serre? ... Il Progetto?»

«Succeda quel che deve succedere.» Seguì un silenzio pesante, infine: «Ora devo andare. Abbi cura di te.»

«Un attimo. Aspetta. Quando cominceranno?»

«Domani notte.»

La radio tossì, poi ronzò. Il collegamento era chiuso. Bruno sollevò il capo. Il sole di mezzogiorno pareva del tutto indifferente al dramma che stava per sconvolgere quella terra. Immaginò le strade del Cairo ingolfate da auto e tassì zeppi di occidentali diretti all'aeroporto. Come tanti pallidi topi che fuggivano da una nave che affondava. E fu preso anch'egli da un'irresistibile frenesia. Non poteva star lì a farsi annaffiare di radiazioni.

Fuggire... doveva. Sì. fuggire.

Il vento si sollevò.

Fuggire.

E crepitò più forte che mai.

Doveva scappar via da lì fin quando era in tempo.

E si scagliò contro le pareti con crescente violenza.

Doveva chiamare Abhe e mettersi in salvo con lui.

E cancellò il cielo come uragano.

Doveva...

D'improvviso se ne accorse. Il deserto sembrava impazzito. Lo voleva lì. Ma per quale ragione? Un'ombra lontana pareva attenderlo.

Proprio dove il sole avrebbe baciato le dune.

La notte passò, così il giorno seguente. Sopraggiunse nuovamente il buio portando con sé angoscia e disperazione. Aveva controllato minuziosamente le serre, le sue piantine, che stavano nascendo dal seme sintetico, mentre le margherite parevano come in attesa. Controllò ancora lo stillicidio dell'acqua nell’impianto goccia a goccia, la temperatura, il grado di umidità.

L'oscurità lo sorprese a fissare l'angolo delle margherite e a pregare. Come fosse sulla tomba della sua donna.

Nasceranno, pensava, nasceranno.

Uscì fuori. E sentì la sabbia ancora calda.

Fu allora che un mulinello attirò la sua attenzione. Era come. ..come il gesto civettuolo d'una donna felice di sentirsi osservata. E crebbe, finche qualcosa si formò. Sulla duna c'era scritto il suo nome.

«Clara?» sussurrò sbigottito «sei tu?»

I piccoli granelli si scomposero cancellando la parola. Il vento fece ancora sentire la sua voce. «Chi sei... cosa sei?»

E davanti ai suoi occhi spalancati la sabbia si sollevò, il mulinello crebbe e vorticò sino a formare i contorni di un corpo inequivocabilmente femminile. Che ondeggiò. E mosse qualche passo verso di lui.

Bruno indietreggiò mordendosi le labbra. Non aveva paura. Era soltanto sconvolto. «Chi?» ripeté per l'ennesima volta.

E la bocca fatta di piccolissimi granelli rossicci si schiuse per ricordare: «Sarò tua d'inverno…»

«No. L'inverno non potrà mai esserci qui.»

Lei era vicinissima. Tanto minute erano le particelle di sabbia che l'avvolgevano da sembrare vera pelle, morbida pelle vellutata, d'un rosa chiaro che neanche il tenue lucore lunare riusciva a far impallidire. E tanto biondi erano i suoi capelli da sembrare cascate di microscopiche pepite.

«L'inverno verrà» era una voce suadente, dolcissima.

Bruno tese le mani come per abbracciarla, limitandosi a sfiorarla per timore di distruggere quell'armonia di forme. Morbide, fresche come fresca doccia sotto il sole cocente.

Udì la voce cantare: «Vedrai il cielo incupirsi e l'udrai brontolare, osserverai fiocchi carichi di gelo scivolare giù silenziosi, sentirai il freddo sferzare la carne.

L'inverno verrà.»

«Impossibile!» riuscì a dire lo scienziato. Ma davanti a quel prodigio ormai nulla poteva più dirsi impossibile.

Fu allora che lei girò lo sguardo e fissò un punto lontano dell'orizzonte nero.

Bruno ne seguì la direzione. Vide un bagliore. Un chiarore maligno. Un gelido fuoco giallognolo.

«E' già qui» gli cantò la voce. E con uno sbuffo il simulacro gli esplose tra le braccia tornando sabbia maculata d’ombra.

Bruno cadde in ginocchio mentre lacrime spontanee gli inondavano il viso. Affondò le mani nella sabbia. Era calda.

Un ticchettio proveniente dalla Sala di Controllo faticò ad attirare la sua attenzione. Alcuni strumenti automatici avevano iniziato contemporaneamente a lanciare i propri annunci di tragedia.

Ciò che accadde dopo fu contrario a ogni logica.

Nulla. Assolutamente nulla. Almeno in apparenza.

Abhela non gli portò le provviste alla scadenza dei giorni previsti. Nessuno lo disturbò. Così poté lavorare alacremente fingendo di non accorgersi che c'era qualcosa d'insolito nell'aria. Il deserto che sino a quella tragica notte gli era sembrato vivo era tornato a essere un'accecante distesa di sabbia immobile e mortale. Pareva un mare tumultuoso improvvisamente gelato persino con le sue onde e trasformato in una tormentata distesa di ghiaccio grigio cenere. Bruno ostentava indifferenza. Ed evitava accuratamente di pensare. Le lattughe reclamavano tutta la sua attenzione. Cominciavano infatti a dare stimolanti segni positivi. Brindò con dello spumante che si era portato direttamente dall'Italia quando quasi tutti i semi sintetici si schiusero, mostrando tenere foglioline che arrancavano faticosamente verso la luce. Diede allora il via alla seconda parte del Progetto aprendo a settori le serre per brevi periodi e mettendo le piante a diretto contatto con l'esterno. Sarebbero stati all'inizio solo pochi minuti per poi, gradatamente, diventare ore. Sapeva che alcune non ce l'avrebbero fatta, ma sapeva anche che sarebbero state una minoranza. Annotò ogni cosa, analizzò le prime foglioline seccate ricavando precise informazioni e verificò dove la ricombinazione del DNA non aveva attecchito.

Si comportò come se nulla fosse successo.

Soltanto i semi di margherita non volevano germogliare.

Intorno tutto era silenzio. Tanto che riusciva a udire persino i propri passi sulla sabbia. Tonfi sordi e cupi. Come palpiti d'un cuore che pulsava all'unisono col suo.

Quella sera uno strumento gli segnalò una preoccupante crescita del livello di radioattività nell'aria. Ma lui fece finta di non accorgersene.

La mattina seguente si svegliò con la bocca amara e una profonda angoscia. Un opprimente senso di tragedia lo tormentava. Si sollevò di scatto dal letto e, seminudo, corse verso una delle vetrate che si affacciavano sulle serre.

Aveva sognato Clara che gli tendeva le braccia sorridendo, ma quando lui l'aveva stretta tra le sue era svanita in uno sbuffo di polvere pastosa che era colata giù come appiccicoso liquido seminale. Disgustato, si era ritratto mentre dal cielo grossi fiocchi di neve nera macchiavano tutto ciò che si era salvato dall'infamia dell'umanità.

Sospirò di sollievo. Le serre erano a posto. Solo gli pareva che la sabbia fosse più scura del solito, e che la luce del giorno stentasse a farsi largo. Ma tra cosa? Sollevò lo sguardo al cielo. E rabbrividì. Nubi minacciose gravide di pioggia parevano enormi panciuti animali pronti a riversare i loro escrementi. Nuvole? Ad Abu Simbel?!

Corse fuori incredulo, e rabbrividì per il freddo, lo stesso freddo che aveva sentito nelle gelide serate invernali sul Gran Sasso quando insegnava biochimica a L’Aquila. I pensieri cominciarono ad accavallarsi nella sua mente con frenetica sequenza. Doveva esserci una spiegazione logica. Doveva. Tornò alla cupola e accese la radio. Provò numerose frequenze, ma udì soltanto un continuo crepitio. Troppi disturbi. Poi lo sguardo corse al contatore Geiger che oscillava come impazzito. E capì.

Eccolo, era giunto. L'inverno nucleare. Ecco cosa avevano causato quelle due o tre bombe sganciate così, tanto perché l'umanità non scordasse l'orrore... Stupidi... idioti... pazzi...

Il vento tornò a sollevarsi. rabbrividì, ma fu felice di sentirlo, era il suo vento. Non era solo… Allora girò lo sguardo intorno e con gioia mista a sconforto rivide il deserto vivo. Pareva stentare a riprendersi, ma anche deciso a farlo, come svegliatosi dal letargo.

E sotto la sua sferza le sabbie si mossero ancora. Un segnale lo fece sobbalzare. Quasi offeso da quell'intrusione nella sua intimità Bruno girò il capo non riuscendo a riconoscerlo. No, non era uno strumento ma il campanello collegato al cancello esterno. Il cicalio si ripeté. Aggrottò la fronte e accese il video. Era Abhe. «Amico mio, non t'aspettavo ormai più.»

La voce dell'egiziano tremava: «Mi apra professore. Ho bisogno d'aiuto. Per pietà.»

Bruno non ci pensò due volte. Fece scattare la serratura e, indossato un lungo camicione, gli andò incontro. Fremeva dalla voglia di avere notizie. Il tempo passava, ma non udiva l'asfittico rombo della jeep. Stava per rientrare quando scorse sulla strada una sagoma a lui familiare. Sollevò il braccio per salutarlo, ma il suo gesto rimase a mezz'aria. Perché l'uomo correva come un forsennato. Lo vide agitare le braccia verso di lui e urlargli qualcosa. Era però troppo distante per capire le parole.

Quello che poi accadde fu un incubo. Dietro Abhela comparve un beduino che montava un superbo cavallo arabo. E puntava decisamente contro di lui. Bruno si fermò senza capire finché le urla dell'egiziano ebbero un senso: «Sono predoni... fugga, professore... FUGGA...»

Un rumore di cavalli al galoppo lo costrinse a girarsi. Cinque cavalieri stavano correndo dietro di lui dalla parte delle serre. Seminascosti dalle dune se ne scorgevano altri. Solo allora Bruno si scosse. Quelli non erano certo lì per una visita di cortesia. Tornò a guardare l'egiziano. Proprio mentre il cavaliere lo raggiungeva alle spalle. La testa di Abhe rotolò nella sabbia troncata di netto.

Bruno spalancò gli occhi. «Siete impazziti!» mormorò soltanto a se stesso, mentre capiva che il paese doveva essere in preda al caos. Maledicendo tutto e tutti si girò per trovare rifugio nella cupola. E l'avrebbe raggiunta in tempo se il suo sguardo non fosse andato alle serre. Alcuni predoni le stavano devastando a colpi di spada e facendo calpestare le tenere pianticelle dai cavalli.

«NO» urlò, «pazzi e stupidi sanguinari… è la vostra stessa sopravvivenza quella… fermatevi.» E senza riflettere si gettò contro di loro serrando i pugni.

Udì una risata cattiva mentre un cavallo lo urtava mandandolo a ruzzolare sulla sabbia. Indifferente al dolore Bruno si rialzò: «VIA DI QUA» urlò ancora «bestie... animali... VIA.» E accompagnò le sue irose parole con ampi gesti delle braccia, riuscendo solo ad aumentare il divertimento dei predoni. Nuovamente un cavallo alle sue spalle. Il violentissimo urto gli fece fare un gran volo. E vide qualcosa luccicare nell'aria. Poi sentì una fitta lancinante al petto. Eppure trovò la forza di rialzarsi. «E' vero... non è colpa vostra... ma... ma come diavolo posso farvi capire che state distruggendo il vostro futuro?»

L'avevano lasciato parlare per divertirsi ancora, ma le sue parole accorate ebbero l'effetto contrario: li disorientò, specialmente perché non fuggiva, e le sue urla non erano di paura. Rimasero un attimo incerti. Poi un cavaliere avanzò. In pugno stringeva una lunga scimitarra ancora macchiata del sangue di Abhela. Lanciò un grido acuto e puntò la lama contro di lui.

Per uccidere.

Bruno era troppo frastornato per capire di essere di fronte alla morte. Fissò quel viso devastato dalla furia omicida, Restando fermo ad attenderlo.

E il vento si sollevò.

Gli zoccoli mordevano le dune.

E la sabbia si mosse.

La lama fendeva l'aria.

E il deserto tornò vivo.

La morte fu vicina, sempre più.

Il deserto. IL SUO DESERTO.

Vicinissima. Gelido alito.

Improvvisamente una buca profonda si spalancò sotto le zampe del cavallo. Il predone sgranò gli occhi senza capire. Non riuscendo a evitarla precipitò in avanti. Lo stallone scalciò a vuoto, poi, trascinato dalla sua stessa corsa, si capovolse sbalzando di sella l'uomo e piombandogli addosso. L'egiziano lanciò un urlo di dolore quando le sue ossa furono frantumate.

Il vento crebbe. Come il grido di battaglia degli altri predoni. Che non riuscirono a fare un solo passo. La sabbia si sollevò sotto l'azione di numerosi mulinelli formando decine di simulacri. Figure da incubo, fantasmi del deserto, inumani vendicatori. Esseri senza volto risorti dalle dune millenarie per difendere quella vita che loro non avevano più.

Gli assalitori rimasero di pietra, con gli occhi e la bocca spalancata in un urlo soffocato. Poi i cavalli sentirono odore alieno. Si sollevarono sulle zampe posteriori imbizzarriti e scaraventarono al suolo i cavalieri che, incapaci di reagire si rimisero velocemente in piedi brandendo le inutili scimitarre.

Bruno gridò al cielo la sua gioia. Il deserto aveva capito. Ma l'urlo gli procurò una fitta dolorosissima al petto. Istintivamente vi posò la mano. Quando la risollevò era rossa di sangue.

Era la fine, lo sentiva. Ma non gliene importava nulla.

Lo stesso vento gli portò il canto sin troppo conosciuto: «L'inverno è giunto. Ora posso essere tua se ancora mi vuoi

L'inverno?! Qualcosa di bianco e gelido si posò sul suo viso. Sollevò lo sguardo.

E stravolto vide la neve. Sì, l'inverno nucleare era lì. Due volte mortale.

Per fortuna le sue piante erano protette da… Le serre! Oh, Dio del Cielo, le serre erano state devastate. Con foga si rimise in piedi. E un'altra fitta al petto lo costrinse a mordersi le labbra per non urlare. Mosse un passo… e una imprecazione, un altro… e una invocazione, un altro ancora…Così prese a recitare una filastrocca che gli aveva insegnato Clara per non pensare al dolore. Fissò le serre ancora distanti. Il suo occhio esperto s'era accorto che i danni riguardavano solo una loro parte. Doveva chiudere i comparti stagni, molte piante sarebbero sopravvissute, doveva anche accendere i motori ausiliari… per l'acqua, per l'energia che il sole non poteva più dare.

Alle sue spalle udì urla disumane. I predoni avevano trovato morte atroce. Ancora una volta non riuscì ad odiarli.

Come quei giovinastri che avevano distrutto la sua felicità.

Il suo cuore era stato spezzato due volte. Sentiva che la vita l'abbandonava, sentiva il gelo che stava ammantando le dune e sentiva la radioattività di quella neve penetrargli nelle ossa. Traballò. E sarebbe cascato in terra se due cumuli di sabbia non si fossero improvvisamente formati sotto di lui per sorreggerlo e trasportarlo verso le serre come naufrago che le onde spumeggianti spingono verso la riva. Lui quasi pianse di gioia quando riuscì ad avviare i generatori ausiliari. Con l'aiuto dell'atomo sarebbe risorta la vita che l'atomo stesso cercava di cancellare.

Tremende armi in mano a una scimmia presuntuosa.

Ma non aveva finito. Con un pugno ruppe il vetro di protezione esterna e pigiò alcuni pulsanti del quadro comandi. Il ronzio delle pareti stagne che calavano fu musica per lui.

«Ora sono tua. ..»

Si girò tossendo sangue. La figura femminile fatta di sabbia e magia pareva in attesa. Sorrise. Le sue lattughe, i suoi fagioli... erano salvi. Il suo cotone... SALVI.

Ora poteva anche morire. Abbandonandosi a quelle braccia fatte di granuli rosa. No. Supplicò il cielo... ancora un istante... chiese al suo corpo morente ancora pochi attimi di vita.

Il vento si era chetato. La sabbia pareva solo... sabbia.

Strinse i denti e carponi lasciò la sua traccia di sangue.

C'era un angolo nella prima serra, un angolo nel quale aveva celato sotto semi di margherita tutto il suo passato. Lì Clara l'aspettava.

Gli zoccoli dei cavalli avevano lasciato tracce profonde nel suolo umidiccio. Ma lui non ci fece caso. I suoi occhi erano tutti per una piccola fogliolina che svettava vittoriosa verso l'alto.

Una lacrima rotolò sulle sue guance. E la bagnò.

Forse... sì... ne era certo.

Un giardino sarebbe nato nel suo deserto.


Donato ALTOMARE







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