Una nuova vita
Data: Giovedì 31 marzo 2005
Argomento: Narrativa


il cinquantesimo racconto di Giuseppe Iannozzi


“Gli scrittori si forgiano nell’ingiustizia come si forgiano le spade.”
“Essere uomo è un mestiere difficile. E soltanto pochi ce la fanno.”
“E’ morale ciò che ti fa sentir bene dopo che l’hai fatto, è immorale ciò che invece ti fa sentire male.”

Ernest Hemingway


Imparerai da te quant’è facile farsi una cultura fatta di niente.

Dichiarazione attribuita a Giuseppe Iannozzi




Arrivò a casa bello preciso come un colpo apoplettico: si guardò intorno, tirò un sorriso stanco alle carte avvoltolate sullo scrittoio, poi gli occhi concentrarono la loro attenzione sulla bottiglia di whisky accanto alla penna e al calamaio. Si passò una mano sul volto barbuto, agguantando la bottiglia per il collo e se la portò alla bocca: buttò giù due sorsi. Poi la lasciò cadere a terra.
“Fai sempre così.” - lo rimproverò amorevolmente.
“Non ti ho sentita arrivare.”
“Sono arrivata proprio adesso.” E subito l’abbracciò, guardandolo negli occhi: “Sei come un bambino dispettoso.”
“Era solo una bottiglia vuota. E non sono un ubriacone, Mary.”
”Sì, questo lo so. Altrimenti non starei con te.”
Mary era bella, giovane, la compagna ideale per un vecchio scrittore che dalla vita aveva avuto tutto, fama, soldi, donne e guerre.
“Stai con me perché sono famoso, perché lo sono stato. Ma oggi non scrivo più.”
“Come sei cattivo!” - cinguettò Mary, incontrando con la sua bocca rossa quella dura e consumata di Ernest: “La tua barba punge.”
“Ma ti piace.” E la baciò come se buttasse giù un altro sorso di whisky. La prese per la vita e le fece fare due giri su sé stessa, poi la prese in braccio e la buttò delicatamente sullo scrittoio.

“E’ stato bello.” - ammise lei in un sospiro.
Ernest le vellicava le tenere rose dei capezzoli turgidi. Provava quasi tenerezza per quella creatura fra le sue braccia pelose. Con voce roca, impastata di nicotina, cominciò a cantare pianamente My Way di Frank Sinatra, mentre Mary continuava a fissarlo negli occhi.
“Hai una bella voce.”
Ernest le sorrise da sotto il folto della barba e continuò a cantare: “I’ve loved, I’ve laughed and cried./ I’ve had my fill; my share of losing./ And now, as tears subside,/
I find it all so amusing.” *
“Perché hai smesso di scrivere?” - gli chiese lei, all’improvviso, facendosi seria.
Ernest smise di cantare e si rabbuiò un poco. “Perché? Lo sai. Troppi Salinger, Pynchon, Fiztgerald… Ogni checca è stata detta la giovane promessa della letteratura… Ma sono solo dei mestieranti, dei mercenari. Ero stanco dei loro piagnistei. E anche di me.”
“E’ per questo che hai…”
Ernest la zittì subito con un bacio. E tornarono a fare l’amore.

* * *

Mary stava in cucina: affettava dei sedani teneri e sul fornello già bolliva una pentola, che spandeva nell’aria un delicato profumo speziato.
“Non trovi che il mondo sia bello anche perché è vario?” - urlò in un pigolio la giovane donna.
Ernest, che stava disteso sul divano, aprì gli occhi, tossì quasi un mezzo ruggito, poi le rispose annoiato: “Dolcezza, il mondo è troppo vario, per questo non è né bello né comico. Che cosa stai preparando?”
“Lo vedrai quando sarà in tavola.” - e prese a ridere di gusto, allegra.

“Perché non la tagli?”
Ernest si passò una mano callosa tra i peli grigi della barba.
“Oramai non ce n’è più bisogno.”
“Che intendi dire?”
”Sono vecchio. E senza barba ti mostrerei solo un volto di rughe e tu fuggiresti.” E scoppiò a ridere, abbracciandola, levandole di dosso le lenzuola bianche che vestivano la sua nudità dopo l’amore. Tutto serio: “Le chiacchiere a vuoto riempiono solo il vuoto e neppure quello.”
Mary lo fissò tutta seria: “Che dici?”
Ernest grugnì qualcosa, poi le sorrise: “Niente. Stavo pensando a voce alta.” Le accarezzò l’aurora dell’ombellico perfetto e prese a succhiarglielo dolcemente, ponendo così fine ad ogni altra chiacchiera inutile. Mary subito s’arrese sotto il peso del desiderio dell’uomo e prese a mugolare, dolcemente, senza traccia alcuna di volgarità e dimenticò la barba e tutto il resto.

* * *

Passeggiavano e Mary era raggiante: Parigi la inebriava, ogni vetrina era una sorpresa e ogni incontro su gli Champs-Elysées la illuminava di vita. Ernest, osservandola, capiva che era giovane quella donna che reggeva al suo braccio, ma d’altro canto l’aveva sempre saputo.
Di fronte a una vetrina, la donna si fermò: “Non ti andrebbe d’entrare?”
Ernest scosse il capo. E fece due passi in avanti, ma la donna era rimasta cogli occhi incollati alla vetrina.
“Un minutino!” - lo supplicò quasi.
L’uomo fece marcia indietro, giusto due brevi passi. Guardò all’interno della libreria, incontrò gli scaffali oltremodo pieni di libri, ebbe un conato di vomito che trattenne nella strozza, finse un sorriso accondiscendente, ed insieme a Mary entrò.
“Una volta avresti fatto follie per un posto così.”
“Non puoi saperlo. Quand’ero giovane, tu non eri ancora nata. E non stavi con me.” - ribatté l’uomo.
“Ma posso immaginare.”
“Immagina pure. Ma non è nell’immaginazione la verità.”
“Qui ci sono anche i tuoi libri.” - cinguettò Mary col volto in estasi.
“Suppongo di sì.” - si limitò a dire Ernest con un tono di voce che pareva una sentenza di morte. “Non è poi così importante.”
“Qualcuno ti riconoscerà.” - buttò lì speranzosa Mary, tirando fuori da uno scaffale un libro di Ernest.
“Non corro questo pericolo.” - si limitò a dire l’uomo annoiato.
Mary fissò per qualche istante il libro, poi la sua attenzione si concentrò tutta sulla quarta di copertina: c’era la foto di Ernest. Non era diverso dall’uomo che aveva accanto, ma tutti gli avventori gli scivolano accanto senza riconoscerlo. Possibile che solo lei sapesse che era in compagnia di Ernest? Nessuno aveva riconosciuto nell’uomo che l’accompagnava il grande Ernest: sul suo bel volto giovane e solare si disegnò un’ombra di disappunto.
“Perché?” - gridò quasi isterica, profondamente infelice.
“Perché ho voluto così.”
“Ma… ma nessuno ti riconosce. E tu sei qui, con me…” - balbettò la donna con le lagrime agli occhi.
“Accontentati.” - tagliò corto Ernest, strappandole il libro di mano. Lo ricacciò in mezzo a tutti gli altri senza degnarlo d’una sola occhiata.
La donna sarebbe scoppiata in un pianto dirotto, se l’uomo non avesse avuto la prontezza di spirito di stringerla a sé teneramente.
“Oggi non scrivo più. E’ normale che nessuno mi riconosca. Ma a me sta bene così. L’ho voluto io.”
“Ma non è giusto!” - singhiozzò lei. E si lasciò cullare dall’abbraccio dell’uomo. E si lasciò pungere il volto dalla barba di Ernest, mentre l’uomo le asciugava le lagrime con le grandi mani callose, con gesti quasi infantili.

* * *

“La giusta maniera di fare, lo stile, non è un concetto vano. E’ semplicemente il modo di fare ciò che deve essere fatto. Che poi il modo giusto, a cosa compiuta, risulti anche bello, è un fatto accidentale.” **
“E’ per questo che hai smesso di scrivere.”
“Me l’hai già chiesto. Troppi Salinger, Pynchon, Fiztgerald… Troppi incidenti. Ero stanco di loro e di me. Questo lo puoi capire.”
“Sì, però è che non mi piace…”
”Io ti piaccio? Se sì, allora tutto il resto ha poca importanza.”
Lei annuì con la testa e si rifugiò fra il petto di lui, solido come marmo, nonostante Ernest si dicesse vecchio.
“Quella cosa dell’elettroshock…”
“Sono stato ricoverato in una clinica del Minnesota. Disturbi nervosi che i medici tentarono di curare con l’elettroshock. Poi una perdita di memoria…” Arrestò la voce in una pausa d’effetto, studiata. “All’alba del 2 luglio 1961, di domenica, di buon’ora, mi alzo e imbraccio il fucile a canna doppia, vado nell’anticamera sul davanti di quella che era la mia casa, e appoggio la doppia canna alla fronte. E sparo.” Un’altra pausa d’effetto, poi riprese a parlare, allucinato: “Ma prima, quell’incidente, quando io e mia moglie eravamo in viaggio per Entebbe… A Nairobi, all’ospedale… perdita della vista all’occhio sinistro, perdita dell’udito all’orecchio sinistro, ustioni di primo grado alla faccia e alla testa, distorsione del braccio destro, della spalla e della gamba sinistra, una vertebra schiacciata, danni a fegato, milza e reni. E chissà quant’altro ancora. Ero a pezzi. E dopo non sapevo più scrivere. I disturbi nervosi. E’ ancora tutto molto confuso in me. Colpa di quella perdita di memoria. Poi sono venuti fuori i finti Salinger e Fitzgerald, tutte quelle checche pronte a piangersi addosso. Non ne potevo più né di loro né di me. ”
Mary rimase in silenzio ad ascoltare l’uomo, tenendo il volto piangente sul suo petto.
“Mia moglie si chiamava come te.”
Mary continuò a rimanere in silenzio. Poi, con voce pigola, solo disse: “Sì, lo so, Ernest.”

* * *

Mary imbracciò il fucile: la doppia canna premeva dentro al suo palato. Sospirò come una bambola svuotata dell’anima, pensò all’alba che stava nascendo, poi premette il grilletto senza alcun rimpianto.

Ernest depose la penna nel calamaio. Rilesse lentamente il racconto che aveva appena finito di scrivere. Non gli piaceva. Solo il finale valeva qualcosa, ma tutto il resto faceva vomitare. Appallottolò tutti i fogli che aveva scritto tra le sei e le dodici di quella giornata e li cestinò insieme a tanti altri che facevano ressa dentro al cestino dei rifiuti. Poi si accese un sigaro cubano, uno di quelli che riservava per le grandi occasioni, anche se non aveva concluso niente: era uno degli ultimi che Fidel gli aveva regalato tanto tempo addietro. Larghe spire di fumo invasero la camera. Fumò a lungo, in silenzio, senza sforzarsi di pensare. Desiderava solo un po’ di pace.

S’affacciò alla finestra: Parigi era tranquilla, nonostante i tanti a sciamare lungo le strade con le bocche piene di niente, di fesserie urlate sottovoce.
‘Che strana umanità!’ - pensò quasi divertito per quella scoperta inutile che sapeva essere vera e che aveva provato a sé stesso più d’una volta nel corso della vita.

Mary era pallidissima. La morte l’aveva resa bella, impossibile, più bella di tutta la letteratura e di tutte le donne che aveva conosciuto. Posò sul suo volto pallido una carezza e un bacio, e subito Mary scomparve. Nessuna traccia del suo corpo, nessuna macchia di sangue o pezzetti d’osso sparsi in cucina.

Decise di fare quattro passi su gli Champs-Elisées. Mentre scendeva le scale, fischiettando My Way, si sentì, se non vivo completamente, un po’ più tranquillo. Ma non sapeva ancora a che cosa gli sarebbe servita la tranquillità, se un giorno l’avesse raggiunta veramente. Pienamente.



* parole da “My Way”: “Ho amato, ho riso e pianto/ Ho avuto le mie soddisfazioni, la mia dose di sconfitte/ E allora, mentre le lacrime si fermano,/ Trovo tutto molto divertente”

** Ernest Hemingway, da una intervista pubblicata su Times il 13 dicembre 1954.
 







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