un racconto di Giuseppe Iannozzi
Unleash the armageddon
So all the children go to heaven
I sit by quiet still with their pictures on my eyes
You'll draw the guns you're given
Write down the words as written
And never disturb the presence of resurrection crutch
And it's about time
It's about drawing near
Blue skies bring tears
Blue skies bring tears (MACHINA/The Machines of God, 2000) - Smashing Pumpkins
Quel giorno il cielo era nuvoloso: minacciava tempesta, ma io non potevo
lasciare che l’ira divina impedisse il mio passo.
* * *
Ero giovane e molto accaldato. La canicola era tale che l’affanno m’aveva subito
costretto a cercare un po’ d’ombra.
La tisi: i dottori avevano detto ch’ero pressoché guarito, ma io sentivo il
piombo nei polmoni. Da quando m’ero ammalato la mia vita fu costretta nella
prigione d’una stanza. Mia madre impegnò ogni bene per la mia salute: voleva che
sopravvivessi a lei. E così fu. E fu così che tornai a vedere la luce del sole,
ma in povertà, perché quella pia donna di mia madre per curarmi nulla m’aveva
lasciato in eredità. La seppellii io stesso, poi presi il rasoio e tagliai i
capelli in segno di lutto. Non c’era nulla che potessi fare a Castroreale.
Presi la strada per vedere il mondo e com’era.
* * *
Ero ad una festa paesana e le luci ombrose del crepuscolo già s’allungavano sui
muri e sulle persone: lei era bruna, gli occhi verdi, slanciata, una Venere di
passione. Non avevo alcuna speranza, ma ci provai lo stesso. Il paese era tutto
in festa e lei ballava, languida, sudata. Lei sorrise, ma non mi rivolse parola
alcuna. Rimasi a fissarla mentre di me si faceva beffe: ballava, ballava,
ballava. M’allontanai col cuore pesante: non c’era niente che potessi fare per
conquistarla e il mondo m’appariva alieno, inadatto ad ospitare uno come me.
Decisi che per me l’unica scelta possibile fosse quella di trovare la pace nei
voti: ma non ne fui degno, e Dio mi rifiutò la sua dimora perché enorme era la
mia ignoranza in fatto di fede. Però indossai lo stesso il saio, pur non tenendo
nessun crocifisso legato al collo.
* * *
Il cimitero era un angolo che mi piaceva frequentare quando la solitudine
diventava pondo insostenibile nell’alma: quanti angeli scolpiti nel marmo! E uno
di carne, all’improvviso. Selene splendeva alta in cielo e tutte le lapidi erano
catturate dalla sua argentea luce. Mi prese prima che potessi dire un semplice
‘ma’: mi spogliò del saio e giacemmo insieme tutta la notte fino a quando,
spossato, chiusi gli occhi per cadere in un profondo deliquio. Quando rinvenni,
la putta era scomparsa: addosso avevo ancora la sua fragranza muschiata e in
bocca il sapore della sua lingua dolce-amara come una lagrima d’amore. Avevo
perso la verginità, finalmente: dopo venticinque anni di forzata castità a causa
della malattia, il sesso d’una sconosciuta aveva incontrato il mio per farmi
finalmente uomo.
Passarono alcuni giorni: presi a frequentare quel piccolo cimitero nella
speranza che lei si presentasse ancora una volta a me e prendesse il frutto dei
miei lombi. Ma indarno. Angelo o Dèmone che fosse, ora non potevo più vivere
senza di lei. Avevo il cuore in tumulto: il suo caldo corpo sul mio non potevo
dimenticarlo tanto facilmente. M’aveva sbranata l’alma col suo calore.
Passò ancora dell’altro tempo.
* * *
In paese era la quiete e l’orecchio faticava a riconoscere le voci umane
ch’erano guazzabuglio di sommessi pigolii: i vecchi ciangottavano nascosti sotto
ai pergolati e distribuivano sdentati sorrisi mentr’io passavo loro accanto.
Entrai nella bottega d’un fornaro: un tipo rubizzo sporco di farina subito mi
venne incontro dimandandomi cosa desiderassi.
“Due soldi di pane.” L’uomo non era contento. Mi porse il pane e quasi mi
strappo dalle mani il vile metallo.
“Non abbisognate d’altro? Sicuro?”
Scossi il capo. Stavo per andarmene, offeso quasi, quando scorsi il suo profilo
e gli occhi color di foglia. Era la ragazza ch’avevo incontrata alla festa
qualche tempo fa: doveva esser la figlia del fornaro.
“Adesso siete monaco!”
Le risposi con un cenno del capo arrossendo fino alle orecchie.
“Ne è passato del tempo. Non troppo. Par quasi ieri.” – aggiunse lei. Poi
quell’anima fringuellina esplose in una risata.
Stavo per andarmene, quando lei mi riprese: “No, aspetti…” L’uomo gittò severo
sguardo di rimprovero a quella che io credevo esser sua figlia.
“Ho bisogno d’una guida spirituale.” L’uomo non parve troppo convinto; tuttavia
acconsentì che mi parlasse.
Uscimmo insieme in strada.
“Crede che il ridere sia frutto del demonio?”
Non sapevo che risponderle, così su due piedi. I miei occhi erano tutti dedicati
all’infinito leopardiano che scorgevo nel verde dei suoi.
“Coloro che esagerano nel far ridere sono ritenuti buffoni e volgari, perché si
affaticano a far ridere ad ogni costo, e cercano più di far ridere che di dire
cose decorose e di non offendere colui che viene preso in giro. D’altra parte,
quelli che non dicono essi stessi nulla che faccia ridere ma si irritano con
coloro che lo fanno, sono stimati rozzi e duri. Quelli che scherzano con gusto
sono chiamati spiritosi, in quanto sono versatili, giacché le facezie, si pensa,
sono dei movimenti del carattere, e, come si giudicano i corpi dai loro
movimenti, così si giudicano anche i caratteri. E siccome il piacere di ridere è
diffuso, e la maggior parte della gente si diverte a scherzare e a motteggiare
più che non si debba, anche i buffoni vengono chiamati spiritosi, perché sono
divertenti: ma che questi differiscono, e non poco, dagli spiritosi veri, è
chiaro…” *
Aveva detto con tanta sicurezza ch’era per me impossibile credere che una
popolana potesse esprimersi con tanta proprietà di linguaggio. “Lo dice sempre
il nostro parroco. Ogni domenica a messa. Ormai le so a memoria queste parole.”
Trassi un sospiro di sollievo. “E le avete anche comprese?”
“Non più di Voi!” Quanta insolenza in quella femmina. “Non avete mai preso gli
ordini, nevvero?”
Arrossii violentemente e lei prese a ridere incurante della mia vergogna che
rischiava di soffocarmi. Quand’ebbe finito di gettarmi addosso ludibrio colla
sua risata, aggiunse: “Non disperate. Mica son casta!”
Ma questa confessione di lei non riuscì comunque a stornare dal mio cuore il
profondo imbarazzo e la vergogna.
“Non ero uomo che Dio potesse accogliere. Troppa l’ignoranza e grande la
pochezza non disciplinata della mia fede.” Non sapevo cos’altro dire in mia
discolpa.
“Però il saio non Ve lo siete levato. Perché?”
Non avevo una risposta soddisfacente. Ero imbarazzato e solo avrei voluto
sprofondare sottoterra.
“Vi capisco. Lo fate bene, però.”
“Che vorreste insinuare?” – riuscii infine a scucire dalle labbra, ma fu un
quasi balbettio. La lingua m’era inutile appendice nell’arido cavo della bocca:
pregavo perché più non m’interrogasse.
“Voi uomini, tutti uguali. Eppure quella notte avevate un fiato che manco un
satiro!”
Quasi bestemmiai ad alta voce. Ma, in segreto, nell’anima, godevo lusingato. E
il piombo del fiato nei polmoni: la tisi. Che fossi guarito non ci credevo,
anche se respiravo e facevo bene all’amore, almeno a sentire quella putta di cui
ancora non conoscevo il nome.
“Vostro padre…”
“Sì, avete ragione.” E veloce, la Fringuella era già quasi lontana dal mio
sguardo.
Le gridai dietro. “Il nome? Quale?” Avevo dato tutta l’anima in quel grido che
all’orecchio di lei dovette sembrare stupido.
“Chiamatemi come meglio Vi pare!” E fu dentro, nel caldo soffocante del
panificio.
* * *
Gli anni passavano. Ma non morivo mai di tisi, anche se ogni giorno pensavo
fosse l’ultimo. Tornai dal fornaro diverse volte, ma con mia sorpresa questi mi
disse di non aver mai avuto una figlia né d’essersi mai sposato. Quell’omarino
scorbutico, poco a poco, mi entrò in simpatia e io a lui. Credo avesse intuito
che non ero un vero monaco, ma non gliene fregava niente, o più semplicemente
faceva finta di non sapere. Ad ogni modo, dopo un po’ che prendemmo a
frequentarci il pane me lo regalava; ed io lo ripagavo insegnandogli il poco che
sapevo. Ma nell’alma sempre avevo gli occhi verdi di lei, di quella Fringuella
il cui nome m’era ignoto. Era scomparsa senza di sé lasciare traccia alcuna. Non
provai neanche a cercarla perché sapevo che mai l’avrei trovata. Ma sapevo, in
cuor mio, che un giorno si sarebbe a me presentata per svelarmi qualcosa che
ignoravo. Mentre attendevo il ritorno della Fringuella dagli occhi verdi, feci
casa presso il piccolo cimitero del paese: c’era una piccola chiesetta
sconsacrata che adibii a mia residenza, e con mia sorpresa, qualche volta avevo
anche dei fedeli. Entravano: la porta era sempre aperta, e nulla dicevano. Io
rimanevo in silenzio con loro. Questa era la nostra preghiera.
Un giorno entrò in chiesa una donna: aveva gli occhi rossi come l’inferno. Si
presentò con un inchino. Disse di chiamarsi Fornarella. Non era bella ma neanche
brutta. Mi recava un messaggio da parte della sua Padrona. Raccolsi dalle sue
fredde mani una pergamena sigillata con la ceralacca. Fornarella rimase a
guardarmi mentre leggevo la calligrafia della sua Padrona:
“Voi forse Vi ricorderete di me
che Vi feci uomo ormai tanti anni or sono.
Avete
un debito con me, questo lo sapete bene.
Vi prego di venire presso la Torre di Castroreale.
Vi aspetto.”
Il messaggio non recava firma.
Dopo tanti anni avrei fatto ritorno al paese che m’aveva dato i natali.
Racimolai le parche cose che mi competevano in un sacco di tela, salutai il
fornaro, e presi il cammino insieme a Fornarella. Per tutta la durata del
viaggio la donna non disse una parola e io obbedii al suo silenzio.
* * *
La Torre era oscura, avvolta nelle tenebre: un cielo di fuoco e fulmini la
sovrastava. Giunto che fui, Fornarella scomparve. Non me ne meravigliai. Avevo
pensato, ingenuamente, che un giorno la mia Fringuella si sarebbe a me
presentata. Ed invece la realtà era che adesso io mi sarei presentato a lei,
invecchiato. Ma non potevo tirarmi indietro.
Diedi un paio di colpi al battente ma senza risposta. Solo mi fece eco di
scherno il bronzeo battaglio d’una campana in lontananza. Minacciava tempesta il
cielo, ma io non potevo lasciare che l’ira divina impedisse il mio passo. Entrai.
E fui assorbito da tenebre tanto spesse ch’erano palpabili come corpi morti e
freddi. Mi sentii soffocare, ma continuai ad avanzare. E fui in cima, non so
come, ma fui davanti a lei.
“Ci ritroviamo.” Non era invecchiata d’un sol giorno da quando l’avevo
conosciuta. “Fornarella Vi ha condotto a me.”
“Sì, secondo i Vostri ordini. Ma io ho obbedito.”
Lei ristette un secondo, poi rise. “Già, è vero. Avete obbedito.”
“Non potevo fare altrimenti. Sapevo che ci saremmo incontrati nuovamente. Solo
pensavo che sareste stata Voi a venire da me.”
“Gli anni hanno operato miracolo sulla Vostra lingua prima tanto silenziosa.”
“No, non gli anni. Il silenzio.”
“Non mi direte che in questi anni non avete mai parlato?” Sembrava divertita.
“Poche battute col fornaro. Credevo fosse vostro padre.”
“Ah! E’ così dunque. Veritas filia temporis.” **
Silenzio. Solo silenzio. Ma nessun imbarazzo.
“Perché mi avete comandato di essere qui, oggi?”
“Dubium sapientiae initium.” ***
“Sì, può darsi che sia come sentenziate. Ma perché oggi?”
“Cadeteci addosso, nascondeteci dalla presenza di colui che siede sul trono e
dall'ira dell'Agnello; perché è venuto il gran giorno della sua ira. Chi può
resistere?” ****
“Giovanni.”
“Avete anche studiato. Potreste essere un monaco vero, adesso. Peccato siate
ormai avviato a consumarVi nella vecchiaia.”
“O nella tisi.”
“Sì, è possibile. Non avete una bella cera.”
“Non è un complimento.”
“E’ la verità che vedo.”
“Dunque, arriviamo al punto.”
La mia Fringuella rideva. “Il punto! Quanta impazienza per un uomo che l’ha
fatto una volta con una donna.” Mi fissò. “Non arrossite più. Che peccato!”
“Il punto!” – ripetei.
“O morite soffocato. O restate con me. Scegliete?”
“Ho già scelto. Resto con Voi.”
* * *
Sono tanti anni che porto avanti questo mio ufficio: non è un compito facile, ma
non è neanche disgraziato come qualcuno potrebbe pensare. L’ira divina pesa
sempre sul mio capo, ma non sono più solo. E sono un uomo che respira. Lei mi è
sempre accanto con mille nomi diversi, ma è sempre la mia Fringuella.
“Quanti oggi?”
“Diciassette.”
“E’ un bel numero.”
“Insufficiente.”
“E l’Angelo?”
“Non siete forse Voi l’Angelo?”
Lei mi sorride. Adesso non ride più di me.
“Se Vi fa piacere così.”
Mi bacia. “Dobbiamo fare numeri.”
“Uomini… Anime… Il tempo è vicino.”
* Citazione da “Etica a Nicomaco”, Aristotele,
libro IV, 8-il garbo
** Sentenza di Aulo Gelio
*** Sentenza di Cartesio
**** Apocalisse secondo Giovanni, VII, 16-17