intervista all'autore a cura di Giuseppe Iannozzi
"…Il castello freudiano scompare come un miraggio o un gigantesco abbaglio
della psicanalisi, la fallocrazia di simboli fallici e dei rimandi genitali e
procreativi, come ha anche osservato la dottoressa Valva, fa ridere al cospetto
dei simboli che finalmente simboleggiano se stessi all’infinito, senza lasciare
scampo alle menzogne riproduttive né troppo senso alla verità della natura…"
da La macinatrice”, Massimiliano Parente
“…scrivere è anche un modo per ritmare il tempo e farlo passare”.
Hervé Guibert
Forse qualcuno ricorderà ancora “Dottor Jeter” di K.W. Jeter; scriveva
P.K. Dick, nella postfazione al romanzo di Jeter: “Signore, lei ha scritto un
libro sconcio.” A quale scrittore sta pensando? A James Joyce e al suo
capolavoro, Ulisse? Oppure a Henry Miller e ai due romanzi dei Tropici? A questo
mondo il grido di costernazione dei moralisti è qualcosa di incessante. E per
anni questo grido ha impedito la pubblicazione dello straordinario romanzo di
K.W. Jeter, Dottor Adder, finché un editore coraggioso si è fatto avanti e ha
detto: “Lo pubblicheremo noi.” (P.K. Dick, Santa Anna, California, 1 agosto
1979)
Per certi versi, “Dottor Adder” di Jeter anticipava alcuni temi che sono ne
“La Macinatrice” di Massimiliano Parente. Prima di parlare
approfonditamente de “La Macinatrice”, facciamo un salto indietro nel tempo: nel
1999 apparve il romanzo “Mamma”. Si alzò un coro di protesta che voleva adoprare
la censura sul lavoro di Parente; nell’aprile del 2003, sono intervenuti
Giordano Bruno Guerri, Vittorio Sgarbi e Giampiero Mughini per difendere il
romanzo dagli attacchi velenosi della censura. Note a margine queste, ma
importanti, perché anche oggi, in maniera più sotterranea e viscida, si vorrebbe
nascondere il nuovo romanzo di Massimiliano Parente, “La Macinatrice”:
perché? Forse perché un editore coraggioso, Pequod, ha avuto il coraggio e
l’intelligenza di pubblicare una Opera che è indagine junghiana/freudiana dei
meandri webbici-sessuali, ma anche disegno d’un cataclisma che vive nell’Io in
una radice emozionale à la Hervé Guibert.
La storia che è ne “La Macinatrice” è l’espansione di quel mondo
disegnato da Alessandra C. in “Webmaster”, ma forti sono le influenze anche da
“Metallo Urlante” di Valerio Evangelisti, e non da ultimo è ideale completamento
delle idee di Hervé Guibert. Vediamo un po’ perché. Un mondo sotterraneo,
faustiano, sadiano, rabelaisiano, guibertiano, onanista, in pratica
scelleratamente perfetto: tutti, ma proprio tutti, grazie al sito vivente
Vagina’s World possono dar corpo alle loro ossessioni erotiche, a quelle più
insensate e ancestrali che non si ha il coraggio di confidare neppure a sé
stessi. Il Dottor Adder di Jeter manipolava gli organi sessuali attraverso la
scienza; in Vagina’s World anche chi non è sotto le mani di un dottor Adder può
riuscire a vivere la sua ossessione più profonda e nera in una chiave tanto
guibertiana quanto mansoniana (à la Charles Manson). Giandomenico Torrenuova è
una sorta di Alex, sì, à la Anthony Burgees, ma Torrenuova è ben più perverso e
inquinato dell’Alex di Burgees, perché è soprattutto un imprenditore che conosce
i desideri degli uomini, nonché le regole del marketing tutto. Ma chi è
Torrenuova? Nei pressi del mattatoio Torrenuova Carni Srl, al di sotto d’una
casa editrice di facciata, la Torrenuova Edizioni Srl, pubblica libelli e
riviste (fintamente) trendy, e anche pubblicazioni gay e/o femministe, e per non
scontentare nessuno non mancano quelle a carattere cattolico o no global. E si
aggiungano due reti televisive, Teletorre e Telenuova. Ma il vero cuore di tutto
questo è il sito vivente, Vagina’s World. E c’è Andrea, un nichilista, o un
povero sfigato, un personaggio impazzito che pare uscito dalla penna al vetriolo
di Houellebecq, ma anche da quella di William T. Vollmann e di Hervé Guibert.
Andrea è un trentenne con un fallimento matrimoniale alle spalle; da poco
assunto presso l’ufficio stampa Torrenuova, il suo incarico sarebbe quello di
promuovere libri; eppure non può, perché libri da promuovere non ce ne sono, o
forse è troppo tormentato per darsi alla letteratura. Una parola è il suo
tormento principe, la “Macinatrice”, una parola uscita di bocca a qualcuno per
lasciar intendere che c’è un qualcosa di vivente nelle latebre dell’azienda.
Possibile che la “Macinatrice” possa essere una sorta di ingranaggio
sessuale-sessuato come quello inserito da Marcel Duchamp nella sua opera più
ambiziosa e famosa, “Il Grande Vetro”? L’Opera di Duchamp, “La sposa messa a
nudo dai propri scapoli” è la più importante dell’artista, in quanto antologica;
c’è tutto il mondo di Duchamp, ci sono tutte le sue idee artistiche in questo
foglio di piombo, in questo foglio d’argento e olio su vetro, montato tra due
pannelli di vetro: costituito da due lastre di vetro verticali issate l’una
sull’altra in una cornice, su questi vetri Duchamp disegna, con filo di piombo,
figure meccaniche faustiane che paiono prigioniere dei vetri. Ne “Il Grande
Vetro” è forse possibile leggere l’allusione a un amore irrealizzabile e
irrealizzato tra fratello e sorella? “La Mariée mise à nu par ses célibataires,
même”, questo il titolo francese: attraverso una mera lettura omofona, l’opera
di Duchamp diventa “La Maria messa nella nuvola dai propri scapoli”, quindi una
raffigurazione dell’Assunzione della Vergine, che simboleggerebbe la
purificazione della materia e la sua trasformazione in pietra filosofale. Ma c’è
di più, un particolare di non poco conto: l’opera di Duchamp è particolarmente
fragile e mentre l’artista lavorava sopra il vetro, questo si ruppe, forse
accidentalmente. Duchamp si arrese, per così dire, e finì col considerare
l’incidente un intervento del Caso; e si convinse subito a lasciare il vetro
rotto senza tentare alcuna riparazione. Si arrese? No, smise semplicemente di
lavorare alla sua opera, lasciandola così com’era, incompiuta, o compiuta
proprio per effetto dell’incidente.
E poi c’è una foto, quella di un alluce, che Andrea conserva gelosamente in una
cartellina verde. La foto è pure essa fonte di forte tormento per Andrea: e sarà
la chiave di tutto, ma solo alla fine, solo dopo aver incontrato tanti e tanti
personaggi pesati e aggiustati secondo un gusto gaddiano. Andrea è preso d’amore
per Elena, per la figlia di Torrenuova che intrattiene anche una relazione con
Marco Monti, un piccolo pomposo intellettualoide televisivo; ma Andrea non lo
può soddisfare pienamente il suo amore, né può dar sfogo alla fregola che ha
addosso. Ma non solo!
La trama de “La Macinatrice” è su più livelli, proprio come l’opera di
Duchamp. Il linguaggio di Massimiliano Parente è barocco fino all’eccesso,
ma la necessità precipua per comunicare con il lettore è l’eccesso, lo
stordimento: attraverso una lingua che stordisce, che penetra nella coscienza
del lettore per frastornarlo proprio come se fosse dentro alla Macinatrice,
Massimiliano Parente ci introduce nel Caos, nei suoi Canti danteschi-webbici.
Come non essere totalmente affascinati dall’Opera di Massimiliano Parente?
Siamo di fronte a un romanzo di idee, a un romanzo di linguaggi. Siamo di fronte
alla Letteratura che non prende su di sé etichette di alcuna sorta.
Massimiliano Parente con “La Macinatrice” consegna alla Letteratura
una Opera assolutamente perfetta, che a ogni nuova lettura si spiega al lettore,
senza però mai esaurirsi. Senza mai esaurirsi, lo sottolineo e di più.
La macinatrice – Massimiliano Parente – Pequod – ISBN: 88-87418-82-9 –
prima edizione: giugno 2005 – 462 pagine - 20 Euro
Intervista a MASSIMILIANO PARENTE
a cura di Giuseppe Iannozzi
1. Parliamo, se non ti spiace, di Te, Massimiliano Parente, prima di
entrare nel cuore, nei sotterranei de “La Macinatrice”. Dunque, chi è
Massimiliano Parente? Una breve autobiografia autorizzata, per così dire?
E’ quella, di poche righe, che trovi nei risvolti di copertina dei miei libri.
2. Prima de “La Macinatrice”, hai scritto altri romanzi importanti:
“Incantata o no che fosse”, “Mamma”, “Canto della caduta”. Si può dire che “La
Macinatrice” è l’ideale proseguimento di un percorso narrativo iniziato sin dal
tuo primo romanzo?
Tutto rientra in un ampio progetto che spero di avere il tempo e la forza di
portare a termine. Penso sempre a ogni libro come a una parte più o meno grande
di un’opera unica. Non so ancora dove arriverò ma intuisco di volta in volta i
passi successivi. Per questo mi fanno sorridere quelli che danno consigli agli
scrittori, scrivi questo, scrivi quello. O c’è un’ossessione complessiva, o si è
solo degli sceneggiatori mancati. E pertanto il problema dell’editore è
secondario, fondamentale è non tradire mai la propria opera. “Ciò che è decisivo
accade nonostante tutto” diceva Nietzsche.
3. Qualcuno, giustamente, ti ha già definito l’Houellebecq italiano. Ti ci
ritrovi, e sì, perché? Sotto un profilo narrativo, sotto quello delle idee,
cos’hanno in comune Massimiliano Parente e Michel Houellebecq?
Niente, e per una ragione per me fondamentale. Tra una pagina di Houellebecq
e una di Ken Follett vedo poca differenza. Nel senso che non entra in conflitto
con le parole. Houellebecq è uno scrittore che scandalizza i giornalisti e li
scandalizza sui contenuti, e questo in letteratura segna il limite di una data
di scadenza troppo breve. Anche Moravia scandalizzava, oggi fa ridere. Del resto
non leggo uno scrittore per avere delle idee, ma per avere la forma delle idee,
che è l’unico modo di vedere le idee. Molto più interessante Hervé Guibert, del
quale purtroppo molti libri importanti restano ancora non tradotti.
4. Quali autori, di ieri e di oggi, hanno maggiormente contribuito a
formare il tuo stile, le tue idee intorno alla letteratura, alla società e alla
politica? E, per quali motivi?
Soprattutto quelli che hanno sfondato e rifondato il romanzo, che hanno
spalancato nuovi mondi scardinando qualcosa negli schemi narrativi, nelle
strutture linguistiche, che sono stati insieme tradizione e avanguardia.
Soprattutto l’irriducibilità al conformismo narrativo, che significa appunto
avere la stessa forma, e la radicalità nei confronti della propria forma. Te ne
potrei fare una lista infinita, da Sterne a Faulkner, da Flaubert a Proust a
Gadda a Verga a D’Arrigo al Pasolini di Petrolio. Resto sorpreso, oggi, quando
vedo certe piccole operazioni di classificazione, che cercano di ricondurre al
concetto di “genere” ciò che, essendo letteratura, è inclassificabile. Qualcuno,
siccome qui non si distinguono più opere d’arte da opere commerciali, si è
inventato la parola “massimalismo”, con lo scopo di far passare il concetto che
esista un genere in quanto non è di genere. Ma che significa? Era massimalista
Joyce? Erano massimalisti Balzac, Dostoevskij, Dante, Manzoni, Musil o De
Roberto, con quell’immane e meraviglioso romanzo che è I viceré, del quale ogni
pagina vale tutto Tomasi di Lampedusa? Allora è massimalista tutta la
letteratura che conta. Anche la Cappella Sistina è massimalista.
5. Scriveva Primo Levi ne “La chiave a stella”: “…i nervi degli scrittori
tendono ad essere deboli: ma è difficile decidere se i nervi si indeboliscano
per causa dello scrivere… o se invece il mestiere di scrivere attragga
preferenzialmente la gente predisposta alla nevrosi. E’ comunque attestato che
diversi scrittori erano nevrastenici, o tali sono diventati (è sempre arduo
decidere sulle “malattie contratte in servizio”), e che altri sono addirittura
finiti in un manicomio o nei suoi equivalenti, non solo in questo secolo, ama
anche molto prima; parecchi, poi, senza arrivare alla malattia conclamata,
vivono male, sono tristi, bevono, fumano, non dormono più e muoiono presto.”
Qual è la tua opinione circa il mestiere di scrivere? Perché scrivi?
Scrivo per portare a termine un’idea di opera che ha preso forma nella mia
mente molto presto. Scrivo perché uso l’arte per comprendere la vita e non
viceversa, come pensano i mitomani popolari. Di certo non scrivo per “esprimermi”.
Non scrivo perché mi piace, perché un scrittore che non sia tale lo riconosci
subito da due cose: o lo fa perché gli piace, e quindi, dilettandosi, è un
dilettante, o lo fa per mestiere, e allora è un timbratore di cartellini
editoriali. Scrivo, detto altrimenti, perché quello che voglio scrivere io posso
scriverlo solo io.
6. “La Macinatrice” è un romanzo che accoglie diversi piani interpretativi
per il lettore così come per il critico: è un po’ come trovarsi di fronte a la
“La sposa messa a nudo dai propri scapoli” di Duchamp. La trama de “La
Macinatrice” accoglie pure diverse influenze stilistiche e di contenuti che
spaziano dal cyberpunk all’hard-boiled fino al noir e al giallo, ma c’è anche
metafisica porno secondo la definizione di Carla Benedetti. E il punto di vista
dell’Autore, di Massimiliano Parente, in merito a tutto ciò, qual è?
Vorrei poterti rispondere come Rimbaud a sua madre: “Ho voluto dire quello
che lì è detto, letteralmente, e in tutti i sensi”. Uno dei punti centrali del
romanzo è appunto La Macinatrice, ossia un dettaglio del dipinto di Marcel
Duchamp che hai appena citato. La struttura temporale del romanzo è circolare
come il movimento stesso della macinatrice, e non nel senso banale che le ultime
righe coincidono con le prime. In ogni pagina Andrea si muove all’interno di un
tempo i cui avvenimenti passati e futuri sono sempre compresenti. E’ come quando
ricostruisci una storia e la racconti. Nella tua mente c’è tutto, il prima e il
dopo, per poterla raccontare sei costretto a togliere ciò che già sai. Nella
Macinatrice Andrea si pone domande su quanto già conosce, e in qualche modo
queste domande cambiano di volta in volta la prospettiva narrativa. La scoperta
della Macinatrice, nascosta nel sottosuolo della Torrenuova, e la sua
descrizione minuziosa, non fa cessare la volontà di sapere. Sarebbe come avere
il significato matematico di un’erezione. La Torrenuova Srl, nella sua impresa
di ridisegnare l’immaginario sessuale, piuttosto che scomporlo analiticamente lo
alimenta. Torrenuova non parla per definire, la sua parola scompone per
alimentare ancora di più la macchina sessuale, lo sguardo e la parola, il magma
telematico delle ossessioni allo sbando.
7. Carla Benedetti, sulle colonne de “L’Espresso”, a proposito del tuo
romanzo, scrive: “Parente dedica il romanzo ad Antonio Moresco. Altra cosa
strana. Né le classifiche né i premi letterari, né i tam-tam mediatici hanno mai
registrato la perturbazione che l’opera di Moresco ha provocato nella scrittura
di questi ultimi anni. La registra invece uno scrittore più giovane. In effetti
si sente che la ‘Macinatrice’ reagisce in qualche modo ai ‘Canti del caos’. In
letteratura succede anche questo. Parte vitale della ricezione di un'opera è la
risposta che essa provoca in altri scrittori. Un canale di trasmissione altro
rispetto alla macchina dei mediatori e alle loro mappe.” La mia domanda è dunque
questa: in che misura la scrittura di Antonio Moresco ha influito sulla tua per
la stesura de “La Macinatrice”? per quali motivi?
Ho dedicato il romanzo a Moresco perché è uno dei più grandi scrittori
viventi e non, irriducibile al conformismo editoriale. Riguardo a quanto abbia
influito sulla stesura non saprei dire. Moresco l’ho scoperto quando la
Macinatrice era già quasi finita, e quando l’ho letto sono rimasto sorpreso da
quanto lo sentissi vicino. Ci sono parti della Macinatrice che sono state
elaborate e scritte tredici anni fa, poi ci sono state molte stesure e
rielaborazioni, e in mezzo, appunto, altri tre libri che sono stati dei ponti
per arrivare a questo.
8. La genesi de “La Macinatrice”: perché scrivere di Giandomenico
Torrenuova, del suo progetto? La Torrenuova S.r.l. è solo un’invenzione della
tua fantasia o ti sei anche ispirato al mondo reale, a quello di tutti i giorni?
Torrenuova esiste, o quantomeno è auspicabile. Come la mamma di Mamma.
9. Andrea e Giandomenico, due personaggi chiave, fondamentali: si
completano l’un l’altro, o si combattono ma per conseguire, in ogni caso, lo
stesso risultato finale?
Entrambe le cose. Andrea è apparentemente l’antitesi di Torrenuova, ma
Torrenuova ha anche la chiave delle sue ossessioni. L’atto fotografato da Andrea
nell’ultima pagina non è completamente libero. Accade a Rue Larrey numero 11, a
Parigi, che è una strada in cui Marcel Duchamp abitò, in un appartamento dove
trovò una porta sempre aperta e sempre chiusa, che lo fece pensare anche
all’essere androgino, all’essere contemporaneamente maschile e femminile. Andrea
stesso è un nome androgino, alla fine l’unico modo che trova per impossessarsi
di Elena è quello di farsi possedere da Marco Monti, cercando di diventare lei.
L’iscrizione sul vetro torrenoviano, “Yerra Leur” riportà la libertà di Andrea
nelle spire di Torrenuova. Il suo desiderio è desiderato, e preventivato, dal
business di Giandomenico. Questo, ovviamente, non mette in dubbio la totalità
del desiderio di Andrea. Ecco perché il romanzo è destinato a ripetersi, e non
ha mai fine.
10. Vagina’s World: è dunque questa la realtà futura che ci aspetta?
L’umanità andrebbe avanti soltanto per dar corpo alle sue ossessioni erotiche e
soddisfarle?
Vagina’s World è il voyeurismo massimo, già in atto. La rete ha rivoluzionato
l’immaginario, facendo cadere la distinzione tra sesso reale e sesso immaginato.
Il sesso reale non esiste, è un’illusione. L’unica verità del sesso è nella
mente, nel pensiero, nella volontà di vedere. In ogni scopata non c’è mai la
realtà del corpo, la mente sessuale non è mai hic et nunc. Internet è reale
perché è immagine pura. Tutti vogliono vedere tutto di tutti, ma in fondo a
questo desiderio c’è un erotismo gaudente e disperato.
11. Nel tuo romanzo, “La Macinatrice”, c’è un messaggio o un manifesto
politico nascosto fra le righe?
Di sicuro sì, ma in senso brutalmente ideologico lo puoi prendere da destra o
da sinistra. E’ una critica feroce del capitalismo, e anche la sua più
sperticata apologia. Quello che penso io invece è nascosto qua e là, spesso
anche nelle parole di Torrenuova o Marco Monti.
12. Stando all’Iliade: Elena, figlia di Giove e di Leda, sorella di
Clitennestra, ma soprattutto sposa di Menelao, rapita da Paride e per questo
causa della guerra di Troia.
Elena, figlia di Torrenuova, di cui è innamorato (!) Andrea, questa Elena che se
la fa pure con Marco Monti, un nano intellettualoide della televisione, potrebbe
essere considerata come una sorta di Elena di Troia?
Direi semplicemente una troia, ma nella sua accezione più alta, come spiega
bene Torrenuova.
13. “La Macinatrice”, che cos’è per chi non avesse ancora letto il tuo
romanzo? Secondo te, il comune lettore come se la figura la Macinatrice nella
sua immaginazione?
L’idea di tutto ciò che definiamo osceno che accade inesorabilmente in questo
istante. Il desiderio di vedere, il tormento di non poter mai raggiungere
l’immagine ultima.
14. Siamo di fronte a un romanzo di idee o a un romanzo di linguaggi? Per
me, è più corretto dire che “La Macinatrice” è romanzo di idee e di linguaggi.
Ma, ovviamente, l’ultima parola spetta all’Autore…
Concordo con l’intervistatore dell’autore.
15. A tuo avviso, genericamente parlando, esiste una netta differenza fra
Letteratura e narrativa popolare?
Assolutamente sì. La narrativa popolare è fatta per essere consumata, la
letteratura non tiene conto degli orizzonti di attesa, ne determina di propri.
Oggi scrittorini postmoderni o di genere e critici spompati e tromboni vogliono
annullare le differenze, far sì che tutto si equivalga a tutto. Sul Domenicale
di questa settimana, che ti invito a leggere, ho lanciato questa provocazione:
“Aboliamo la letteratura”. Se il valore è l’assenza di valore, o l’equivalenza
tra arte e entertainment, tanto vale mettere la letteratura fuorilegge. Perché
in realtà già lo è. Perché uno dovrebbe studiare a scuola Leopardi o Gadda
quando poi non si distinguono Piperno da Moresco o Wu Ming da Busi?
16. A mio modesto avviso, “La Macinatrice” è un’abile commistione di
generi, un’unica soluzione espositiva pienamente originale che non è possibile
costringere in un’etichetta o nelle definizioni di Letteratura e di narrativa
popolare. Dico giusto?
Direi di sì, e aggiungo: la narrativa popolare non esiste più, esiste solo il
Midcult. Sono gli stessi che fanno la fila al Louvre per vedere la Gioconda
senza sapere niente della Gioconda. Sono gli stessi che non saprebbero più
distinguere una Madonna con bambino di Caravaggio da una di Bellini, perché non
sapendo leggere le forme non possono arrivare neppure ai contenuti. Questo oggi,
in Italia, vale sia per il pubblico che per la critica. Una volta la narrativa
popolare ottocentesca raccontava ciò che il pubblico voleva leggere, mentre
l’arte dal romanticismo in poi ha sempre ridisegnato gli orizzonti d’attesa
sottraendosi alla banalizzazione imposta dall’industria. Gli chic, al massimo,
si facevano ritrarre da Giovanni Boldini. Tuttavia anche Monet o Proust, dopo
cinquant’anni, diventano popolari.
17. C’è qualche cosa che vorresti aggiungere a quanto già detto?
Ora non mi viene in mente niente. Magari se passi da Roma magari ci prendiamo
una pizza e mi vendico facendoti cinquanta domande.
Grazie Massimiliano Parente, sei stato gentilissimo e molto paziente a
rispondere a tutte queste domande. Un forte abbraccio di amicizia, di stima.