
"NEW THING" - INTERVISTA A WU MING 1
Data: Mercoledì 28 settembre 2005 Argomento: Interviste
a cura di Giuseppe Iannozzi
1. Parliamo di “New Thing”, del tuo primo lavoro solista, un lavoro
fortemente musicale per così dire: il climax è sin dall’inizio
avvolgente, si entra direttamente nella storia, fino ad arrivare al
«Figlio di Whiteman». Chi è questo “figlio”, ma soprattutto come si
ricollega al Sessantotto, e, più in generale, agli anni Sessanta?
Non vorrei dire troppe cose del "Figlio di Whiteman", salvo che è un
villain collettivo, plasmato dai brutti sogni e dalle dicerie di una
comunità che si sente sotto assedio. Il "Figlio di Whiteman" è il babau,
the bogeyman, nella nostra cultura lo chiamiamo "l'uomo nero" e
serve per minacciare i bambini quando esitano sulla soglia del sonno,
non vogliono percorrere - nemmeno accompagnati - la strada che conduce
al maniero di Morfeo, ma qui abbiamo un "uomo nero" che propugna il
white power e uccide i neri, non può chiamarsi "uomo nero" dove
Black is beautiful e Say it loud, I'm black an' I'm proud. Il
"Figlio di Whiteman" è l'antropomorfosi di un complotto maligno nella
Brooklyn della primavera '67, è il veicolo che ho usato per criticare -
un piede dentro e uno fuori - i "thriller con serial killer", che hanno
rotto le palle, è troppo facile scrivere roba sui serial killer, di
solito è roba che deresponsabilizza l'autore, quest'ultimo non deve
preoccuparsi troppo di fornire motivazioni al "cattivo", basta dire che
l'è matt! Quella sui serial killer era partita come fiction di
(appena velata) critica sociale, l'assassino l'era matt perché la
società lo aveva reso tale, il conformismo e la competizione esasperata
etc. Poi tutto il filone è andato degenerando, fino a pellicole come
Seven, dove non c'è più nessun barlume di risposta, il Male è il
Male perché è il Male, discuterne non ha nemmeno senso. New Thing,
tra le varie cose, è anche una critica a questo andazzo: tutto ruota
intorno al "Figlio di Whiteman", ma l'indagine, il "caso", la caccia al
tesoro che porta il lettore all'agnizione del colpevole... è tutta roba
che nel libro non ha la minima importanza, e innesca il precipitare
degli eventi quasi per caso. E' importantissimo tutto il resto, invece.
Almeno credo. Mi sembra importante l'ambientazione nei Sixties, che però
non sono solo i Sixties. E' importante il rapporto America-Europa che
corre lungo il libro come un cavo telefonico (che a un certo punto viene
descritto). Mi sembra importante il non-detto, cioè che negli abissi del
testo, a un livello che chiamerei "infrasonico", che sta sotto le
parole, sto parlando dell'Italia, non degli Usa. Sto parlando della
nostra stagione dei movimenti. Sto parlando delle nostre
sottoculture. Sto parlando del rapporto tra arte e politica qui da
noi, non Oltreatlantico. Certo, lo faccio parlando dell'America, ma
dell'America che abbiamo interiorizzato. So che alcuni critici e
colleghi hanno lagnato a mezza voce, hanno arriciato il naso come
arricciano il naso di fronte a Noi saremo tutto di Evangelisti,
perché secondo loro un italiano non dovrebbe ambientare le sue storie in
America. Idiozia da menti asfittiche, se mi si concede, perché ovunque
ambientiamo quello che scriviamo, è sempre del qui da noi che
parliamo.
2. Quale la genesi di “New Thing”? Se non vado errato, hai impiegato
ben quattro anni per scrivere questo romanzo che io – ma non solo – dico
perfetto.
Ti ringrazio, ma nessuno è perfetto. Era anche un film sul
transessualismo con Renato Pozzetto e Ornella Muti, che prendeva il
titolo dall'ultima battuta di A qualcuno piace caldo. Ecco, a
qualcuno piace cool, piace Dave Brubeck, piace Chet Baker, piace
il Miles Davis di Birth of the Cool. Anche a me piacciono, in
certi frangenti. E' musica da sesso fenomenale, credo addirittura che
mia figlia sia stata concepita sulle note di un disco di cool jazz. Solo
che la roba che a me piace veramente - in ogni campo delle arti e dei
saperi - è rovente, scottante, lascia ustioni di ogni grado sulla pelle
e dentro le orecchie. La musica che ascolto fa venire l'otite,
l'esperienza più intensa assieme al mal di denti, e faccio battere la
lingua dove dove il dente duole, "assaggia la mia bocca nel tuo orecchio"
dice Ginsberg in una celebre dedica. Il mio approccio alla scrittura è
costruito sull'udito, ma anche su lu dito (direbbe Tiziano Scarpa,
cfr. VMO), è lu dito che metto sulla piaga, vado a rimestare
nelle piaghe e nelle pieghe della storia - come fa tutto il collettivo
Wu Ming - e siccome sono da sempre appassionato di musiche e culture
afroamericane (e afroatlantiche in genere), ho pensato che il mio
oggetto narrativo solista doveva partire da quelle, partire da quello,
partire per la tangente. E ancora: siccome sono un appassionato della
parola - come logos e come phonos - ho simulato l'uso di
fonti orali, con le quali non intendo le "ventenni bocchinare" di cui fa
l'apologia Houellebecq (per quanto non dispiacciano), ma la storia orale,
le interviste, fiato che porta fonemi che vengono catturati da un
magnetofono, carta moschicida del discorso a cui tutto rimane
appiccicato. E allora simuliamolo, un lavoro di storia orale. Così nasce
l'idea, il grappolo di idee, che mi condurrà a New Thing.
3. Per quale/i motivo/i il tuo romanzo l’hai detto “oggetto
narrativo”, allontanandolo dalla categoria romanzo?
Perché non è propriamente un romanzo, la definizione di "romanzo" gli
sta troppo stretta o, chissà, forse troppo larga. E' a tratti la
simulazione di un lavoro di giornalismo, un documentario su carta, solo
che anche questa definizione non regge dato che eventi veri e immaginari
vengono raccontati da personaggi che ho inventato io. Direi che è una
rete a strascico, quando la issi a bordo dentro ci trovi di tutto,
copertoni, scarponi, pesci-martello, pesci-spada, persino una copia di
Come vivere (e bene) senza i comunisti, il libro di gomma,
gonfiabile, che Roberto D'Agostino pubblicò nei lontani anni Ottanta. Un
supporto che durerà millenni, al contrario della carta. Sarà inghiottito
da grossi pesci, che poi moriranno e si decomporranno e il libro sarà di
nuovo libero, continuerà a galleggiare, verso sud o verso nord, e finirà
congelato dentro un iceberg, che poi si staccherà dalla banchisa e di
nuovo rilascerà il suo contenuto in acque più calde, e tutto questo
mentre le generazioni si avvicenderanno, le civiltà crolleranno, altre
ne nasceranno, e il libro non-biodegradabile, col suo contenuto di
terribili minchiate, sarà ancora lì mentre dei nostri - speriamo di no -
si sarà persa la memoria. Dicevo: New Thing è una rete a strascico, con
la differenza che il mio oggetto narrativo non fa morire nessuna
creatura dei mari, non danneggia gli ecosistemi, non rovina i fondali,
tutto quello che pesco resta vivo e torna al grande mare delle storie,
dove influenzerà qualcun altro.
4. Coltrane, John William Coltrane: cos’ha significato per te entrare
nella mente di Coltrane per descrivere la “La Nuova Cosa”? Come sei riuscito
a carpire i pensieri di Coltrane, a trasformali in intensità religiosa,
quella propria del jazz?
Non credo di essere "entrato nella mente" di Coltrane, ho avviato un flusso
di coscienza basandomi sulle biografie, sulle testimonianze di chi lo ha
conosciuto, ma soprattutto sulla musica, sul suo attaccamento totale, quasi
morboso, alla musica. Non c'è quasi alcuna foto di Coltrane in cui non abbia
in mano il suo strumento, a volte addirittura tutti e due, sax tenore e
soprano, nelle foto sta sempre suonando, o pulendo l'imboccatura, o
cazzeggiando con in mano il sax. In questo momento ricordo solo due foto di
Coltrane a mani vuote: quella sulla copertina di Four for Trane di
Archie Shepp (e comunque sta ascoltando musica!) e quella sulla copertina di
A Love Supreme (ma le mani non si vedono!). Coltrane si esercitava
tutto il giorno tutti i giorni, suonava e suonava e suonava e suonava e
suonava e suonava e suonava, poi, quando aveva finito, andava al lavoro,
cioè a suonare nei club. Spesso, durante gli assoli altrui, scendeva dal
palco, andava nella toilette del locale e continuava a suonare. Suonare era
svago, lavoro, meditazione. Il mio pensiero è stato: in che misura è
cambiata questa routine, quando il dottore gli ha detto che era in punto di
morte? Noi sappiamo che Coltrane ha fatto due concerti appena un mese prima
di morire, uno dei quali è disponibile su cd ed è uuuuuuuuuuhhhhhhhh!
Ascoltatelo, a distanza di quasi quarant'anni non si è sentito nulla del
genere nemmeno nei dischi più noise, nemmeno nel death metal o nel
grindcore. The Olatunji Concert. Ok, ma negli ultimissimi tempi,
nelle ultime settimane, stravolto dal dolore, cosa pensava Coltrane, come
riempiva le sue giornate? Il paradosso del mio lavoro di ricostruzione è
questo: ho dovuto costruire un quadro psicologico, una sorta di nube
quantica intorno a un nucleo atomico che era la musica... per distruggerlo
subito, immediatamente! La distruzione di quel quadro psicologico era la
conditio sine qua non del flusso di coscienza. Non so se mi sono fatto
capire...
5. A mio avviso, forse sbagliando, “New Thing” accoglie una coralità di
voci narrative che mettono in nuce un pathos tragico, che è in parte
di morte consapevole - come quella che si impose Sofocle - ma che è anche
segnato da una religiosità evangelica, del reggere la croce. Che cos’è la
morte in “New Thing” e cosa significa?
La cultura dei neri americani era ed è fortemente intrisa di religione, fin
dai tempi della conversione al cristianesimo durante la schiavitù: il
linguaggio di tutti i giorni è pieno di riferimenti biblici, la chiesa
battista o metodista è l'epicentro della vita pubblica tanto nei paesini del
Sud quanto nei quartieri delle metropoli, e i reverendi battisti sono leader
e portavoce della loro comunità. Detto questo, il "reggere la croce" di cui
parla New Thing è in realtà un'attitudine molto laica, immanente alla
nostra vita su questa terra: "reggere la croce" significa, ad esempio, che è
necessario lottare giorno dopo giorno anche in assenza di utopie prometeiche
a rischiarare l'orizzonte; "reggere la croce" significa che si può e si deve
andare avanti con dignità anche senza certezze granitiche, mettendo in conto
periodi di disorientamento, di arretramento, preparandosi ad affrontarli al
meglio per poi tirare avanti, e la parola-chiave qui è dignità. E' la
dignità di certa cultura proletaria, è la dignità che dice: "umili sì,
umiliati no", che dice: "subire è inevitabile, frignare no".
6. Perché un titolo in inglese per un romanzo scritto in lingua italiana?
La mia prima impressione è stata quella d’aver di fronte un romanzo che
avrebbe potuto scriverlo benissimo Beppe Fenoglio se solo ne avesse avuto il
tempo. Ma qui sto azzardando: lo stile di “New Thing” è d’una sobrietà
jazzata… a tratti burroughsiana. Potresti spiegarmi se è effettivamente così
o diversamente?
Non scordiamoci che proprio Fenoglio (uno dei miei scrittori prediletti,
en passant, a cui torno periodicamente rileggendolo tutto)
scrisse in inglese - o meglio, in un particolare idioletto che alcuni hanno
chiamato "fenglese" - le prime stesure di alcuni suoi libri. Queste prime
stesure le usava come substrato sintattico e lessicale, base di "biocemento"
[lo hanno appena inventato, qui è possibile scaricare il press kit:
http://www.extrastudio.pt/noticias/organic_concrete_kit.zip] piano
poroso su cui far crescere l'italiano, lingua sottilmente "mutante" che
teneva conto tanto del substrato consegnato alla carta (il "fenglese",
appunto) quanto del substrato echeggiante nell'orecchio (il gioco di
riverberi tra il dialetto di Alba e quello langarolo). L'inglese serviva a
forzare le capacità dell'italiano, farlo risuonare in modo differente.
Venendo a noi: anch'io ho tenuto conto di diversi substrati, echi che mi
riempivano l'orecchio. Quasi ogni frase di New Thing è stata pensata
in inglese, anzi, in afroamericano, vernacolo che ho studiato e ascoltato "a
distanza", a mo' di Nettuno, l'università in tv (due palle...), o di corso
della Scuola Radio Elettra (palestra formativa che ci ha consegnato, fra
tanti, Umberto Bossi). Nel renderla in italiano, andando (aridaje!) "a
orecchio", ho fatto intervenire la mia lingua di tutti i giorni, un italiano
pan-emiliano orientale (ferrarese parlante il dialetto, da sedici anni vivo
a Bologna), ma molti altri elementi sono entrati in gioco: Bologna è piena
di meridionali, gran parte dei miei amici e conoscenti sono meridionali, la
lingua degli ex-studenti fuori-sede a Bologna è uno slang neo-petroniano con
tantissimi prestiti dai dialetti meridionali. Quando voglio rendere una
lingua "orale", giocoforza vado in quella direzione. Una grande palestra, in
questo senso, è il mio lavoro di traduzione dei romanzi di Elmore Leonard,
il più grande "dialoghista" vivente, un iperrealista dell'effetto orale (ancora:
non parlo di quelle ventenni che etc.). Finora ho tradotto Tishomingo
Blues, Mr. Paradise e Cat Chaser (che sta per uscire).
Tradurre Leonard mi ha ulteriormente "disinibito" nei confronti della
lingua. Però in New Thing non c'è solo la "traduzione"/"tradimento" del
parlato afroamericano: c'è tutto il lavoro ritmico e addirittura metrico.
Non volevo scrivere un libro che parlasse di jazz, di
poliritmie, di cadenze sincopate: volevo scrivere un libro che
parlasse jazz, parlasse poliritmie, parlasse cadenze sincopate.
Paradossalmente, per "rendere" nella lingua una musica principalmente basata
su improvvisazione e composizione spontanea, non potevo improvvisare, fare
scrittura spontanea alla Kerouac etc. Quella sarebbe stata la mia
improvvisazione, come avviene in questo momento. Ma New Thing, al suo
primo livello di fruizione, si svolge quarant'anni fa, quando non ero ancora
nato, in un Paese in cui non vivo, in seno a una comunità a cui non
appartengo né potrò mai appartenere. Il mio doveva essere un omaggio alle
pratiche improvvisative nate e cresciute da quella cultura, e per far questo
ho dovuto curare la lingua fino all'ossessione, riscrivere radicalmente,
scolpire, piallare, cesellare, labor limae, leccare i versi come
l'orsa lecca i suoi cuccioli (questo è Virgilio), leccare la lingua altrui
come quando ci si bacia, leccare ogni parola come il fricchettone lecca il
rospo dal sudore allucinogeno. Hai capito come mai ci ho messo quasi quattro
anni per scrivere duecento pagine?
7. A mio avviso, nel tuo lavoro è forte ed evidente un’impronta politica:
se sì, potresti spiegarmela? Si può dire che il tuo lavoro è un jazz against
fascism?
All of me is against fascism! Tutto quel che fa Wu Ming è fortemente
politico e civile. Il che non significa che scriviamo romanzi "a tesi", e
nemmeno "a chiave". Non è che mi metto a pensare: adesso scrivo un oggetto
narrativo che parli del free jazz a New York per parlare della strategia
della tensione in Italia, che parli del 1967 per parlare delle guerre
imperiali in Afghanistan e Iraq etc. Non è che parti con le idee così
chiare... Se provi a farlo, il libro verrà una schifezza. Questo
prendere-forma accade, viene da sé, va sans dire. Io sono una
persona che ha opinioni e cerca di farle valere, che si schiera, che
milita (la militanza è la vita degli uomini sulla Terra e in orbita,
Juri Gagarin era un militante, John Glenn era un militante etc.). Le cose
che scrivo si nutrono di questa mia attitudine, ne traggono linfa (o
liquame, direbbe un fascista). Wu Ming è anche un gruppo politico, non solo
per le campagne a cui prendiamo parte, ma perché - come scrivemmo nella
vecchia dichiarazione d'intenti - "Chi crea non può in alcun modo astrarsi,
evitare di intervenire. Scrivere è già produzione, narrare è già politica.
C'è chi lo capisce, poi c'è la legione dei reazionari, consapevoli o meno".
Wu Ming è politico perché sa che si scrive sempre per gli altri. Non
fidatevi di chi afferma: "Scrivo solo per me stesso". Se uno scrive, lo fa
perché vuole/si aspetta/spera/non esclude che qualcun altro legga. Scrivere
è già intervento civile, e questo vale per chiunque lo faccia.
8. Chi è Sonia Langmut che stava dalla parte dei leaders della protesta,
la cui più fedele e semplice arma (di denuncia, di critica) era un
registratore a bobine di fabbricazione tedesca?
Sonia Langmut c'est moi, verrebbe da dire. Ma è più complicato di
così. Me ne sono accorto scrivendo, verso la fine della penultima stesura:
Sonia è la memoria degli anni Sessanta americani, e più in generale dei
movimenti radicali americani del XX° secolo. Quando Valerio Evangelisti ha
letto New Thing, stava per uscire Noi saremo tutto. E' rimasto
a dir poco turbato dal fatto che, senza mai parlarci dei rispettivi libri,
avevamo parlato delle stesse cose! Diverse le epoche, diverso il taglio,
diversa la tecnica narrativa, ma in entrambi i casi si racconta la guerra
sporca del governo USA contro i movimenti, dagli anni Venti al nostro
presente, passando per gli anni Settanta. Tra un libro e l'altro sono
possibili innumerevoli rimandi e rimbalzi. In entrambi i casi, poi, si
racconta della memoria di quelle stagioni, di quei cicli di lotte. Memoria
rimossa, mistificata, rimontata come fosse una puntata di blob... Infine, in
entrambi i casi si racconta l'America ma si parla di noi qui e ora, delle
nostre guerre sporche, dei nostri movimenti, della nostra
memoria delle lotte. Sonia è tutti noi, quindi. E infatti Sonia è l'Europa:
figlia di socialisti tedeschi in fuga dal Terzo Reich, cita autori europei (tra
cui Marx), ha un rapporto simbiotico con un registratore di marca europea,
un Butoba MT5... Sonia Langmut c'est nous.
9. A quali dischi, a quali saggi, a quali letture ti sei ispirato per
poter scrivere “New Thing”? Ci sono stati dei dischi o dei libri che ti
hanno aiutato, che ti hanno illuminato per portare a termine il tuo lavoro?
Per scrivere New Thing ho letto decine e decine di saggi e centinaia
di articoli, raccattato remote annate di riviste jazz, ascoltato centinaia
di album, scaricato migliaia di file audio (non soltanto musicali, anzi,
quasi tutti di spoken word: Malcolm X, Martin Luther King, Eldridge
Cleaver, Richard Pryor, Eddie Murphy, Chris Rock... Ho cercato di dare una
vaga idea di quel percorso nei "Titoli di coda" del libro (+ bibliografia).
Sicuramente, un libro che invito a leggere (purtroppo non è stato tradotto
in italiano, e forse non verrà mai tradotto) è Ready For
Revolution, la monumentale autobiografia di Kwame Ture a.k.a. Stokely
Carmichael, pubblicato cinque anni dopo la sua morte grazie al durissimo
lavoro del suo amico Ekweme Michael Thelwell. Una cosa che invito a fare è
ascoltare i discorsi di Malcolm X, il migliore oratore di un secolo che ne
ha avuti di davvero notevoli. Digitando
"Malcolm X mp3" su
google, escono un po' di siti da cui è possibile scaricare quei file.
I dischi: ho già nominato The Olatunji Concert. Compratelo, o
copiatelo. Prima di decidere se vi piace o no, ascoltatelo almeno tre volte.
La prima, come semplice sottofondo mentre fate altro (non è adattissimo per
il sesso). La seconda, con attenzione, dalle casse dello stereo o del
computer. La terza, ascoltatelo in cuffia, camminando per le strade della
vostra città. Fate in modo di essere in un luogo elevato, con vista
panoramica, durante l'assolo di basso di Jimmy Garrison che apre My
Favorite Things. Se vivete a Torino, la Mole è perfetta. Se vivete a
Bologna, salite sulla Torre degli Asinelli (ma solo se vi siete già
laureati, chi è iscritto alla Dotta sa di cosa parlo).
10. Rispetto a “54” e a “Q”, che sono il lavoro di più menti, “New Thing”
è un lavoro solista: è più facile scrivere come collettivo o facendo
affidamento solo sulle proprie forze, capacità, idee?
E' senz'altro più facile scrivere insieme, perché c'è la verifica e
l'editing in tempo reale di tutto quel che si scrive, c'è meno spazio per i
dubbi angoscianti, i tormenti, le paranoie, e si scongiura il "blocco dello
scrittore" (quello che tu non hai mai, sei un po' il Lovecraft o l'Edgar
Wallace della blogosfera italiana :-)). E' improbabile che cinque scrittori
vadano in crisi tutti assieme, c'è sempre chi continua a tirare la carretta
aspettando che chi è bloccato riesca a ripartire. Il lavoro non conosce
interruzioni, il brainstorming e la ricerca sono incessanti, i compiti
vengono divisi equamente, si lavora in armonia, ci si aiuta, volano
critiche, suggerimenti, la riscrittura di ciò che non convince avviene senza
intoppi, è un grande gioco di ruolo, i nostri personaggi sono seduti intorno
al tavolo con noi, è un'assemblea convocata al di sopra di epoche e luoghi,
un fenomeno medianico. Scrivendo da soli, tutto questo viene a mancare.
Scrivere da soli è come "sentire le voci" dentro la testa (Wu Ming Uno! /
La senti questa voce? Vaf-fan-culo!"), è un roveto irto di dubbi
acuminati, tutto si fa più arduo. Va però detto che anche i romanzi solisti
- seppure in minor misura - si avvalgono dei consigli e della collaborazione
dell'intero collettivo. Ad esempio, un'intera sottotrama di New Thing
è frutto di un'improvvisazione a due, io e WM5 un mercoledì sera, in un
locale che oggi non esiste più. Le stesure provvisorie di Havana Glam,
Guerra agli Umani, New Thing e dell'imminente Free Karma
Food (uscirà per Rizzoli nel marzo 2006) sono state lette da tutti i Wu
Ming, che hanno indicato pregi e difetti, suggerito modifiche ecc. La
differenza cruciale tra romanzi collettivi e romanzi solisti non sta nel
numero di mani intervenute, ma proprio nella natura dei progetti. Mi è molto
piaciuta la definizione data da un lettore su IBS: "versioni beta, momenti
in cui si azzardano sperimentazioni utili o meno per il futuro". E'
esattamente questo il punto: i romanzi solisti vanno in avanscoperta,
battono piste che in seguito percorrerà l'intero collettivo (forse,
dipende).
11. Una domanda atipica, almeno per me, perché è la prima volta che la
presento a qualcuno: Wu Ming 1 (Roberto Bui) come, con quali parole,
recensirebbe “New Thing”? Sì, ti sto chiedendo di autorecensirti,
possibilmente senza avarizia di autocritica, di parole.
Rispondo con entusiasmo segnalando che in rete, grazie al blogger Lorenzo
Cassata di Salgalaluna, esiste già da un po' un generatore automatico di
stroncature di New Thing! Basta cliccare qui:
http://salgalaluna.clarence.com/permalink/178570.html. Alcuni esempi?
Ho letto il romanzo di Wu Ming1, New
Thing: qualcosa tra Quanti anni hai? di Vasco
(strafottente), l'ultimo di Oriana Fallaci (dice tutto e il contrario di
tutto) , con una punta di Superman (la forza della giustizia) e un
cucchiaino di snobismo (vi parlo di modernariato: so pure che cos'è un
Butoba!). Intollerabile.
Ho letto il romanzo di Wu Ming1, New
Thing: qualcosa tra la musica di Iva Zanicchi (allegra ma sempre
uguale), Fahrenheit 9/11 di Michael Moore (paranoico), con una punta
di Carlo Azeglio Ciampi (mucchi di retorica) e un cucchiaino di sono uno
storico (e vi sciorino le date). Anacronistico.
Ho letto il romanzo di Wu Ming1, New
Thing: qualcosa tra Mistero Buffo (è quasi un monologo teatrale a
più voci), un trattato di anatomia (sviscera piano piano), con una punta di Susanna
Tamaro (nel personaggio di John Coltrane) e un cucchiaino di edonismo
reaganiano (lo stile dagospia insegna). Stramaledettamente stupido.
12. Si sta facendo un gran parlare intorno al ruolo della letteratura,
intorno a quello della narrativa. La mia domanda è dunque questa: la tua
idea di letteratura? e quella di narrativa? sei dell’opinione che
letteratura e narrativa siano un tutt’uno?
E' un dibattito che non mi appassiona, anzi mi annoia, e lo trovo anche
inutile, se non nocivo. A me non dà niente, credo che nemmeno ai lettori dia
alcunché, non cambia le carte in tavola né usa quelle che ci sono per
portare avanti la partita, non scommette su alcun esito praticabile e quando
lo fa perde (e non paga il debito!). Tutto questo strepitare alla
Restaurazione, per esempio. Anzi: alla Restaurazziune (cfr.
VMO). Mi sembra
uno stracco espediente per attirare l'attenzione e conquistarsi - sgomitando
come per salire sull'ultimo treno - una nicchia di mercato, lo stesso
mercato che a parole viene snobbato. Troppo comodo fare gli apocalittici
dalle colonne dei rotocalchi, in articoli insadwichati tra pubblicità di
gadget e telefonini. Troppo comodo fare gli apocalittici in conferenze a
pagamento nel contesto di kermesses letterarie ormai ridotte a fabbriche di
autografi. Davvero ipocrita parlare di "restaurazziuni" ex cathedra (letteralmente),
dentro il mostruoso universo tardo-feudale dell'università, luogo di
privilegi intollerabili e precarietà senza futuro, trita-anime che porta ad
anoressie e suicidi ed è molto più alienante e falso del più scrauso reality
show o comparsata televisiva di un autore di best-seller. E tutto questo
auspicarsi - da parte di schiere di zombies accademici - la "morte della
letteratura", fingendo però di rammaricarsene... Questo enorme e al contempo
patetico tentativo di portare sfiga al proprio prossimo, questo
inequivocabile disprezzo per il divenire, identificato tout court con la
decadenza... Posso solo augurarmi che la pratica reale della lingua e del
racconto, quel racconto incessante che è la vita nella comunità umana,
spazzi via tutti questi parassiti.
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