"NEW THING" - INTERVISTA A WU MING 1
Data: Mercoledì 28 settembre 2005
Argomento: Interviste


a cura di Giuseppe Iannozzi










1. Parliamo di “New Thing”, del tuo primo lavoro solista, un lavoro fortemente musicale per così dire: il climax è sin dall’inizio avvolgente, si entra direttamente nella storia, fino ad arrivare al «Figlio di Whiteman». Chi è questo “figlio”, ma soprattutto come si ricollega al Sessantotto, e, più in generale, agli anni Sessanta?

Non vorrei dire troppe cose del "Figlio di Whiteman", salvo che è un villain collettivo, plasmato dai brutti sogni e dalle dicerie di una comunità che si sente sotto assedio. Il "Figlio di Whiteman" è il babau, the bogeyman, nella nostra cultura lo chiamiamo "l'uomo nero" e serve per minacciare i bambini quando esitano sulla soglia del sonno, non vogliono percorrere - nemmeno accompagnati - la strada che conduce al maniero di Morfeo, ma qui abbiamo un "uomo nero" che propugna il white power e uccide i neri, non può chiamarsi "uomo nero" dove Black is beautiful e Say it loud, I'm black an' I'm proud. Il "Figlio di Whiteman" è l'antropomorfosi di un complotto maligno nella Brooklyn della primavera '67, è il veicolo che ho usato per criticare - un piede dentro e uno fuori - i "thriller con serial killer", che hanno rotto le palle, è troppo facile scrivere roba sui serial killer, di solito è roba che deresponsabilizza l'autore, quest'ultimo non deve preoccuparsi troppo di fornire motivazioni al "cattivo", basta dire che l'è matt! Quella sui serial killer era partita come fiction di (appena velata) critica sociale, l'assassino l'era matt perché la società lo aveva reso tale, il conformismo e la competizione esasperata etc. Poi tutto il filone è andato degenerando, fino a pellicole come Seven, dove non c'è più nessun barlume di risposta, il Male è il Male perché è il Male, discuterne non ha nemmeno senso. New Thing, tra le varie cose, è anche una critica a questo andazzo: tutto ruota intorno al "Figlio di Whiteman", ma l'indagine, il "caso", la caccia al tesoro che porta il lettore all'agnizione del colpevole... è tutta roba che nel libro non ha la minima importanza, e innesca il precipitare degli eventi quasi per caso. E' importantissimo tutto il resto, invece. Almeno credo. Mi sembra importante l'ambientazione nei Sixties, che però non sono solo i Sixties. E' importante il rapporto America-Europa che corre lungo il libro come un cavo telefonico (che a un certo punto viene descritto). Mi sembra importante il non-detto, cioè che negli abissi del testo, a un livello che chiamerei "infrasonico", che sta sotto le parole, sto parlando dell'Italia, non degli Usa. Sto parlando della nostra stagione dei movimenti. Sto parlando delle nostre sottoculture. Sto parlando del rapporto tra arte e politica qui da noi, non Oltreatlantico. Certo, lo faccio parlando dell'America, ma dell'America che abbiamo interiorizzato. So che alcuni critici e colleghi hanno lagnato a mezza voce, hanno arriciato il naso come arricciano il naso di fronte a Noi saremo tutto di Evangelisti, perché secondo loro un italiano non dovrebbe ambientare le sue storie in America. Idiozia da menti asfittiche, se mi si concede, perché ovunque ambientiamo quello che scriviamo, è sempre del qui da noi che parliamo.



2. Quale la genesi di “New Thing”? Se non vado errato, hai impiegato ben quattro anni per scrivere questo romanzo che io – ma non solo – dico perfetto.

Ti ringrazio, ma nessuno è perfetto. Era anche un film sul transessualismo con Renato Pozzetto e Ornella Muti, che prendeva il titolo dall'ultima battuta di A qualcuno piace caldo. Ecco, a qualcuno piace cool, piace Dave Brubeck, piace Chet Baker, piace il Miles Davis di Birth of the Cool. Anche a me piacciono, in certi frangenti. E' musica da sesso fenomenale, credo addirittura che mia figlia sia stata concepita sulle note di un disco di cool jazz. Solo che la roba che a me piace veramente - in ogni campo delle arti e dei saperi - è rovente, scottante, lascia ustioni di ogni grado sulla pelle e dentro le orecchie. La musica che ascolto fa venire l'otite, l'esperienza più intensa assieme al mal di denti, e faccio battere la lingua dove dove il dente duole, "assaggia la mia bocca nel tuo orecchio" dice Ginsberg in una celebre dedica. Il mio approccio alla scrittura è costruito sull'udito, ma anche su lu dito (direbbe Tiziano Scarpa, cfr. VMO), è lu dito che metto sulla piaga, vado a rimestare nelle piaghe e nelle pieghe della storia - come fa tutto il collettivo Wu Ming - e siccome sono da sempre appassionato di musiche e culture afroamericane (e afroatlantiche in genere), ho pensato che il mio oggetto narrativo solista doveva partire da quelle, partire da quello, partire per la tangente. E ancora: siccome sono un appassionato della parola - come logos e come phonos - ho simulato l'uso di fonti orali, con le quali non intendo le "ventenni bocchinare" di cui fa l'apologia Houellebecq (per quanto non dispiacciano), ma la storia orale, le interviste, fiato che porta fonemi che vengono catturati da un magnetofono, carta moschicida del discorso a cui tutto rimane appiccicato. E allora simuliamolo, un lavoro di storia orale. Così nasce l'idea, il grappolo di idee, che mi condurrà a New Thing.



3. Per quale/i motivo/i il tuo romanzo l’hai detto “oggetto narrativo”, allontanandolo dalla categoria romanzo?

Perché non è propriamente un romanzo, la definizione di "romanzo" gli sta troppo stretta o, chissà, forse troppo larga. E' a tratti la simulazione di un lavoro di giornalismo, un documentario su carta, solo che anche questa definizione non regge dato che eventi veri e immaginari vengono raccontati da personaggi che ho inventato io. Direi che è una rete a strascico, quando la issi a bordo dentro ci trovi di tutto, copertoni, scarponi, pesci-martello, pesci-spada, persino una copia di Come vivere (e bene) senza i comunisti, il libro di gomma, gonfiabile, che Roberto D'Agostino pubblicò nei lontani anni Ottanta. Un supporto che durerà millenni, al contrario della carta. Sarà inghiottito da grossi pesci, che poi moriranno e si decomporranno e il libro sarà di nuovo libero, continuerà a galleggiare, verso sud o verso nord, e finirà congelato dentro un iceberg, che poi si staccherà dalla banchisa e di nuovo rilascerà il suo contenuto in acque più calde, e tutto questo mentre le generazioni si avvicenderanno, le civiltà crolleranno, altre ne nasceranno, e il libro non-biodegradabile, col suo contenuto di terribili minchiate, sarà ancora lì mentre dei nostri - speriamo di no - si sarà persa la memoria. Dicevo: New Thing è una rete a strascico, con la differenza che il mio oggetto narrativo non fa morire nessuna creatura dei mari, non danneggia gli ecosistemi, non rovina i fondali, tutto quello che pesco resta vivo e torna al grande mare delle storie, dove influenzerà qualcun altro.



4. Coltrane, John William Coltrane: cos’ha significato per te entrare nella mente di Coltrane per descrivere la “La Nuova Cosa”? Come sei riuscito a carpire i pensieri di Coltrane, a trasformali in intensità religiosa, quella propria del jazz?


Non credo di essere "entrato nella mente" di Coltrane, ho avviato un flusso di coscienza basandomi sulle biografie, sulle testimonianze di chi lo ha conosciuto, ma soprattutto sulla musica, sul suo attaccamento totale, quasi morboso, alla musica. Non c'è quasi alcuna foto di Coltrane in cui non abbia in mano il suo strumento, a volte addirittura tutti e due, sax tenore e soprano, nelle foto sta sempre suonando, o pulendo l'imboccatura, o cazzeggiando con in mano il sax. In questo momento ricordo solo due foto di Coltrane a mani vuote: quella sulla copertina di Four for Trane di Archie Shepp (e comunque sta ascoltando musica!) e quella sulla copertina di A Love Supreme (ma le mani non si vedono!). Coltrane si esercitava tutto il giorno tutti i giorni, suonava e suonava e suonava e suonava e suonava e suonava e suonava, poi, quando aveva finito, andava al lavoro, cioè a suonare nei club. Spesso, durante gli assoli altrui, scendeva dal palco, andava nella toilette del locale e continuava a suonare. Suonare era svago, lavoro, meditazione. Il mio pensiero è stato: in che misura è cambiata questa routine, quando il dottore gli ha detto che era in punto di morte? Noi sappiamo che Coltrane ha fatto due concerti appena un mese prima di morire, uno dei quali è disponibile su cd ed è uuuuuuuuuuhhhhhhhh! Ascoltatelo, a distanza di quasi quarant'anni non si è sentito nulla del genere nemmeno nei dischi più noise, nemmeno nel death metal o nel grindcore. The Olatunji Concert. Ok, ma negli ultimissimi tempi, nelle ultime settimane, stravolto dal dolore, cosa pensava Coltrane, come riempiva le sue giornate? Il paradosso del mio lavoro di ricostruzione è questo: ho dovuto costruire un quadro psicologico, una sorta di nube quantica intorno a un nucleo atomico che era la musica... per distruggerlo subito, immediatamente! La distruzione di quel quadro psicologico era la conditio sine qua non del flusso di coscienza. Non so se mi sono fatto capire...



5. A mio avviso, forse sbagliando, “New Thing” accoglie una coralità di voci narrative che mettono in nuce un pathos tragico, che è in parte di morte consapevole - come quella che si impose Sofocle - ma che è anche segnato da una religiosità evangelica, del reggere la croce. Che cos’è la morte in “New Thing” e cosa significa?

La cultura dei neri americani era ed è fortemente intrisa di religione, fin dai tempi della conversione al cristianesimo durante la schiavitù: il linguaggio di tutti i giorni è pieno di riferimenti biblici, la chiesa battista o metodista è l'epicentro della vita pubblica tanto nei paesini del Sud quanto nei quartieri delle metropoli, e i reverendi battisti sono leader e portavoce della loro comunità. Detto questo, il "reggere la croce" di cui parla New Thing è in realtà un'attitudine molto laica, immanente alla nostra vita su questa terra: "reggere la croce" significa, ad esempio, che è necessario lottare giorno dopo giorno anche in assenza di utopie prometeiche a rischiarare l'orizzonte; "reggere la croce" significa che si può e si deve andare avanti con dignità anche senza certezze granitiche, mettendo in conto periodi di disorientamento, di arretramento, preparandosi ad affrontarli al meglio per poi tirare avanti, e la parola-chiave qui è dignità. E' la dignità di certa cultura proletaria, è la dignità che dice: "umili sì, umiliati no", che dice: "subire è inevitabile, frignare no".



6. Perché un titolo in inglese per un romanzo scritto in lingua italiana? La mia prima impressione è stata quella d’aver di fronte un romanzo che avrebbe potuto scriverlo benissimo Beppe Fenoglio se solo ne avesse avuto il tempo. Ma qui sto azzardando: lo stile di “New Thing” è d’una sobrietà jazzata… a tratti burroughsiana. Potresti spiegarmi se è effettivamente così o diversamente?

Non scordiamoci che proprio Fenoglio (uno dei miei scrittori prediletti, en passant, a cui torno periodicamente rileggendolo tutto) scrisse in inglese - o meglio, in un particolare idioletto che alcuni hanno chiamato "fenglese" - le prime stesure di alcuni suoi libri. Queste prime stesure le usava come substrato sintattico e lessicale, base di "biocemento" [lo hanno appena inventato, qui è possibile scaricare il press kit: http://www.extrastudio.pt/noticias/organic_concrete_kit.zip] piano poroso su cui far crescere l'italiano, lingua sottilmente "mutante" che teneva conto tanto del substrato consegnato alla carta (il "fenglese", appunto) quanto del substrato echeggiante nell'orecchio (il gioco di riverberi tra il dialetto di Alba e quello langarolo). L'inglese serviva a forzare le capacità dell'italiano, farlo risuonare in modo differente. Venendo a noi: anch'io ho tenuto conto di diversi substrati, echi che mi riempivano l'orecchio. Quasi ogni frase di New Thing è stata pensata in inglese, anzi, in afroamericano, vernacolo che ho studiato e ascoltato "a distanza", a mo' di Nettuno, l'università in tv (due palle...), o di corso della Scuola Radio Elettra (palestra formativa che ci ha consegnato, fra tanti, Umberto Bossi). Nel renderla in italiano, andando (aridaje!) "a orecchio", ho fatto intervenire la mia lingua di tutti i giorni, un italiano pan-emiliano orientale (ferrarese parlante il dialetto, da sedici anni vivo a Bologna), ma molti altri elementi sono entrati in gioco: Bologna è piena di meridionali, gran parte dei miei amici e conoscenti sono meridionali, la lingua degli ex-studenti fuori-sede a Bologna è uno slang neo-petroniano con tantissimi prestiti dai dialetti meridionali. Quando voglio rendere una lingua "orale", giocoforza vado in quella direzione. Una grande palestra, in questo senso, è il mio lavoro di traduzione dei romanzi di Elmore Leonard, il più grande "dialoghista" vivente, un iperrealista dell'effetto orale (ancora: non parlo di quelle ventenni che etc.). Finora ho tradotto Tishomingo Blues, Mr. Paradise e Cat Chaser (che sta per uscire). Tradurre Leonard mi ha ulteriormente "disinibito" nei confronti della lingua. Però in New Thing non c'è solo la "traduzione"/"tradimento" del parlato afroamericano: c'è tutto il lavoro ritmico e addirittura metrico. Non volevo scrivere un libro che parlasse di jazz, di poliritmie, di cadenze sincopate: volevo scrivere un libro che parlasse jazz, parlasse poliritmie, parlasse cadenze sincopate. Paradossalmente, per "rendere" nella lingua una musica principalmente basata su improvvisazione e composizione spontanea, non potevo improvvisare, fare scrittura spontanea alla Kerouac etc. Quella sarebbe stata la mia improvvisazione, come avviene in questo momento. Ma New Thing, al suo primo livello di fruizione, si svolge quarant'anni fa, quando non ero ancora nato, in un Paese in cui non vivo, in seno a una comunità a cui non appartengo né potrò mai appartenere. Il mio doveva essere un omaggio alle pratiche improvvisative nate e cresciute da quella cultura, e per far questo ho dovuto curare la lingua fino all'ossessione, riscrivere radicalmente, scolpire, piallare, cesellare, labor limae, leccare i versi come l'orsa lecca i suoi cuccioli (questo è Virgilio), leccare la lingua altrui come quando ci si bacia, leccare ogni parola come il fricchettone lecca il rospo dal sudore allucinogeno. Hai capito come mai ci ho messo quasi quattro anni per scrivere duecento pagine?



7. A mio avviso, nel tuo lavoro è forte ed evidente un’impronta politica: se sì, potresti spiegarmela? Si può dire che il tuo lavoro è un jazz against fascism?


All of me is against fascism! Tutto quel che fa Wu Ming è fortemente politico e civile. Il che non significa che scriviamo romanzi "a tesi", e nemmeno "a chiave". Non è che mi metto a pensare: adesso scrivo un oggetto narrativo che parli del free jazz a New York per parlare della strategia della tensione in Italia, che parli del 1967 per parlare delle guerre imperiali in Afghanistan e Iraq etc. Non è che parti con le idee così chiare... Se provi a farlo, il libro verrà una schifezza. Questo prendere-forma accade, viene da sé, va sans dire. Io sono una persona che ha opinioni e cerca di farle valere, che si schiera, che milita (la militanza è la vita degli uomini sulla Terra e in orbita, Juri Gagarin era un militante, John Glenn era un militante etc.). Le cose che scrivo si nutrono di questa mia attitudine, ne traggono linfa (o liquame, direbbe un fascista). Wu Ming è anche un gruppo politico, non solo per le campagne a cui prendiamo parte, ma perché - come scrivemmo nella vecchia dichiarazione d'intenti - "Chi crea non può in alcun modo astrarsi, evitare di intervenire. Scrivere è già produzione, narrare è già politica. C'è chi lo capisce, poi c'è la legione dei reazionari, consapevoli o meno". Wu Ming è politico perché sa che si scrive sempre per gli altri. Non fidatevi di chi afferma: "Scrivo solo per me stesso". Se uno scrive, lo fa perché vuole/si aspetta/spera/non esclude che qualcun altro legga. Scrivere è già intervento civile, e questo vale per chiunque lo faccia.



8. Chi è Sonia Langmut che stava dalla parte dei leaders della protesta, la cui più fedele e semplice arma (di denuncia, di critica) era un registratore a bobine di fabbricazione tedesca?

Sonia Langmut c'est moi, verrebbe da dire. Ma è più complicato di così. Me ne sono accorto scrivendo, verso la fine della penultima stesura: Sonia è la memoria degli anni Sessanta americani, e più in generale dei movimenti radicali americani del XX° secolo. Quando Valerio Evangelisti ha letto New Thing, stava per uscire Noi saremo tutto. E' rimasto a dir poco turbato dal fatto che, senza mai parlarci dei rispettivi libri, avevamo parlato delle stesse cose! Diverse le epoche, diverso il taglio, diversa la tecnica narrativa, ma in entrambi i casi si racconta la guerra sporca del governo USA contro i movimenti, dagli anni Venti al nostro presente, passando per gli anni Settanta. Tra un libro e l'altro sono possibili innumerevoli rimandi e rimbalzi. In entrambi i casi, poi, si racconta della memoria di quelle stagioni, di quei cicli di lotte. Memoria rimossa, mistificata, rimontata come fosse una puntata di blob... Infine, in entrambi i casi si racconta l'America ma si parla di noi qui e ora, delle nostre guerre sporche, dei nostri movimenti, della nostra memoria delle lotte. Sonia è tutti noi, quindi. E infatti Sonia è l'Europa: figlia di socialisti tedeschi in fuga dal Terzo Reich, cita autori europei (tra cui Marx), ha un rapporto simbiotico con un registratore di marca europea, un Butoba MT5... Sonia Langmut c'est nous.



9. A quali dischi, a quali saggi, a quali letture ti sei ispirato per poter scrivere “New Thing”? Ci sono stati dei dischi o dei libri che ti hanno aiutato, che ti hanno illuminato per portare a termine il tuo lavoro?

Per scrivere New Thing ho letto decine e decine di saggi e centinaia di articoli, raccattato remote annate di riviste jazz, ascoltato centinaia di album, scaricato migliaia di file audio (non soltanto musicali, anzi, quasi tutti di spoken word: Malcolm X, Martin Luther King, Eldridge Cleaver, Richard Pryor, Eddie Murphy, Chris Rock... Ho cercato di dare una vaga idea di quel percorso nei "Titoli di coda" del libro (+ bibliografia). Sicuramente, un libro che invito a leggere (purtroppo non è stato tradotto in italiano, e forse non verrà mai tradotto) è Ready For Revolution, la monumentale autobiografia di Kwame Ture a.k.a. Stokely Carmichael, pubblicato cinque anni dopo la sua morte grazie al durissimo lavoro del suo amico Ekweme Michael Thelwell. Una cosa che invito a fare è ascoltare i discorsi di Malcolm X, il migliore oratore di un secolo che ne ha avuti di davvero notevoli. Digitando "Malcolm X mp3" su google, escono un po' di siti da cui è possibile scaricare quei file.

I dischi: ho già nominato The Olatunji Concert. Compratelo, o copiatelo. Prima di decidere se vi piace o no, ascoltatelo almeno tre volte. La prima, come semplice sottofondo mentre fate altro (non è adattissimo per il sesso). La seconda, con attenzione, dalle casse dello stereo o del computer. La terza, ascoltatelo in cuffia, camminando per le strade della vostra città. Fate in modo di essere in un luogo elevato, con vista panoramica, durante l'assolo di basso di Jimmy Garrison che apre My Favorite Things. Se vivete a Torino, la Mole è perfetta. Se vivete a Bologna, salite sulla Torre degli Asinelli (ma solo se vi siete già laureati, chi è iscritto alla Dotta sa di cosa parlo).



10. Rispetto a “54” e a “Q”, che sono il lavoro di più menti, “New Thing” è un lavoro solista: è più facile scrivere come collettivo o facendo affidamento solo sulle proprie forze, capacità, idee?


E' senz'altro più facile scrivere insieme, perché c'è la verifica e l'editing in tempo reale di tutto quel che si scrive, c'è meno spazio per i dubbi angoscianti, i tormenti, le paranoie, e si scongiura il "blocco dello scrittore" (quello che tu non hai mai, sei un po' il Lovecraft o l'Edgar Wallace della blogosfera italiana :-)). E' improbabile che cinque scrittori vadano in crisi tutti assieme, c'è sempre chi continua a tirare la carretta aspettando che chi è bloccato riesca a ripartire. Il lavoro non conosce interruzioni, il brainstorming e la ricerca sono incessanti, i compiti vengono divisi equamente, si lavora in armonia, ci si aiuta, volano critiche, suggerimenti, la riscrittura di ciò che non convince avviene senza intoppi, è un grande gioco di ruolo, i nostri personaggi sono seduti intorno al tavolo con noi, è un'assemblea convocata al di sopra di epoche e luoghi, un fenomeno medianico. Scrivendo da soli, tutto questo viene a mancare. Scrivere da soli è come "sentire le voci" dentro la testa (Wu Ming Uno! / La senti questa voce? Vaf-fan-culo!"), è un roveto irto di dubbi acuminati, tutto si fa più arduo. Va però detto che anche i romanzi solisti - seppure in minor misura - si avvalgono dei consigli e della collaborazione dell'intero collettivo. Ad esempio, un'intera sottotrama di New Thing è frutto di un'improvvisazione a due, io e WM5 un mercoledì sera, in un locale che oggi non esiste più. Le stesure provvisorie di Havana Glam, Guerra agli Umani, New Thing e dell'imminente Free Karma Food (uscirà per Rizzoli nel marzo 2006) sono state lette da tutti i Wu Ming, che hanno indicato pregi e difetti, suggerito modifiche ecc. La differenza cruciale tra romanzi collettivi e romanzi solisti non sta nel numero di mani intervenute, ma proprio nella natura dei progetti. Mi è molto piaciuta la definizione data da un lettore su IBS: "versioni beta, momenti in cui si azzardano sperimentazioni utili o meno per il futuro". E' esattamente questo il punto: i romanzi solisti vanno in avanscoperta, battono piste che in seguito percorrerà l'intero collettivo (forse, dipende).



11. Una domanda atipica, almeno per me, perché è la prima volta che la presento a qualcuno: Wu Ming 1 (Roberto Bui) come, con quali parole, recensirebbe “New Thing”? Sì, ti sto chiedendo di autorecensirti, possibilmente senza avarizia di autocritica, di parole.

Rispondo con entusiasmo segnalando che in rete, grazie al blogger Lorenzo Cassata di Salgalaluna, esiste già da un po' un generatore automatico di stroncature di New Thing! Basta cliccare qui: http://salgalaluna.clarence.com/permalink/178570.html. Alcuni esempi?

Ho letto il romanzo di Wu Ming1, New Thing: qualcosa tra Quanti anni hai? di Vasco (strafottente), l'ultimo di Oriana Fallaci (dice tutto e il contrario di tutto) , con una punta di Superman (la forza della giustizia) e un cucchiaino di snobismo (vi parlo di modernariato: so pure che cos'è un Butoba!). Intollerabile.

Ho letto il romanzo di Wu Ming1, New Thing: qualcosa tra la musica di Iva Zanicchi (allegra ma sempre uguale), Fahrenheit 9/11 di Michael Moore (paranoico), con una punta di Carlo Azeglio Ciampi (mucchi di retorica) e un cucchiaino di sono uno storico (e vi sciorino le date). Anacronistico.

Ho letto il romanzo di Wu Ming1, New Thing: qualcosa tra Mistero Buffo (è quasi un monologo teatrale a più voci), un trattato di anatomia (sviscera piano piano), con una punta di Susanna Tamaro (nel personaggio di John Coltrane) e un cucchiaino di edonismo reaganiano (lo stile dagospia insegna). Stramaledettamente stupido.



12. Si sta facendo un gran parlare intorno al ruolo della letteratura, intorno a quello della narrativa. La mia domanda è dunque questa: la tua idea di letteratura? e quella di narrativa? sei dell’opinione che letteratura e narrativa siano un tutt’uno?

E' un dibattito che non mi appassiona, anzi mi annoia, e lo trovo anche inutile, se non nocivo. A me non dà niente, credo che nemmeno ai lettori dia alcunché, non cambia le carte in tavola né usa quelle che ci sono per portare avanti la partita, non scommette su alcun esito praticabile e quando lo fa perde (e non paga il debito!). Tutto questo strepitare alla Restaurazione, per esempio. Anzi: alla Restaurazziune (cfr. VMO). Mi sembra uno stracco espediente per attirare l'attenzione e conquistarsi - sgomitando come per salire sull'ultimo treno - una nicchia di mercato, lo stesso mercato che a parole viene snobbato. Troppo comodo fare gli apocalittici dalle colonne dei rotocalchi, in articoli insadwichati tra pubblicità di gadget e telefonini. Troppo comodo fare gli apocalittici in conferenze a pagamento nel contesto di kermesses letterarie ormai ridotte a fabbriche di autografi. Davvero ipocrita parlare di "restaurazziuni" ex cathedra (letteralmente), dentro il mostruoso universo tardo-feudale dell'università, luogo di privilegi intollerabili e precarietà senza futuro, trita-anime che porta ad anoressie e suicidi ed è molto più alienante e falso del più scrauso reality show o comparsata televisiva di un autore di best-seller. E tutto questo auspicarsi - da parte di schiere di zombies accademici - la "morte della letteratura", fingendo però di rammaricarsene... Questo enorme e al contempo patetico tentativo di portare sfiga al proprio prossimo, questo inequivocabile disprezzo per il divenire, identificato tout court con la decadenza... Posso solo augurarmi che la pratica reale della lingua e del racconto, quel racconto incessante che è la vita nella comunità umana, spazzi via tutti questi parassiti.



13. La critica è morta nel 1975; no, la critica è viva…: quanto c’è di vero, se del vero c’è? Chi oggi, a tuo giudizio, sta portando avanti un discorso realmente critico: perché? Chi invece sta affossando la critica: perché?


Vedi, di questo dibattito mi frega ancor meno che dell'altro, non sono l'interlocutore giusto per conversare di fine della critica, trahison des clercs etc. "Tradimento" rispetto a quali promesse, poi? Io, come cittadino della repubblica dei lettori, non ricordo di aver mai votato alle elezioni della critica, non ho mai appoggiato candidature a qualche parlamento o consiglio, ragion per cui non pretendo il rispetto di alcun "vincolo di mandato", i critici facciano quello che vogliono, se nessuno si illude sul loro ruolo non ci saranno aspettative da tradire, e forse ne verrà fuori qualcosa di buono, ogni tanto. Non raccolgo firme per revocare deleghe, perché non ne ho mai date, se fanno cazzate le fanno "Not in my name", per cui non mi sento tradito. Non mi faccio coinvolgere in lotte di fazione inter-castali, alterchi fra mediatori spacciati per rivolte antiautoritarie. La mia vita e i miei consumi culturali si svolgono altrove, felicemente, proficuamente.
Sono abituato a muovermi in territori non ancora (o non più) cartografati, seguendo "vie dei canti" lontane dai tracciati, pianure a perdita d'occhio, ogni dettaglio è una sagoma nitida, è scolpito nel paesaggio, anche i massicci lontani che zavorrano l'orizzonte, là in fondo... Saranno almeno cinquanta chilometri, giorni di cammino, eppure vedi ogni cresta, ogni anfratto, ogni buco, come fosse la faccia della luna. Vedi il profilo di un alberello, sottile come un pelo di mosca, interrompere il profilo di un monte. Nel mezzo di quelle praterie e savane, tra le dune di quei deserti, sul limitare di quelle foreste, abbiamo incrociato viandanti, pellegrini che avevano perso la strada, eremiti, viaggiatori accampati nel nulla in attesa del passaggio di una celebre cometa (come Jünger in Australia)... Nessuno ci si è mai presentato come un "critico".
Certo, a volte tocca occuparsene, di alcuni critici. Tocca per forza dire qualcosa. Ma è legittima difesa. Certe prese di posizione sono aggressioni alla comunità aperta dei racconti, servono a mettere bandierine su alcune tematiche, per "privatizzarle" e mettere i cartelli "NO TRESPASSING", "KEEP OUT!", come di fronte al deposito di Paperone. Ancora, il "nientismo" di cui parlavamo poco fa: di fronte a una simile mancanza di rispetto per il lavoro di tante persone, occorrono nervi di pietra per non reagire con un salutare VAFFANCULO! Anzi, se mi permetti, vorrei approfittare di questa intervista per salvare dal semi-oblio alcune considerazioni che regalai in forma di commenti al blog Lipperatura, qualche mese fa:


Quando Consolo esordì in letteratura, sicuramente c'era qualcuno che si lamentava perché non c'erano più gli scrittori di una volta. Certi discorsi si facevano uguali identici quando Consolo era ancora nella pancia della mamma.
Certi discorsi si facevano uguali identici quando il nonno di Citati era in fasce. Certi discorsi si facevano uguali identici mille anni prima che Luperini occupasse la sua cattedra. Si sono sempre rivelati falsi e campati in aria, ma è una pratica inestirpabile, ha a che fare col desiderio inconscio e irrealizzabile di andarsene sapendo che non ci si perde nulla di interessante. Ha a che fare con la presunzione di aver vissuto il periodo più fecondo della storia della cultura et après nous le déluge! A pensarci, è un atteggiamento irresponsabile: noi presto tireremo le cuoia, di quelli come noi si è perso lo stampo, la nostra generazione era la migliore, a voi che venite dopo lasciamo solo macerie, e mo' so cazzi vostri. Irresponsabile, e sconfittista. Ragionamento da falliti: se NOI abbiamo appena cominciato e già ci sono solo macerie (cosa non vera, ma facciamo finta di sì), vuol dire che VOI, voi che c'eravate da prima, avete distrutto tutto. Chi rompe paga e i cocci sono suoi, non di altri. VOI Citati, voi Luperini, dovreste pagare per questa rovina, non noi. Ma viviamo in tempi di scaricabarile...
[Sono] affari (e gusti, e scazzi) di Citati e Luperini. Tuttavia, diventano anche affari *nostri* (e qui intendo: di noi lettori, tralasciando il mestiere che faccio) quando Lorsignori, imbellettano i propri gusti (e rimpianti, e livori, e coccoloni) e approfittano del loro favellare ex cathedra (cathedrae pagate coi nostri soldi, if I'm not wrong), presentandosi come latori di constatazioni oggettive, alta teoria, enlightenment, non-può-che-essere-così. [...] Suvvia, è roba stagnante, è sempre la stessa melma. Oggi non ci son più Pasolini e Calvino. Ai tempi di Pasolini e Calvino non c'era più qualcun altro. Ogni generazione di autori ha dovuto sfondare muraglie umane di menagrami che dicevano: "Vedrete, fra trent'anni non se ne parlerà più, di questi qui". Risalendo la china, arriveremo al quadri-quadri-quadri-quadri-quadrisavolo di Luperini, il quale, verso la fine del neolitico, si lamentò della nuova generazione di sciamannati sciamani, o tempora! La storia della letteratura e delle arti è stracolma di giudizi sbagliati, inutilmente impazienti, intempestivi, apocalittici, ridicoli. Di Kerouac si disse che il suo non era scrivere, bensì mero "battere a macchina" e che presto di lui non si sarebbe più parlato. Celeberrimo il giudizio su un Fred Astaire a inizio carriera dato da un direttore di casting: "Slightly bald. Can't sing. Can dance a little". I critici "seri" dissero che i Beatles non avevano futuro.
[...] Parafrasando Proietti sulla nave da crociera: a te ti spiaciue, a me ME PIACE! Lamentatevi, lamentatevi, qualcosa resterà (ma non di vostro). Prot!




14. Quali i tuoi progetti per il futuro? E quelli del collettivo Wu Ming? Qualche anticipazione, se puoi e se vuoi.

Dalla primavera 2004 stiamo lavorando al nuovo romanzo collettivo, che consegneremo all'editore nel gennaio 2007. E' il nostro progetto più ambizioso, si svolge negli anni Settanta... del diciottesimo secolo, durante la guerra di indipendenza americana, su entrambe le sponde dell'Atlantico. Siamo completamente immersi in questo lavoro, sui fondali della storia imperiale con scafandri da palombari, ma non posso dirti molto più di questo. Nel 2006 uscirà l'ultimo romanzo "solista" di questa fase, Free Karma Food di WM5. Io, personalmente, sto curando una compilation di free jazz degli anni Sessanta, tutto materiale selezionato dal catalogo ESP, sto scegliendo i brani e la scaletta, e sto scrivendo il testo del booklet. Dovrebbe uscire come doppio cd all'inizio del 2006.



Grazie infinite, Wu Ming 1 (Roberto Bui). A Te, un forte abbraccio d’amicizia, di stima, con piena sincerità.

De nada, de nada....






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