un racconto di Giuseppe Iannozzi
Lo incontrai che era già stanco. Andrea trascinava il corpo lungo via Roma,
lasciando di sé un esile riflesso sugli specchi delle vetrine, tenendo lo
sguardo fisso a terra. Era cambiato, colpa della malattia, ma il passo era
quello che sapevo, di Andrea. Gli tesi la mano, lui la prese nella sua ma
senz’alzare lo sguardo su di me.
Biasciò due parole: “Sono malato.”
“Sì, lo so.” Tossii. Gli lasciai cadere la mano nel vuoto.
A quel tempo fumavo ancora, oggi non più: accesi una Camel e ne respirai due
boccate.
“Ti accompagno.”
Tenendo lo sguardo basso: “Nessuno te lo impedisce.”
Gli sorrisi, ma lui niente, allora buttai la sigaretta in mezzo ai suoi passi:
la pestai proprio sotto ai suoi occhi fino a spegnerla.
Andrea scosse il capo né divertito né offeso.
“Quanto ancora?”
“Quanto Dio vorrà. E’ pazzo, lo sai.”
“Sì, è un luogo comune.”
”Come la mia data di scadenza.”
Eravamo in Piazza Castello, fermi al semaforo. “C’è sempre tutto questo cazzo di
traffico…”, osservò Andrea, ma gli occhi continuava a tenerli bassi. “Preferisco
quando piove e si sente il rumore delle auto, delle gomme sull’acqua. Mi piace
il rumore della pioggia, quello delle pozzanghere stuprate dai passi dei pedoni,
dalle gomme delle motociclette impazzite.”
“Attraversiamo.”
”No. Non ce n’è motivo.” E così dicendo si portò lontano dal semaforo dandomi le
spalle.
Feci spallucce. Eravamo seduti su una panchina: Andrea smozzicava con le dita
un mezzo panino vecchio e duro, e gettava le molliche ai piccioni ai nostri
piedi.
“Te la ricordi, la poesia?”
Andrea sbuffò in maniera impercettibile, tentò un sorriso, rimase in silenzio.
“Te la ricordi, come la scrivevi bene?”, insistetti.
“Eri il solo a pensarlo.” Ma nel tono della sua voce rancore: “Eri il solo. Per
questo ti ho voluto bene. Ma ti ho anche odiato, soprattutto.”
”Capisco.”
Rimanemmo in silenzio. Lo osservai sbriciolare il panino: era ancora Andrea, un
Andrea di pelle e ossa.
“La vita, un mazzo di fiori legato a un semaforo da tutti dimenticato. Sono
caduto in ginocchio per baciare con la faccia la fredda terra, sono caduto, ma
per fortuna non mi sono fatto niente. Poi ho cercato mio padre nei corridoi
dell’obitorio, ho respirato a pieni polmoni il puzzo della merda di Minosse, ho
fischiettato una canzone per dimenticare la putrefazione.” Una pausa. “Adesso
sbriciolo pane secco per i piccioni, perché la morte è un luogo comune.”
“Una poesia?”
”No. Non ne sono capace. Ti ho odiato perché hai creduto in me.”
Sospirai. Trassi di tasca le sigarette e me ne cacciai una in bocca, poi ne
offrii una ad Andrea. “No, grazie.”
“Tanto…!”
“Non ho mai imparato a fumare.”
“Fai sempre in tempo. A questo punto!”
“Io illudevo poesia, capisci? Capisci? Sì, tu capisci.” Con la mano allontanò la
mia che teneva le sigarette: “Non ho tempo per imparare questa cosa nuova. E’
che non ho voglia d’imparare, è più giusto dire così, sa meno di scusa.”
Non insistetti. “Scusa.”
”’Fanculo! Ti ho odiato anche per questo tuo vizio di chiedere scusa per ogni
cazzata. Avrei dovuto imparare a fumare a tempo debito, tutto qui.”
Mi trovai in imbarazzo.
“Quanto ancora?”
”Finché resisto esisto, poi la fine.” Alzò lo sguardo sul mio in una finta, il
tempo di un momento: poi la testa la buttò subito giù fortemente, quasi volesse
arrivare con la bocca a baciarsi il petto di costole.
“Andiamo via.”
Andrea non disse un solo ma, si limitò a scomparire dentro sé stesso. Si alzò
stancamente dalla panchina, trascinò il passo in mezzo ai piccioni che subito
presero il volo e si portò avanti a me.
Dopo dieci minuti che camminavamo in silenzio disse: “Dovevamo restare seduti,
per palare.”
“Possiamo farlo anche camminando.”
”Sono stanco.”
Arrossii.
“Ma non è importante. Però si stava quasi bene su quella panchina di fronte a
Porta Nuova.”
”Abbiamo camminato molto, da Piazza Castello fino a Porta Nuova. E adesso di
nuovo verso la piazza…”
”’Fanculo! Non le voglio le tue cazzo di scuse.”
“’Fanculo a te.”
Restammo in silenzio, io divorato dal rancore perché Andrea sarebbe morto di lì
a poco, lui perché ce l’aveva su con me e basta.
“Pavese è morto nei pressi di Porta Nuova, in un alberghetto squallido, da
quattro soldi. Ed era famoso.”, buttò lì, all’improvviso. Feci finta di non
averlo sentito, ma Andrea continuò: “Il mestiere di vivere è essere nessuno. Sì,
proprio nessuno.”
“Che te ne frega? stai morendo, che te ne frega?”, gli urlai ma senza guardarlo
neanche distrattamente con la coda dell’occhio. E lui se ne accorse, in un modo
o nell’altro si offese d’esser stato preso alla lettera così presto.
“Cazzo, guardami quando ti parlo?”
E lo guardai. E aveva gli occhi nei miei: mi fissava nelle palle degli occhi per
scavarmi dentro, nell’anima. Involontariamente, abbassai lo sguardo: “Tu
scrivevi delle poesie. Già! Delle poesie belle. Molto. Poi hai smesso.”
”La leucemia, forse. Il male consuma il corpo, affinché il corpo scorpori
l’anima e il sangue tutto.” Sorrise. No, non sorrise, fu solo una mia illusione.
Però aggiunse: “Piacevano a te, solo a te. ‘Fanculo! Scucimi una sigaretta…”
Gliene allungai una. La prese fra le dita sottili: era la prima per lui, la
prima della sua vita. Gliela accessi. Non un colpo di tosse: Andrea era nato
imparato, o più semplicemente era vittima di un miracolo demoniaco.
Andrea si teneva accanto a me, al mio fianco: “Tutte le ragazze che ho amato…
sposate. Io cercavo Dio…” Gettò via il mozzicone che andò a incastrarsi fra i
suoi passi.
Scavai nel pacchetto: niente, le sigarette le avevo finite tutte.