La critica della fantascienza negli anni '80
Data: Lunedì 11 settembre 2006 Argomento: Saggistica
di JONATHAN BENISON
I dati completi delle opere contrassegnate con un asterisco sono forniti nella Bibliografia Selettiva in appendice.
"... A "lightweight" definition: Science fiction is that particular subject which triggers the irrepressible need for complex, contradictory and useless definitions". (J .G. Ballard in L'effet science-fiction: à; la recherche d'une définition, 1979)
La mia impressione, esaminando alcuni recenti contributi in inglese sulla "teorizzazione" della fantascienza, è che ci troviamo di fronte a quella che si potrebbe definire una "sindrome di Loch Ness", dove "abbiamo a che fare con una pluralità; di 'mostri' differenti ciascuno corrispondente a un caratteristico approccio culturale alla questione"(1). Questa situazione, in cui si assiste alla costruzione di varie versioni di SF più o meno rigorosamente definite, grazie alla forza ed alla persistenza di ciascuno dei numerosi metodi critici applicati a possibili materiali, è bene illustrata nella breve guida di Patrick Parrinder, Science Fiction: Its Criticism and Teaching. * Parrinder inizia offrendo un resoconto equilibrato dei numerosi tentativi di catturare il mostro in una singola definizione e prosegue, in un importante capitolo su "The Sociology of Genre", osservando "se noi vogliamo capire questo genere, dobbiamo considerarlo non come 'sottoletteratura' formulaica, ma come un modo autonomo di scrivere con una sua storia e con tradizioni diversificate rispetto alle forme letterarie dominanti, che hanno cercato di sopprimerle parzialmente"(2). Parrinder illustra come dalle dimensioni della SF come romance, come favola o come epica si giunga, attraverso un processo di domesticazione, riflesso in testi paradigmatici, rispettivamente alla fantasia, alla narrativa utopica, e alla storia del futuro, ma evita di propendere per l'una o l'altra di queste soluzioni, ampliando invece la discussione con un'utilissima analisi del "linguaggio della SF", che ovviamente è per definizione sempre aperto a possibili ricombinazioni.
Se questo indica la varietà; di interessi della critica di fantascienza, dalle questioni relative all'inscindibilità; del genere dai processi storici rispetto ai quali esso stabilisce la propria posizione, attraverso le tradizioni e le convenzioni che definiscono il suo ruolo e la sua identità; fino alle strategie narrative nelle quali può continuamente ricomporsi, bisogna dire che dal 1979 in poi non si è registrato alcun tentativo di giungere ad una sintesi di questi problemi. Il libro di Parrinder, che trae ampia ispirazione dall'opera di Darko Suvin, è in realtà; una rassegna dei risultati degli anni '70, quando sembrava che molti critici guardassero con fiducia a una tale sintesi, e registra gli ostacoli o addirittura l'impasse di quella fase(3). La presente bibliografia illustra quelle che ritengo siano le principali tendenze della critica di fantascienza in lingua inglese emerse dopo quel periodo, attraverso una rassegna commentata dei contributi più rilevanti sulla teoria delle SF (entro i limiti del dibattito sopraccennato). Tranne un paio di eccezioni, mi limiterò a considerare le opere in volume, comprese le raccolte di saggi; ciò non significa che non vi siano stati contributi significativi apparsi su rivista, ma intendo solo fissare i limiti di questa rassegna(4).
Sebbene ci sia ben poco da rilevare in termini di innovazione critica nel panorama degli anni '80, c'è stata certamente un'abbondante produzione di testi in inglese. Si ha l'impressione di assistere ad una fase di consolidamento, con la pubblicazione di numerose monografie su vari autori di SF e studi di particolari temi o settori - per esempio, i rapporti tra SF e linguistica(5). Inoltre, sono ora disponibili numerose opere di consultazione, piuttosto costose ma estremamente utili, in grado di offrire un panorama esauriente su opere ed autori di FS(6). Un altro settore di grande vitalità; è quello delle raccolte e delle guide introduttive, destinate principalmente a studenti di corsi di SF presso università; e college(7). Tutti i testi finora citati, a rigore di termini, esulano dai confini di quest'articolo ma, insieme ad altri importanti contributi sulla teoria della SF che purtroppo non ho potuto esaminare, sono stati in genere recensiti in almeno una delle principali riviste critiche di SF in lingua inglese (s).
Vorrei iniziare con la critica americana, e in particolare con gli stili del discorso critico "mainstream" rappresentati nei cinque volumi di saggi apparsi nella collana "Alternatives" della Southern Illinois University Press. La prima di queste raccolte, Bridges to Science Fiction", contiene numerosi saggi relativi allo statuto della SF come genere, tra i quali i più interessanti sono forse il contributo di Patrick Parrinder sulla FS come "truncated epic" (apparso inoltre in Parrinder, 1980*) e quello di CarI D. Malmgren su Philip K. Dick's "Man in the High Castle and the Nature of Science-Fictional Worlds". Malmgren usa il romanzo di Dick per un'analisi che mira a distinguere con maggiore accuratezza le "trasformazione" o "discontinuità;" tra il nostro "mondo narrativo fondamentale" e i mondi delle narrazioni fantascientifiche. Egli sottolinea che "le componenti di ogni mondo sono tre: attanti, topoi, il sistema implicito di leggi naturali" e sostiene che "un mondo fantascientifico può essere creato trasformando o inserendo un elemento alieno in ognuna di queste componenti" (p. 129). È un articolo piuttosto indicativo, nella misura in cui si limita più che altro a illustrare e parzialmente ad elaborare, con l'ausilio (8) di una nuova terminologia, le ben note teorie di Suvin, Delany, Scholes e Rabkin a cui fa riferimento. Anche per quanto riguarda il saggio di Gerald Prince in Coordinates (Slusser et al. eds., 1983*), le "coordinate" proposte appaiono di grande utilità; ma, senza una più ampia dimostrazione del modo in cui esse si articolano in testi specifici, difficilmente si può ricavare un'impressione più duratura se non quella dell'ingenuità; del critico. È altresì degna di nota, sotto quest'aspetto, la dipendenza dal concetto di "trasformazione"(9): molti di questi articoli si fondano su categorie ("metafora", "mito", e perfino "scienza", per fare alcuni esempi), che vengono introdotte senza alcuna definizione, con il presupposto che esse siano operative in quanto unità;; ne deriva così un tale accumulo di significati potenziali che, naturalmente, le rende adattabili a qualunque necessità;.
Mentre la critica degli anni '70 era spesso preparata a misurarsi con le complessità; delle opere di SF, nel tentativo di affrontare lo spinoso problema del "contenuto" e di tener conto di tutti i fattori operanti come restrizioni nella produzione dei testi, da questa collana si ricava l'impressione di assistere alla nascita di un "mercato editoriale" dove la disponibilità; di saggi sulla SF non è più un problema ed il ruolo del critico è semplicemente quello di offrire una serie di cataloghi o di sistematizzare possibili strategie di lettura. Di qui, l'uso feticistico delle categorie ed il tono del tutto acritico di un saggio come quello di Gary K. Wolfe, "Autoplastic Adaptation in Science Fiction: "Waldo" and "Desertion", che appare in Coordinates, (Slusser et Al. eds.*), ed è assai tipico da questo punto di vista. È davvero utile un catalogo che illustri "il modo in cui la fantascienza cerca di risolvere l'opposizione tra l'io e l'ambiente" a seconda che questi tentativi si compiano attraverso la manipolazione dell'individuo o dell'ambiente - specialmente quando lo stesso Wolfe non ci rivela il segreto su come differenziare le due cose? È un peccato che tocchi a un critico tradizionale ed individualista come Leslie Fiedler ("The Criticism of Science Fiction", nello stesso volume) il compito di attaccare questo tipo di esercitazione, anche se questo indica almeno la varietà; dei contributi presenti in quello che rimane, a mio giudizio, il miglior volume della collana. Vorrei inoltre citare, comunque, la riconsiderazione di Triton di Delany da parte di Michelle Massé, e l'eccellente articolo di H. Bruce Franklin "American Science Fiction: 1939" (che esamina quell'annata di Astounding nel contesto del clima economico e delle attese da esso suscitate, quali si riflettono nelle futuristiche esposizioni internazionali dell'epoca), nonché l'analisi di Gerald Prince sulle restrizioni del concetto di novità; nella SF, "How New Is New?", tutti compresi in Coordinates*. Indispensabile per chi si interessa a quel sotto-genere della SF relativo alla distruzione e ricreazione del mondo è The End of the World, (eds. Rabkin et al. *), in particolare lo schematizzante saggio di Gary K. Wolfe, "The Remaking of Zero: Beginning at the End", e per la storia della narrativa catastrofica gli affascinanti saggi di W. Warren Wagar e Brian Stableford. Tutti i volumi della collana, per inciso, comprendono un utile apparato di note, bibliografie e un indice.
Non sorprende affatto, visto che l'autore è uno dei curatori della collana "Alternatives", che il libro di Mark Rose, Alien Encounters*, costituisca un eccellente tentativo di estendere quel tipo di attività; categorizzante che contraddistingue la collana. Il primo capitolo, sul genere, sembra proporre qualcosa di diverso:
lnstead of thinking of science fiction as a thing, a kind of object to be described, it is perhaps more useful to think of it as a tradition, a developing complex of themes, attitudes, and formal strategies that, taken together, constitute a generaI set of expectations. (p. 4)
Sarebbe forse stato più opportuno usare "rigoroso" o "accurato" invece di "utile", poiché il problema è che in primo tempo, quando il futuro "genere" è ancora in fase di sviluppo, non si possiede ancora un oggetto di studio (ma solo il "complex" indicato da Rose, e che dovrebbe includere molti altri fattori recuperati tra i residui della storia), mentre in seguito, quando "esso" diventa autoconsapevole, subisce una mutazione che Rose descrive come "la trasformazione del campo generico in metafora"(p.7), dove ogni impiego di un evidente motivo SF si segnala in quanto tale. Questo può spiegare perché Rose si rivolga piuttosto all'euristica di quello che viene definito il "paradigma" dei testi di SF, segnatamente "lo spazio semantico creato dall'opposizione tra l'umano e il non-umano" (pp. 31-32), un aspetto, sostiene l'autore, che "a un più alto livello di astrazione" si può vedere proiettato attraverso quattro "categorie correlate logicamente" che sono state definite come "spazio, tempo macchina e mostro". Quasi a dispetto di questo reificante apparato concettuale, il libro di Rose contiene illuminanti discussioni di vari testi (di Wells, Verne, Lem - ancora Solaris!(10), Dick, Ballard, Asimov, Kubrick, Clarke e Zamiatin) e molte importanti formulazioni.
A proposito dell'interesse per il non-umano, Rose sostiene che la SF ha molto in comune con il movimento romantico e che "nella sua forma letteraria la fantascienza può essere compresa come una dislocazione del romance", mentre "nei contenuti essa può essere compresa come una dislocazione della religione"(p.40). A sua volta, questo fatto può essere posto in relazione con una "contraddizione nel cuore della fantascienza" che potrebbe essere all'origine della forza del genere: è la "incompatibilità; irrisolvibile tra l'ideologia materialistica della fantascienza e la sua condizione di forma del romance che si occupa di materiali essenzialmente religiosi e che si affida a una visione del mondo in quanto conflitto tra una magia buona e una magia cattiva"(p.44). In un simile approccio da "storia delle idee" è piuttosto facile parlare in questo senso di una circoscritta "incombatibility", senza minimamente considerare la presenza di forme parallele di "contradiction" nella società; che ha prodotto quelle opere. È inoltre possibile, e plausibile come può esserlo un discorso circolare, "dedurre" quindi che la "principale funzione culturale" della SF (ed in un universo positivistico tutto ha una funzione...) è "quella di produrre narrative che mediano tra visione del mondo spiritualistiche e materialistiche"(p.45). Riferendosi alla visione di Wordsworth sul futuro ruolo del poeta nel familiarizzare il pubblico con le scoperte della scienza, nella "Prefazione" alle Lyrical Ballads (1802), ma isolandola dal contesto storico ed ignorando quanto in essa abbia giocato la proiezione del desiderio (e che a posteriori è fin troppo chiaramente un'ambizione sbagliata), Rose sembra voler trascurare la componente speculativa, di "esperimento mentale", della SF, assegnando le un ruolo decisamente troppo importante - il ruolo esercitato da forze storiche assai più grandi di una singola tradizione letteraria, il ruolo che è stato assunto dalle tecnologie e dai discorsi che ruotano intorno ad esse.
Un saggio che riprende la nozione di Umberto Eco di "spazio semantico", proponendone un diverso impiego, è quello di Teresa De Lauretis in De Lauretis, Huyssen and Woodward, eds., The Technological Imagination*. Oltre al contributo della De Lauretis, "Signs of Wa/onder", la terza sezione di questo volume contiene "Science Fiction and the Novum" di Suvin, già; noto ai lettori italiani attraverso La fantascienza e la critica, e "General Protocols: Science Fiction and Mundane" di Samuel R. Delany, una notevole sintesi delle sue teorie degli anni '70, già; apparsa in una versione pressoché identica in Analog, May 1979. La De Lauretis punta l'attenzione sul processo di lettura:
"In the best of SF, the reader's sense of wOnder a sawe, marvel, portent, revelation is replaced by a sense of wAndering through a mindscape both familiar and unfamiliar" (p. 165).
Ciò che distingue il suo punto di vista, tuttavia, è lo sforzo di sottolineare e valorizzare la "insistenza della SF sulla materialità; dell'ambiente fisico e tecnologico di un possibile mondo"(p.168), un orientamento che probabilmente sarà; sempre più congeniale ad una nuova generazione di critici "post-moderni" assai consapevoli di vivere in un paesaggio tecnologico, i quali si domandano se il "sign-work of SF, by re-literalizing language and giving it use-value, can oppose the entropy of social discourse and re-shape our semantic universe"(p.169). È un manifesto tempestivo che ancora attende una verifica.
Altri saggi critici americani meritano di essere ricordati, non solo per il rilevante contributo a vari settori specifici, ma anche per quello più generale relativo alla teorizzazione della SF. Un'area di costante interesse riguarda l'aspetto filosofico della SF, negli esempi forniti dalla rivista Philosophical Speculations in Science Fiction and Fantasy(11), pubblicata a partire dal 1981, e dalla collezione di saggi curata da Robert Myers*. Quest'ultima comprende un'ottima bibliografia, molto utile per chi si interessa a quest'aspetto della SF, e di particolare rilievo è l'inclusione di titoli che riguardano i rapporti tra la filosofia della scienza e la SF, un settore che ritengo meriti un esame assai più accurato(12). Tutti i contributi di questo volume sono degni di rilievo, ma quelli più pertinenti alla teoria della SF sono "Nature through Science Fiction" di Frans van der Bogert, dove si sostiene che la SF "può essere caratterizzata come una letteratura della natura" in considerazione del fatto che "da scienza è lo studio del mondo naturale, e immaginare una scienza diversa vuoI dire immaginare una natura che è almeno conosciuta in modo diverso da quella che ci è familiare (p. 58); inoltre, Metaphor as a Way of Saying the Self in Science Fiction di Paul Rice(13); e soprattutto Toward a Technological Sublime di Bart Thurber (pp. 221-224)(14). Thurber inizia offrendo una breve storia del sublime nella letteratura e nel pensiero filosofico, ed avanza la tesi che, invece di scomparire o perdere di importanza con la fine del Gotico, esso apparve in modi nuovi e sorprendenti, soprattutto collegati alla scienza e alla tecnologia (p. 215). Quindi documenta questa asserzione con un esame del sublime nel 19° secolo, attraverso Frankenstein (1818), Carlyle e la relazione di Turner alla nuova locomotiva a vapore, e The Coming Race (1871) di Bulwer-Lytton, con il suo paesaggio subline di Vril-ya, in cui la macchina è impiegata in una misura inconcepibile - tutte opere in cui i collegamenti tra il sublime, la tecnologia delle macchine, e la scienza contemporanea sono espliciti (p. 219). Thurber illustra inoltre i modi più sottili in cui l'idea del sublime contribuisce allo sviluppo della fantascienza, segnatamente attraverso il racconto del mistero, esemplificato negli scritti di Edgar A. Poe, dove Dupin è l'unico capace di risolvere il mistero degli assassini della Rue Morgue poiché egli è un eroe/villain del romanzo gotico e, nello stesso tempo, un mago della scienza dell'induzione. Egli unisce i contrari e mostra così, non tanto che scienza e sublime sono imparentati, ma che lo sono il sublime e il metodo scientifico(p.220). Il saggio termina con una sguardo a Jules Verne, il quale, scrive Thurber, come i suoi contemporanei... era più interessato a vedere come agiva il sublime che nelle emozioni sublimi, un interesse che sarebbe rifluito nella fantascienza moderna:
"Verne, however, added something new. He assumed that his readers would find technological detail interesting, not because he was a bad writer, necessarily, but because in Verne science is not like the sublime, nor is it where the sublime is, it is assumed be sublime".
Da quel momento in poi "science could in any sense be fiction"(p.222). Questo insieme di attese sarebbe quindi alla radice di quella preoccupazione per il "technological detail", per le modalità; del movimento in uno spazio semantico saturato dalle tecnologie, che critici come la De Lauretis sono di nuovo pronti a evidenziare e a condividere. In ultima analisi, questa linea di pensiero tende a vedere la SF sempre più indistinguibile come "special genre" poiché "in un mondo in cui la scienza è così diffusa e importante" (così ossessivamente incarnata nella tecnologie), la SF, o qualche sua versione più ampia, è destinata a diventare "the mainstream...; questo avviene perché la SF è una nuova modalità; di consapevolezza, un nuovo mezzo integrato per osservare noi stessi nel contesto dell'universo, così come lo è un gruppo di testi letterari, di film, di opere televisive"(15). Oppure è soltanto l'ultimo terreno di esercitazione per i sogni utopici di un gruppo di critici americani che hanno dimenticato come identiche affermazioni fatte nell'euforia degli anni '60 da J.G. Ballard ed altri sono ora giustificate come eccessi giovanili?(16)
Il libro di Casey Fredericks rappresenta senz'altro un importante contributo agli studi su mito e SF (e fantasy), in quanto introduce una certa dose di rigore ed intelligenza in un campo che troppo frequentemente si riduce a formulazioni scontate. Rifacendosi all'opera di G.S. Kirk sul mito, Fredericks sottolinea che gli antropologi e i critici del mito "non presuppongono più un isomorfismo tra i miti e le menti che li hanno creati, dal momento che anche nello loro stesse culture i miti appaiono ora più 'straniati' dalle concezioni normali intorno alla realtà; di quanto si ritenesse in precedenza" (The Future of Eternity*,p.46). (L'autore aveva già; fornito un'accurata definizione del concetto di "straniamento", differenziandolo dalla "Verfremdung" di Brecht e dalla "decentration" di Piaget, suggerendo invece come in esso sia implicito "acquisizione di tutto un nuovo sistema di comprensione",p.38). Il fattore decisivo che emerge dal rapporto SF/mito è la tendenza verso l'ambiguità; e l'oscillazione tra "strutture di riferimento"; ci viene suggerito che i miti "multiformi, carichi di elementi dell'immaginazione e liberi nei loro dettagli" (p.43 - con riferimento all'opera di Kirk, The Nature of Greek Myths), diversamente dal pensiero "sistematico" che, afferma Fredericks, "in quello che noi di solito intendiamo con pensiero 'logico' o 'razionale'": con la dimensione mitica è possibile "(1) collegare elementi provenienti da sistemi straordinariamente diversi o (2) saltare praticamente a volontà; da un sistema a un altro sistema". Fredericks indaga con ottimi risultati nel territorio familiare delle caratteristiche SF quali l'"ambiguo potenziale della scienza"(p.6), "discontinuities" o inversioni di genere (p. 16), l'apocalisse (che implica sostanzialmente, come già; aveva sostenuto Ketterer, p. 21), la nozione di "vuoto ermetico" che risulta da "un'ambigua irrisolvibilità;"(p. 25) deliberatamente introdotta dall'autore, ed altro ancora; tutte argomentazioni che confortano le tesi avanzate in uno studio davvero intelligente e stimolante. Di particolare rilievo è l'opinione che "la SF moderna trascende - e quindi rifiuta - la frattura tra fantasia e cognizione, o tra i miti e la ragione, o tra l'immagine intuitiva e l'intelletto razionale"(p.176): questo indica l'orizzonte nel quale si proietta il libro. Èdunque in perfetta sintonia con quella che è stata battezzata "the new reason" la quale, come nel caso assai controverso del "pensiero debole", tende spesso a sostituirsi al superato concetto modernista del "myths of science"(p.172)(17). Infatti, secondo Fredericks la SF "propone tre miti speculativi dove la scienza creativa e la capacità; di mitizzazione sono reciprocamente complementari"(p.178). Si tratta in realtà; di tre relazioni assai vicine a quelle avanzate da Mark Rose, ma qui collocate nella cornice di speculazione erudita che caratterizza questo studio. Esse sono: il "man-superman encounter" (il riferimento è a Nietzsche); il "man-machine encounter" e lo "human-alien encounter" .
D'altro canto, credo sia corretto affermare che The Cybernetic Imagination in Science Fiction* di Patricia Warrick rappresenti una sforzo tardivo di vedere la SF in termini modernisti (di qui l'enfasi sulla nozione di "epiphany"), come risulta evidente nel capitolo "An Approach and an Aesthetic". Trovo che questo studio sia viziato dal ricorso a un modello essenzialmente goffo e superato che oppone ai valori "umanistici" la "conoscenza scientifica" (p. 234), e mi sembra inoltre eccessivo il rilievo dato all'idea di "mediation" ed al ruolo degli elementi "profeti ci" nella SF. Comunque, l'opera rileva un'ottima familiarità; con testi primari su robot, computer e simili (di cui viene fornita una bibliografia) offre un dettagliato resoconto di vari modelli sistematici, e comprende un eccellente capitolo sulla narrativa di Philip K. Dick: un libro molto utile che prende in esame un'ampia varietà; di testi. Nell'ambito dei temi trattati in questo articolo, vorrei citare l'analisi del R.U.R. di Karel Capek poiché, secondo la Warrick, quest'opera drammatizza la distinzione fra scienza e tecnologia; infatti, i robot protagonisti di un esperimento scientifico costituiscono una minaccia solo dopo la loro produzione di massa da parte di "un ingegnere che è anche un astuto capitalista, il cui obiettivo è di fornire mano d'opera a buon mercato; perciò egli semplifica i robot, eliminando in loro l'anima e le emozioni"(p.49). Nonostante l'accento sul motivo del profitto, l'uso disumanizzante della tecnologia e la subordinazione ad un imperativo produttivista, la Warrick riesce alla fine a porre il problema in termini di "theoretical knowledge" (p. 50); emerge qui con chiarezza la riduttività; di questo tipo di astrazione destoricizzata e dicotomizzante, così cara agli accademici americani.
Un altro titolo al quale vorrei accennare brevemente, ma solo per mancanza di spazio, è TerminaI Visions* di W. Warren Wagar. Il saggio si occupa di quella che l'autore definisce "speculative literature", ovvero "ogni opera narrativa... che si specializza in una speculazione plausibile sulla vita in circostanze mutate ma razionalmente concepibili, in un passato o in un presente o in un futuro alternativi. Quasi tutta la science fiction risponde a questa definizione. Anche molte opere del mainstream" (p. 9). Wagar offre un panorama storico di quella che egli definisce "l'eziologia della parola che annuncia l'apocalisse", nel tentativo di "far emergere i sintomi e le fonti dell'ansietà; moderna" per mezzo di una "stratigrafia della paura"(p. 66). È un progetto ambizioso. Wagar possiede una grande facilità; di scrittura, ma ritengo che in qualche caso sarebbe stato utile uno sforzo d'interpretazione dei materiali. Per esempio, durante la discussione delle "sessanta storie abbondanti scritte dopo il 1945 e riguardanti una guerra futura che vengono esaminate" gli osserva che "la proporzione delle storie sulla guerra futura nella letteratura della Fine (literature of Last Things) si riduce progressivamente dopo gli anni' 60"(p.126). Un'osservazione affascinante, a mio giudizio, e tipica del genere di affermazione che Wagar riesce continuamente a portare alla luce - ma l'autore si ferma alla semplice constatazione, senza alcun tentativo di dame un senso. O si suppone forse che questo sia compito del lettore?
Nel quadro di un positivismo endemico nella corrente principale della critica americana è confortante imbattersi nella concettualizzazione della SF avanzata da Fredric Jameson, dove la "più profonda vocazione" del genere è individuata come quella di "mostrare un'opera dopo l'altra e di drammatizzare la nostra incapacità; di immaginare il futuro" (p. 153), anche se attraverso "mediazioni formali e testuali che danno parziale articolazione a tali narrative più profonde"(p.148). La risposta alla domanda posta dal titolo: "Possiamo immaginarci un futuro?"*, è che non è questo il problema:
For the apparent realism, or representationality, of SF has concealed another, far more complex temporal structure: not to give us "images" of the future... but rather to defamiliarize and restructure our experience of our own present, and to do so in ways distinct from alI other forms of defamiliarization.(p.151)
È destino della SF "avere il successo attraverso il fallimento", e di rivolgersi a una massiccia "strategy of indirection" che ci permette di fissare la Gorgone: "i suoi multipli futuri fittizi assolvono alla funzione di trasformare il nostro presente nel passato determinato di qualcosa ancora a venire" (p. 152), più o meno come le trame poliziesche di Raymond Chandler servono solo a suscitare un'emozione in grado di "concentrare la nostra attenzione"; così ciò che realmente conta (e contava per Chandler) "può penetrare lateralmente dentro l'occhio, con la sua intensità; non diminuita" (p. 152) - segnatamente, l'"intollerabile spazio della California Meridionale"(18). Nel caso della SF è stato più volte sottolineato come l'ambiente sia il protagonista principale.
Vorrei osservare in margine che mi sembrerebbe a questo punto doveroso aspettarsi un maggior numero di contributi in questa direzione, per scoprire quella che Jameson definisce "la funzione storica" o "vocazione" della SF (e anche di altri generi). L'alternativa è quella di una critica che continua a basare i suoi approcci sull'ovvio, come nel caso del legame privilegiato e indiscusso tra SF e scienza(19). Se lo studio della SF fosse fondato su concetualizzazioni della dinamica storica nella quale si sono sviluppati i suoi vari filoni, potrebbe emergere che in termini di riferimento più significativi erano associati a meccanismi di plausibilità; e accettabilità;, e quindi il richiamo alla scienza sarebbe in gran parte epifenomenico, relativo allo statuto socialmente privilegiato del discorso scientifico. O ancora, nella SF più recente, lo spostamento verso le scienze umane osservato, tra gli altri, dalla De Lauretis* e da Fredericks* (p. 63), potrebbe venire anch'esso ricollegato a questo progetto più radicale sul quale insiste Jameson, e cioè di rivolgersi al presente, dove tali scienze possiedono una particolare aura di pertinenza (un valore lungamente inseguito dalla New Wave) dovuta al fatto che esse operano pervasivamente in un mondo sempre più sistematizzato.
Sui rapporti tra SF e realismo da un punto di vista formale è d'obbligo il riferimento al capitolo 4 "Science fiction and realistic fiction", pp.72-102) di A Rhetoric of the Unreal* di Christine Brooke-Rose. Rifacendosi, con opportune rielaborazioni, agli studi di Philippe Hamon(20) sui principi della narrativa realistica, la Brooke-Rose dimostra come la SF "abbia fatto integralmente proprie le tecniche della narrativa realistica" (p. 82) che mirano a fornire una "pletora di informazioni" e ad assicurare "la leggibilità;" (pp. 99-100). Si tratta di uno studio critico assai sistematico, ma i suoi limiti risiedono proprio nell'insistenza metodologica con la quale le questioni di forma vengono affrontate come se si trattasse esclusivamente di problemi formali. Ci si potrebbe domandare, per esempio, se il ricorso alla "defocalizzazione", tramite "costante variazione del punto di vista" (p. 88) possa venire spiegato solamente con il desiderio di evitare uno "sgonfiamento dell'illusione realistica" conseguente allo slittamento nei territori del genere eroico (o qualsiasi altra analoga spiegazione tecnico-generica): anche senza un richiamo immediato ad "omologie" tra questi sviluppi "formali" e il riferimento più generalizzato a narrazioni sociali esplicative o al ripiegamento delle posizioni del soggetto nella sfera macrosociale, ci si deve per lo meno domandare perché mutamenti di questo tipo erano accettabili al pubblico.
Le premesse di quest'ultimo tipo di approccio alla SF sono chiarite da Darko Suvin nel suo articolo, "Narrative Logic, Ideological Domination, and the Range of Science Fiction: A Hypothesis with Historical Test". (Il "test" in questione riguarda la "SF in UK, 1848-1870"; si veda inoltre il suo "Victorian Science Fiction, 1871-85: The Rise of the Alternative History Sub-Genre")(21). Entrambi i saggi sono inclusi nel volume di Suvin, Victorian Science Fiction in the UK*(22). Suvin vuole orientare lo studio della SF attorno alla nozione di "intertestualità;" intesa "non semplicemente come un'intersezione e l'influenza reciproca di testi diversi", ma come "principalmente un modo di sviluppare, da dentro i testi, l'indagine decisiva dei loro significati e dei loro valori in quanto strutture del sentimento all'interno del campo del discorso sociale che è diffuso dappertutto, complesso e in movimento, e delle sue tensioni ideologiche"(p.4). Ancora una volta le "forme narrative" sono considerate come "mediations" nel campo di dialogicità; appena indicato; termini di riferimento "privilegiati", afferma Suvin, ma non esclusivi.
Vorrei avviarmi alla conclusione di questa rassegna con un breve sguardo ai contributi inglesi. Lo studio comparativo di John Griffiths* sulla SF americana, inglese e sovietica, fu concepito inizialmente negli anni '60 e fa uso di un apparato critico datato ma, tuttavia, non è da sottovalutare. L'autore, che ha lavorato come giornalista ed ha scritto saggi critici sulla situazione in vari paesi, trasmette alla SF sensibilità; e interesse per l'attualità;, nonché la sua esperienza di lettore maturata come appassionato del genere. Così, per Griffiths, il "constituente scientifico" (come viene definito) della SF è di primaria importanza, poiché egli vede la SF come "narrativa della conoscenza, poiché essa si occupa dell'impatto della conoscenza contemporanea e della sua estensione nel futuro sul comportamento dell'uomo": se la SF è "accettabile al lettore", la sua plausibilità; "deriva, in parte, dal fatto che il lettore vive in un mondo che sta passando attraverso un'esplosione della conoscenza"(p.22). Mi sembra questa una premessa valida e stimolante per lo studio delle SF, non dissimile dalle posizioni di un altro commentatore assai sensibile alla realtà; contemporanea, Jean Baudrillard(23).
Ho voluto includere nella mia bibliografia lo studio di Colin Greenland* sulla "New Wave" inglese, poiché si tratta sicuramente di grande interesse per molti lettori italiani di SF, e che meriterebbe di venire tradotta in italiano al più presto. Scritto in modo elegante, il libro esplora a fondo le ambizioni e i traguardi raggiunti da Moorcock, Ballard ed Aldiss (a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo), e di altri autori meno noti; nonostante qualche divagazione di troppo, è sempre ben documentato (si tratta in realtà; dell'ampliamento di una tesi di laurea). Tra gli aspetti di maggior rilievo ci sono quelli del sesso e la SF (capitolo 3), sul concetto di "entropia" e sul territorio che la SF ha in comune con "immaginazione popolare" (ovvero quel retroterra a cui si riferisce Alberto Abruzzese quando parla di "immaginario collettivo"). Greenland illustra ciò che accade quando
SF passes out of fandom's walled city and into general circulation, with exchanged values. Its unknown landscapes, alien races, robots and gadgets, global disasters and ruptures in space and time provide extreme symbols for elusive aspects of our situation.(p.65)
Uno tra gli "aspetti elusivi" più interessanti degli anni '60, suggerisce l'autore, era la sensazione di venire schiacciati dal peso del passato, l'incapacità; di dire qualcosa di nuovo: "l'esplosione dell'informazione consente troppe vedute da troppi punti d'osservazione"(p.187). Di qui la "ricerca disperata di un punto di vista al di fuori dell'ortodossia, non importa quanto estremo; l'ambiguità; implacabile che evita di scegliere tra valori in conflitto; l'irrequieto rimescolio degli stili". È una argomentazione che spiega gran parte della carica dirompente della SF di New Worlds, ed anch'io ne sono rimasto convinto.
I due saggi sulla SF nel volume curato da Christopher Pawling* possono anch'essi interessare il lettore europeo. L'intervento di Mellor concerne l'attendibilità; della SF; l'autore inizia sostenendo che "la crescita sia della fantascienza che delle scienze sociali è una diretta funzione dell'espansione dell'istruzione superiore, e della crescita di un ceto medio istruito" (p. 22). Il problema cruciale è relativo al periodo degli anni '50 e '60: "perché l'abbandono da parte della SF dell'ottimismo scientifico, tecnologico e sociologico dovrebbe riconciliarla alla cultura più consolidata del ceto medio?"(p.37); la risposta, che si avvale del concetto di Pierre Bourdieu di "frazione dominata dalla classe dominante", è che la SF si è trasformata e, perdendo "fede nel futuro" (p. 40), è divenuta accettabile a questa frazione. Il saggio di Jordin, d'altro canto, fedele al dichiarato presupposto che "l'analisi dovrebbe iniziare dai singoli testi letterari e dai loro conflitti ideologici interni" (p. 72), esamina con una certa ampiezza Wolfbane (1959) di F. Pohl e C. Kornbluth, applicando il tipo di critica ideologica struttural-marxista associata a Pierre Macherey (o a Jameson) sottolineando "il modo in cui Wolfbane costruisce, piuttosto che riflettere, una posizione ideologica"(p.70)(24). Ne deriva un'analisi pregevole e sofisticata, che conferma l'opinione dell'autore per cui "la visione del mondo comune alla SF, quella che noi possiamo riconoscere in Wolfbane" può essere definita affermando che "essa articola la contraddizione tra Razionalismo e Umanismo", mentre "ciascun singolo testo è molto più di questo, in quanto mette alla prova, definisce e ricostruisce questa ideologia nel processo di interpretazione del contenuto in trasformazione di una specifica esperienza storica"(p.71).
L'ampio studio (370 pagine) di Brian Stableford, ScientificRomance in Britain 1890-1950*, è senz'altro quello che mi ha colpito di più tra i recenti contributi critici sulla SF. Diviso in tre parti, il saggio considera da prima le origini dello "scientific romance", i maggiori autori d'anteguerra (Griffith, Wells, Shiel, Conan Doyle, Hodgson e Beresford) e una schiera di minori, nonché le tendenze e i modelli dominanti fino alla Prima Guerra Mondiale. nella seconda sezione viene affrontato il periodo tra le due guerre, in cui lo "scientific romance" si differenza dalla SF e cominciano ad affermarsi le figure di Olaf Stapledon e Fowler Wright, con una dettagliata analisi degli "speculative essays" scritti negli anni '20 e '30 da scienziati come J .B.S. Haldane; infine, si discute in che modo si sia realizzata la fusione con la SF negli anni del dopoguerra. Per il suo carattere di indagine storica, non è un libro strettamente pertinente a questa rassegna, tuttavia ritengo che, per la sorprendente cultura enciclopedica mostrata da Stableford a proposito di centinaia di opere semisconosciute e per il suo stile limpido e vigoroso, si tratti di una strumento indispensabile per lo studio della tradizione inglese di narrativa speculativa(25).
In ogni modo, vorrei soffermarmi un attimo sulle tesi avanzata dal libro. L'intero studio tende a fissare, attraverso elaborate e convincenti argomentazioni, la specificità; dello "scientific romance" rispetto alla nozione prevalentemente americana di "science fiction". Fedele alla metodologia esposta, secondo la quale i scientific romances sono contraddistinti da "legami aperti di parentela che sono parzialmente inerenti negli stessi esercizi dell'immaginazione e parzialmente insiti nella mente di autori e lettori che riconoscono in essi un qualche elemento di causa comune" (p. 4), Stableford non cerca di sovrapporre la sua definizione di scientific romance, quanto di offrire un'adeguata e libera "terminologia dialettica" che gli consente di scoprire insieme con il lettore le ragioni del suo sviluppo(26): "Un scientific romance è una storia costruita attorno a qualcosa che è stato intravisto attraverso una finestra del possibile da cui la scoperta scientifica ha tirato indietro le tende"(p.8). Su queste basi è possibile seguire la sua discussione sui condizionamenti editoriali, sul contesto ideologico e sulle intenzioni degli autori presi in esame (un'importante categoria alla luce della nozione di contratto o comune interesse tra scrittore e lettore che definisce l'intero progetto del genere), arrivando alla conclusione che questi ultimi hanno ben poco in comune con i loro colleghi americani. Può suscitare qualche dubbio la sua fiducia in un apparato critico piuttosto convenzionale (fondato in larga misura sulla figura dell'autore, e incline a dare eccessiva importanza alla componente dell'idea -minimizzando le implicite contraddizioni - e a ridurre forze storiche complesse in termini psicologici) e l'implicito obiettivo di analizzare i testi dal punto di vista della loro produzione (e della collocazione nella carriera dell'autore), escludendo aspetti come la ricezione e l'accettabilità;. (Così, quando ci viene detto che un testo era "widely read", come nel caso di The People of the Ruins (1920) di Edward Shanks, si avverte in maggior misura la mancanza di un 'identica prospettiva in altri casi). Alla luce di quanto è stato rilevato, è difficile riassumere i fattori distintivi da Stableford per differenziare scientific romance e SF. Però è possibile citare alcun punti salienti: l'interesse specifico nei racconti di "guerra del futuro" in relazione alla (presunta) vulnerabilità; del Regno Unito rispetto agli USA (p. 32); lo scarso entusiasmo per il viaggio interplanetario (p. 133) l'apertura a "esperimenti del pensiero nella metafisica", meno congeniali agli americani (p. 138); il tono "intensamente serio" dello scientific romance inglese, al punto che anche quando "orientato verso il puro intrattenimento le sue storie tendevano a riguardare quasi esclusivamente una catastrofe minacciata o effettivamente avvenuta" (p. 154); la fascinazione per l'idea stessa del disastro e per "l'idea della distruzione", piuttosto che per "the struggIe to rebuilt a technological civilization" (p. 246) che preoccupa gli scrittori americani; e il modo in cui lo scientific romance scompare, vittima della sua stessa identificazione con le reali inquietudine dell'epoca, poiché "I motivi utilizzati dentro il genere divennero banali, sfruttabili in una maniera meno sofisticata e a un livello meno esoterico" (p. 288). Se dovessi consigliare alcuni titoli tra quelli citati, suggerirei come buone introduzioni i paperback di Parrinder e Rose, benché, per chi possa acquistarli o prenderli a prestito, i libri di Greenland e Stableford sono studi estremamente interessanti su periodi diversi della tradizione inglese, mentre i volumi di Wagar e di Fredericks sono opere più generali e di assoluto valore.
Jonathan Benison
Università; di Padova
Traduzione di Piergiorgio Nicolazzini
NOTE
1. Si veda l'eccellente volumetto di Roger Grimshaw e Paul Lester, The meaning of the Loch Ness Monster (Birmingham: Centre for Contemporary Cultural Studies, 1976), p.1. Assumendo come campo d'immagine la "teorizzazione", devo escludere monografie (come la collana "Science Fiction Writers" curata da Robert Scholes per la Oxford University Press americana) o bibliografie (come la collana "Masters of Science Fiction and Fantasy" pubblicata da G.K. Hall and Co., Boston) dedicate a singoli autori e che non toccano la natura delle SF in generale (come tradizione, genere, ecc.).
2. Parrinder (1980)*, p. 47. Purtroppo questo capitolo non fa alcun riferimento alle posizioni di Brian Stableford; per esempio, "SF: A Sociological Perspective", Fantastic (March 1974), "Notes Toward a Sociology of Science Fiction", Foundation 15 (January 1979).
3. Varie opere significative apparse nel 1979 hanno fissato i termini di riferimento per la critica (in lingua inglese) degli anni '80: -Darko Suvin, Metamorphoses of Science fiction (New Haven and London: Yale University Press, 1979) -Gary K. Wolfe, The Known and the Unknown: the Iconography of Science Fiction (Kent, OH: Kent State University Press, 1979) -Patrick Parrinder, ed., Science Fiction: A CriticaI Guide (London and New York: Longman, 1979). Vedi la recensione di Fredric Jameson, "Toward a New Awareness of Genre", Science FictionStudies 9/3 (November 1982), 322-24. -Marc Angenot, "The Absent Paradigm: An Intriduction to the Semiotics of Science Fiction", Science Fiction Studies 6/1 (March 1979),9-19. Una diversa versione è apparsa in francese in Poétique 33 (février 1978).
4. Alcuni importanti articoli sulla teorizzazione della SF non esaminati nella presente rassegna sono stati pubblicati in Science-Fiction Studies (SFS): -Samuel R. Delany, "Reflection on Historical Models in Modern English Language Science Fiction", SFS 7/2 (July 1980), 200-207; -I. and A. Gopnik, "A Brief and Biased Guideto the Philosophy of Science for Students of Science Fiction", SFS 7/2 (July 1980), 135-49; -Gérard Klein, "A Petition by Agents of the Dominant Culture For the Dismissal of Science Fiction", SFS 10/2 (July 1983), 115-23. Si possono qui inoltre citare due articoli: Marshall B. Tymn, "Masterpieces of Science-Fiction Criticism", Mosaic 13/3-4 (1980), 219-22 e Evgeni Brandis, "The Horizons of Science Fiction", Soviet Literature 1 (1982),146-53.
5. cfr. Walter E. Meyers, Aliens and Linguists: Language Study and Science Fiction (Athens, GA: Georgia University Press, 1980). Vedi inoltre Marie Maclean, "Metamorphoses of the Signifier in "Unnatural" Languages", SFS 11/2 (July 1984), 166-173 e Eric S. Rabkin, "Metalinguistics and Science Fiction", CriticaI Inquiry 6/1 (Automn 1979), 79-97.
6. cfr. Neil Barron, ed., Anatomy of Wonder: A Critical Guideto ScienceFiction, Rev. Ed. (NewYork: Bowker, 1981): un'opera di consultazione estremamente utile, con ottime sezioni saggistiche; Everett Franklin B1einer, ed., Science Fiction Writers: Criticai Studies of the Major Authors jrom the Early Nineteenth Century to the Present Day (New York: Scribner's Sons, 1982): brevi saggi biocritici; David Cowart and Thomas L. Wymer, eds., TwentiethCentury American Science Fiction Writers (Detroit: Gale Research, 1981); Franklin N. Magill, ed., Survey of Science Fiction Literature, 5 Vols. (Englewood Cliffs, NJ: Salem Press, 19797: una serie di saggi di 2000-3000 parole su singoli romanzi di SF e sulla produzione breve di alcuni autori; Curtis C. Smith, ed., Twentieth-Century Science-Fiction Writers (n.p.: Macmillan, 1981 and New York: St. Martin's Press, 1981); Marshall B. Tymn, Science Fiction Rejerence Book (Mercer Island, W A: Starmont House, 1981).
7. cfr. Michael A. Banks, Understanding Science Fiction (Morristown, NJ: Silver Burdett, 1982); Donald L. Lawler, Approaches to Science Fiction (Boston: Houghton Mifflin, 1978): una selezione di racconti con materiale integrativo; Kenneth Roemer, ed., American as Utopia (n.p.: Burt franklin and Co., 1981); Jack Williamson, ed., Teaching Science Fiction: Education for Tomorrow (Philadelphia: Owlswick Press, 1980); Thomas L. Wymer et al., Intersections: The Elements of Fiction in Science Fiction (Bowling Green, OH: Bowling Green State University Popular Press, 1978).
8. Non ho potuto esaminare i seguenti titoli: la più recente raccolta di saggi di Samuel R. Delany, Starboard Wine: More Notes and Language in Science Fiction (Elizabethtown, NY: Dragon Press, 1985); Eric S. Rabkin et al., eds., No PIace Else: Exploration in Utopian and Dystopian Fiction (Carbondale and Edwardsville; Southern Illinois University Press, 1983); David Pringle, Science Fiction: The 100 Best Novels (London: Xanadu, 1985)- disponibile presso Xanadu, 5 Uplands Road, London, N8 9NN al prezzo di £ 3.95; J. Antczak,Science Fiction: The Mythos of a New Romance (New York: Neal-Shuman, 1985); Umberto Eco, "Science fiction and the art of conjecture", Times Literary Supplemnt, No. 4257 (2 Nov, 1984), 1257-258; Thomas D. Clareson and Thomas L. Wymer, eds., Voicesjor the Future, Vol. 111 (Bowling Green, OH: Bowling Green University Popular Press, 1984); Gary Wolfe, ed., Science Fiction Dialogues (Chicago: Academy, 1982). Inoltre, alcune opere dedicate a temi specifici: Frederick A. Kreuziger, Apocalypse and Science Fiction: A Dialetics of Religious and Secular Soteriologies (Chico, CA: Scholars Press, 1982), recensito in SFS 10/1 (March 1983), e Richard D. Erlich and Thomas P. Dunn, eds., Clockwork Worlds: Mechanized Environments in SF (Westport, CT: Grenwood Press, 1983).
9. Probabilmente l'applicazione più ampia dell'idea di trasformazione si trova in Georges R. Guffey, "The Unconscious, Fantasy and Science Fiction: Trasformations in Bradbury's Martian Chroniques and Lem's Solaris", in Slusser et al., eds., Bridges to Fantasy*, pp. 142-59.
10. Solaris (1961) di Stanislaw Lem sembra essere un testo prediletto in un periodo nel quale i critici scelgono di derivare le loro schematizzazioni da casi paradigmatici. il romanzo viene analizzato nell'articolo di Guffrey (citato nella nota precedente); Rose, Alien Encounters* pp. 82-95; Parrinder, Science Fiction* pp. 122-30; Stephen W. Potts, "Dialogues Concerning Human Understanding: Empirical Views of God from Locke to Lem" in Bridge to Science Fiction*, eds., Slusser et al., (e nel saggio di Gregory Benford che appare nello stesso volume). È un fatto sconcertante, anche se tipico, che nonostante questo grande interesse il testo esaminato sia la ritraduzione in inglese di una traduzione tedesca.
11. Pubblicata da Burning Bush Publications, PO Box 178, Kemblesville, PA 19347, USA.
12. Penso, ad esempio, alle affascinanti prospettive offerte agli studi comparativi da un eccellente lavoro come quello di Patrick Heeelan, Space-Perception and Philosophy of Science (Berkeley: University of California Press, 1983).
13. La critica di SF rimane tuttora legata alla struttura della metafora, nonostante l'opinione della De Lauretis, secondo cui "the concrete, sensible specifity of its signs... allows SF language to be poetic rather than merely metaphoric", sostituendo la funzione della metafora con la "literalization of laguage": De Lauretis et al., eds.*, p. 168. In fondo non c'è differenza sostanziale con le "literal metaphors" di Patricia Warrick (Warrick*, p. 81, 214). Vedi inoltre Darko Suvin, "Parable, Metaphor, Chronotope", in de Vos, ed. (1985)*.
14. Per chi fosse interessato a quest'aspetto, rimando all'approfondita analisi condotta da Strother B. Purdy, "Technopoetics: Seeing What Literature Has to Do with the Machine", Criticai lnquiry 11/1 (September 1984), 130-40, che prende in esame, tra l'altro, Metropolis di Fritz Lang.
15. Fredericks, Future of Eternity*, p. 177.
16. Per esempio, ecco Ballard in una conversazione con Lynn Barber del 1970: "Dammit, we're living in the year 1970, the science fiction is out there, one doesn't to write it any more. One's living science fiction. AlI our lives are being invaded by science, technology and their applications. So I believe the only important fiction being written now is science fiction. This is the literature of the 20th century". "Sci-fi seer", Penthouse 5/5 (1970), p. 26.
17. Vedi Paolo Rossi, ed., La Nuova Ragione: Scienza e Cultura nella Società; Contemporanea (Bologna: Il Mulino, 1981), in particolare il saggio di Yehuda Elkana, "Of Cunning Reason"; inoltre, Il Pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (Milano: Feltrinelli, 1983). Cjr. anche Paul Caro, "Science Fiction", in Modernes et après? "Les lmmateriaux", ed. Elié Théofilakis (Paris: Eds. Autrement, 1985), pp. 112-20.
18. Un concetto parallelo di spostamento viene sviluppato da Gerald Prince in Coordinates, eds. Slusser et al.*, p. 27, ma secondo una diversa prospettiva.
19. Tra coloro che privilegiano i rapporti tra SF e scienza troviamo Rose (Alien Encounters*), Griffiths (Three Tomorrows*) e Parrinder "Space and Time in Science Fiction"* e nel suo contributo a Science Fiction: A Criticai Guide -citato nella nota 3). Eric S. Rabkin, "The Rhetoric of Science in Fiction", in Tom Staicar, ed., Critical Encounters II (New york: Frederick Ungar, 1982), affronta il tema attraverso una ricognizione storica all'uso del linguaggio di carattere scientifico in opere letterarie quali il Novum Organum di Bacon, Hard Times di Dickens, Robinson Crosoe, Frankenstein, e poi in Verne e in Wells. Tra le altre opere sull'argomento: Eugene M. Emme, ed., Science Fiction and Space Futures Past and Present (San Diego: American Austronautical Soc., 1982); e un'opera divulgativa che raccomando, Peter Nicholls, ed., The Science in Science Fiction (London: Michael Joseph, 1982 and New York: Knopf, 1983).
20. Philippe Hamon. "Qu'est-ce qu'une description?" Poétique 12 (1972), 465-85, e "Un discours constraint", Poétique 16 (1973), 411-45.
21. In Science-fiction Studies 9/1 (March 1982), 1-25 e SFS 10/2 (July 1983), 148-69 rispettivamente. Cfr. inoltre Darko Suvin, "On What Is and What Is Not an SF Narration", SFS 5/1 (1978), 45-52.
22. Mi sono avvalso dell'ampia recensione di Herbert Sussman, "Victorian Science Fiction",SFS Il (1984), 324-28, a cui, a mia volta, rimando il lettore.
23. Per ulteriori dettagli sul libro di Griffith, vedi la recensione di K.G. Mathieson in Foundation 24 (February 1982), pp. 105-6. Su Baudrillard, vedi il mio articolo "Jean Baudrillard on the current state of SF", Foundation 32 (November 19847, PP. 25-42.
24. Un esempio di questo tipo di critica è quello di Peter Fitting, "The Modern Anglo-American SF Novel: Utopian Longing and Capitalist Cooptation", Science-Fiction Studies 6/1 (March 1979), 59-75, citato da Jordin.
25. Pubblicato da Fourth Estate Ltd, 113 Westbourne grove, London W2 4UP, al prezzo di £ 25.
26. Io stesso tipo di presentazione è presentato in modo più succinto nel lucido articolo di Brian Stableford, "Marriage of Science and Fiction", in Encyclopedia of Science Fiction, ed. R. Holdstock (London: Octopus Books, 1978), pp. 20-27. "Dialectical terminology", secondo Fredric Jameson, è "an attempt to stretch terminology so that it registers difference as well as identity"; invece che su di una "single great collective story" l'accento viene posto tipicamente sui punti di congiunzione, "a series of discontinuous moments". "Dialectical terminology is therefore never stable in some older analytical or Cartesian sense; it builds on its own uses in the process of development of the dialectical texts, using its initial provisory formulations as a ladder which can either be kicked away or drawn up behind you in later "moments" of the Text". "Interwiew", Diacritics 12/3 (FaIl1982), p. 79.
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