un racconto di Claudio Tanari
Il Maggiore Maya Lisi fissava da qualche minuto l’arco opposto
dell’abisso, lontano una ventina di chilometri. La cresta rocciosa, sfrangiata e
abbacinata dalla luce pressoché permanente del sole, si stagliava sul fondale
buio del cielo lunare; laggiù, duemila metri più in basso, tenebrose profondità
celavano i tesori nascosti del Cratere Shackleton. L’ufficiale percorse con lo
sguardo il perimetro del bordo circolare dell’immane voragine: la desolazione
screpolata del ciglio dell’orrido si animava improvvisamente, a intervalli
regolari, dello scintillio delle superfici a specchio dei pannelli solari; la
monotonia della linea concava era ancora interrotta dalla forma discoidale delle
due antenne paraboliche puntate verso i 5000 metri della vetta lontana di Monte
Malapert, sempre visibile dalla Terra, da cui si ergeva il trasmettitore
principale per le comunicazioni radiotelevisive.
Anche le vertiginose profondità del cratere, a ben guardare,
tradivano la presenza umana: il profilo dell’impianto di estrazione di idrogeno
e acqua dal fondale ghiacciato era evidenziato da timide, gialle luci di
segnalazione che emergevano dal nero di china come assurde, sotterranee
costellazioni.
Il Maggiore rivolse lo sguardo alle sue spalle, verso l’asettico
alloggio che condivideva con il Tenente Lopez. Asettico ma caldo e confortevole,
in confronto al paesaggio ostile che circondava Colony-3, una delle quattro basi
permanenti sulla superficie del satellite. Si avvicinò di nuovo all’oblò. Erano
le 8,30 del mattino (o almeno lo sarebbero state lungo il meridiano di
Greenwich...): tra circa tre ore la navetta che l’attendeva là, a qualche
centinaio di metri sulla piattaforma, avrebbe accompagnato lei e i suoi due
compagni di viaggio alla volta della stazione lunare orbitante dove li attendeva
l’astronave Nimbus. Diretta su Marte. Cydonia.
Jarno Morgensen passeggiava nervosamente in tondo sfiorando la
parete concentrica della “palestra”, al quinto livello della colonia. Gli
attrezzi per l’attività fisica erano immobili e silenziosi, quasi partecipi
dell’atmosfera di sospensione che sembrava avvolgere il giovane geologo della
Mars Society. Sarebbe stata la prima volta, per lui. Marte. Il sogno
della sua esistenza di studioso! Stavolta non avrebbe analizzato i pochi
ciottoli riportati indietro da una sonda robotica: avrebbe - proprio lui! -
calcato le sabbie del pianeta, razzolando tra rocce e sedimenti, come gli aveva
prospettato, con un lampo di benevola invidia negli occhi, il vecchio Professor
Jones, a Chicago.
Impaziente, Morgensen lasciò quasi di corsa la sala dirigendosi
più in basso, lungo il tunnel di collegamento verticale, verso gli
alloggiamenti. Si lasciò dietro la sala controllo e i suoi monitor verdazzurri,
i laboratori occupati dal personale scientifico, il livello verde e profumato di
vita degli orti, fino al piano delle cabine. Entrato nella sua, controllò ancora
una volta il materiale per la documentazione. Era tutto in ordine. Uno sguardo
all’orologio: ancora un paio d’ore. Decise di sdraiarsi sulla branda. E di
vagheggiare la pianura di Cydonia.
Nicolas Lenormant sorrideva tra sé facendo l’appello
dell’equipaggiamento che andava riponendo con cura all’interno della sua sacca.
Alla fine, dopo la strumentazione più sofisticata, dopo le prospezioni in
tomografia e i sonar, arriva il momento dello scavo. Il momento di ficcare le
mani nella terra, gelosa dei suoi segreti... Lenormant non sapeva ancora da che
verso prendere l’incarico assegnatogli dal Consiglio della Mars Society.
Missione prestigiosa, non c’era alcun dubbio, in partnership con l’Ente Spaziale
Internazionale. Un compito dai molti rischi, anche... Il primo, per un
accademico del suo calibro, era quello di essere iscritto d’ufficio nei ranghi
della “fantarcheologia”, disciplina - si fa per dire... - in voga tra bizzarri
esponenti di un milieu popolato da pazzoidi ricercatori di arcaici
incontri ravvicinati. Qualcosa di molto simile ai cacciatori di ufo e di
fenomeni paranormali...
La sua cattedra alla Sorbona XVI ne avrebbe potuto risentire
negativamente, tuttavia aveva accettato il ruolo - ben remunerato, del resto -
di responsabile del sondaggio presso l’area di Cydonia. Sarebbe stato, in ogni
caso, il primo specialista scientifico archeologo a calcare il suolo di Marte:
dopo tanti geologi - come quel giovane Morgensen - si era pensato proprio a lui
per una vera e propria campagna di scavo. Il Prof. Lenormant dentro una tuta
pressurizzata in cerca di tracce di una civiltà marziana sepolta... Già portata
alla luce dalla fervida e impaziente immaginazione dei ricchi soci della MS
- sorrise di nuovo consultando il display dell’orologio (quasi le 10).
Ricompose lentamente la branda e si guardò intorno: tutto in ordine. Chiuse
quindi il pannello dell’oblò che scivolò come una palpebra sullo spicchio di
paesaggio lunare all’esterno. Le “anomalie di Cydonia”... Da decenni cavallo di
battaglia per tutti quelli che non si erano rassegnati alla deludente forse ma
ovvia scoperta di un pianeta che non era mai stato abitato. Marte aveva
senz’altro visto tempi migliori, ma quelli che ormai da millenni erano i suoi
deserti rocciosi e ossidati non avevano mai ospitato alcuna forma dei vita.
Perché aveva accettato la proposta di Thomas Winglee, il boss della Mars
Society, allora? Winglee conosceva bene le sue idee: Si lasciò alle spalle il
portello scorrevole della cabina e si avviò verso la rimessa dei rover. Sarebbe
passato alla storia come l’affossatore delle fandonie su “Città”, “Tholos” e
“Fortezze” di Cydonia!
Due mesi e mezzo dopo si trovavano cinquecento chilometri al
disopra del titanico canyon della Valle Marineris. La Nimbus, raggiunta
attraverso il Moonshuttle, aveva dispiegato la sua impalpabile randa di
alluminio ampia dieci chilometri quadrati proprio al largo della stazione
orbitale lunare Thetis. Il raggio di ioni convogliato in un unico grande
fascio di 32 metri di diametro, aveva fornito al vascello una spinta progressiva
di 12 km al secondo.
Il Maggiore Lisi aveva seguito le fasi dell’accelerazione
iniziale dalla plancia della nave: attraverso i monitor a circuito chiuso aveva
assistito in silenzio alla lenta e maestosa apertura della vela magnetica che
aveva raggiunto la sua massima estensione con un elegante movimento simile a
quello di un gigantesco ventaglio o di una enorme coda di pavone. Il Comandante
aveva quindi verificato l’allineamento della corrente di plasma generata dal
sistema di propulsione rispetto alla superficie della vela e impostato la rotta
verso Marte.
Maya sapeva ben poco dei suoi compagni di viaggio. A parte i due
componenti dell’equipaggio, il Comandante Goodfellow e il pilota Demidov, le
notizie su Morgensen e Lenormant erano quelle ricavate dagli scarni profili
individuali consegnati dal Comando poco prima della partenza. Le lunghe
settimane di permanenza sulla Nimbus non avevano aggiunto granché a
quelle informazioni. I tre non erano andati oltre alle buone maniere, del resto
quasi imposte dalla convivenza forzata. D’altra parte i due scienziati
interpretavano il ruolo della Lisi come quello, sgradevole, di una scorta
occhiuta ed invadente. Che era, in effetti, esattamente la funzione che Maya
avrebbe dovuto svolgere in quel frangente. La difficile e costosa colonizzazione
di Marte era saldamente in pugno all’ESI e le rare intrusioni da parte di
agenzie private andavano accuratamente tenute sotto una stretta vigilanza.
Morgensen sembrava il più disposto a un rapporto franco e cordiale; Lenormant
era invece un osso duro: per lui la presenza del Maggiore era un’indebita
intromissione nell’ambito di una missione scientifica che sentiva assolutamente
sua.
Vista dalla cupola del Transhab, la piaga profonda della
valle sottostante squarciava atrocemente la superficie del pianeta per migliaia
di chilometri: da circa quarantotto ore il fascio di particelle situato a poca
distanza dalla Base Olympia, ai margini delle Fosse di Acheronte, stava fornendo
alla Nimbus la controspinta necessaria per arrestare la sua corsa.
Morgensen sembrava assopito all’interno della cuccetta semichiusa dalla paratia
scorrevole, su di lui l’opalescenza soffusa dello schermo luminoso; Maya cambiò
assetto abbandonando l’osservatorio, ruotò all’interno dell’ambiente cilindrico
del modulo di abitazione. Ora osservava il ponte sottosopra; Lenormant aveva
assicurato i piedi sulla piattaforma di bloccaggio accanto alla scrivania
portatile fissata alla parete: apparentemente stava esaminando mappe e
diagrammi, con ogni probabilità attinenti alla loro meta. Maya si avvicinò al
terminale fluttuando, ma l’archeologo arrotolò bruscamente l’e-sheet
scrutandola di sottecchi.
- Ancora in piedi, Maggiore?
- Anche lei, vedo.
- Già… Sto mettendo in ordine i miei appunti sulla
missione…
Maya esitò un per qualche secondo.
- Ascolti, Lenormant. Non deve sentirsi sorvegliato. Provi a
vedermi come una… guardia del corpo.
- Non ne avrei alcun bisogno, in ogni caso. Senta, Lisi: inutile
nascondersi che l’ESI ha dato il via libera a questa campagna solo grazie al…
contributo versato nelle tasche dell’Ente dai miei facoltosi committenti. Per
voi siamo degli intrusi inopportuni eccezionalmente ammessi all’interno di una
zona militare. Prima ce ne andremo, meglio sarà…
- Condivido soltanto l’ultima parte del suo discorso. Provi a
tollerare la mia presenza come un fastidio inevitabile: da parte mia, le
assicuro, non ho la minima intenzione di interferire col suo lavoro. Mi occuperò
esclusivamente della sua sicurezza e di quella del Dottor Morgensen.
- La pensano così anche i suoi superiori?
- Ha la mia parola. E le deve bastare.
- Buonanotte, Lisi - concluse Lenormant, scettico.
- Buonanotte, Professore.
Maya nuotò alla volta della suo compartimento. Si infilò non
senza qualche difficoltà nel sacco facendo scorrere infine il pannello che la
isolava dall’ambiente comune. Attenuò la luce dopo essersi assicurata con le
cinghie quindi si addormentò - non prima di aver ammesso tra sé di essere
risultata poco convincente con Lenormant - cullata dal respiro leggero della
ventilazione.
Pochi centimetri più in basso, Morgensen non riusciva a dormire.
Tra ventiquattr’ore sarebbero atterrati su Marte! Cercò di sganciare il ritmo
del respiro dalla cadenza convulsa dei pensieri che gli affollavano la mente.
Invano. I suoi viaggi precedenti si erano limitati a un paio di missioni su
Colony-2, ma tutto si era svolto all’interno dei laboratori della base: se non
fosse stato per il breve viaggio e per la minore gravità, avrebbe potuto
trattarsi di un soggiorno in qualsiasi centro studi terrestre. Ma Marte era
tutta un’altra cosa… La supponenza di Lenormant sarebbe senz’altro passata in
secondo piano, così come la discreta ma continua attenzione della Lisi. Avrebbe
toccato le sabbie e le rocce di quel pianeta con le sue mani, riportandone
un’esperienza certamente impagabile; di questo non poteva che essere
riconoscente nei confronti del Professor Jones, che lo aveva proposto alla Mars
Society. Non lo avrebbe deluso.
Chiuse di nuovo gli occhi, nel tentativo di far passare le ultime
ore grazie all’ellissi provvidenziale del sonno. Sognò oceani color ruggine e
rilievi ciclopici, vasti circhi battuti da venti di ghiaccio.
Gli stessi venti che proprio in quello stesso momento, inesausti,
sollevavano nembi di sabbia nelle profondità della Valles Marineris.
- Egregio Professore, stavolta ci siamo! - aveva cercato di
convincerlo Winglee nel suo ultimo messaggio. - Le rilevazioni del Mars
Prospector dall’orbita e i robot inviati laggiù hanno individuato ipogei dalla
pianta regolare a pochi metri di profondità dalla superficie.
Vaglielo a dire al povero Thomas che le rocce basaltiche sono
soggette a crolli di volta che disegnano perimetri facilmente interpretabili
come ambienti artificiali... - Lenormant guardava attraverso l’apertura
dell’oblò che permetteva ancora la visione della Terra, lontana sessanta milioni
di Km. Galleggiava un po’ assonnato nei pressi dell’area in cui l’equipaggio
aveva consumato per settimane i pasti; imboccò il tunnel che lo avrebbe condotto
alla volta del locale adibito all’igiene personale: quanto gli mancava un bagno
caldo! Incrociò Demidov scambiando un saluto e qualche parola sull’imminente
arrivo a destinazione. Il pilota veleggiò via verso il quartiere piloti. D’un
tratto Lenormant si sentì incredibilmente solo: i rapporti freddi e ostili con
la Lisi e quelli formali con Morgensen gli pesavano particolarmente in quella
situazione di promiscuità obbligata. Rinunciò senza troppi rimpianti alla doccia
d’acqua riciclata e si diresse al suo alloggiamento, non prima di avere gettato
un ulteriore sguardo alla Terra, di un tenue azzurro sul fondo buio. Era il 23
Settembre del 2104.
Mentre la configurazione geologica conosciuta come “La Città”,
sul tavolato di Cydonia, esibiva tutte le sue bizzarre caratteristiche, il vento
marziano spazzava l’intera piana di una risacca polverosa color ruggine: il sole
dipingeva lo scenario, fino all’orizzonte, di una pallida tinta rosata. Il primo
saggio di scavo condotto dalla Mars Society di Chicago nell'ambito delle
attività concordate con la Base Olympia aveva avuto inizio. Le indagini, “Le
prime di rilievo scientifico”, aveva tenuto a sottolineare Winglee nel corso
della teleconferenza Terra-Marte di una settimana prima - interessavano un'area
di 150 x 120 metri posta nel settore detto “La Piazza”.
Lenormant osservava senza mostrare particolari emozioni il piano
di campagna. Era la zona dove le operazioni di rilievo topografico e
magnetometrico, condotte nel corso del 2102 dalla sonda Schliemann,
avevano portato ad ipotizzare la possibile presenza di strutture
sepolte.
Morgensen non riusciva ad impedire al suo cuore di battere
tumultuosamente: la scelta di quest’area per l'apertura del saggio si era basata
sulla sua coincidenza con la porzione centrale dell’ipogeo così come era stato
ricostruito in virtual reality.
La prima parte del lavoro era stata condotta dal braccio remoto
del MEV, il Veicolo di Escursione Marziano assegnato alla missione: la rimozione
dei livelli superficiali di terreno aveva evidenziato una modesta resistenza
all’azione meccanica. Furono quindi inviate le telesonde, dirette dal sistema di
bordo.
Il Maggiore Lisi notò un impercettibile mutamento
nell’espressione imperscrutabile di Lenormant, quando lo svuotamento degli scavi
consentì di raggiungere i livelli superficiali di quello che sembrava un
manufatto.
- Incredibile…! - esclamò Morgensen fissando il monitor prima di
uscire in attività extraveicolare.
- Apparentemente costituito da poderosi strati di disfacimento di
strutture ipogeiche, - dettò professionale Lenormant al memo scavalcando
i detriti prodotti dal braccio del MEV - il blocco geologico presenta una
nicchia di forma rettangolare posta a circa 50 centimetri da quello che sembra
un piano di sedimenti più antico.
Maya seguiva con una certa curiosità gli sviluppi delle
operazioni: in effetti anche uno sguardo profano scorgeva nel tratto messo in
luce, parzialmente collassato probabilmente in seguito a crolli, la nicchia sul
fondo della quale si apriva un varco squadrato che aveva tutta l’aria di
consentire il passaggio ad un locale ulteriore.
- Professor Lenormant - ansimò Morgensen eccitato rinunciando a
trattenere la sua euforia - l’enormità di quanto stiamo scoprendo ci obbliga a
comunicare…
- Che cosa, mio giovane assistente? Siamo in presenza di
formazioni geologiche per alcuni versi inconsuete ma certamente riconducibili ad
attività morfologiche naturali…
- Ma Professore! L'insieme degli elementi riscontrati ci permette
per la prima volta di definire e precisare l'estensione di una costruzione di
origine ignota…
- Signori, guardate qua… - interruppe con un soffio la Lisi in
fondo alla galleria resa praticabile dalle telesonde. Le strutture murarie
semisepolte di un edificio dalla pianta trapezoidale, interrotte da un vano di
accesso, vennero illuminate per un'altezza di un paio di metri.
- La disposizione regolare e continua dei blocchi di crollo in
quest'area farebbe pensare ad un terremoto quale causa della caduta di queste
strutture geologiche… - riprese imperterrito la sua relazione vocale
Lenormant.
- Stia zitto, Lenormant! E guardi, finalmente. Anzi, stia a
sentire… - invitò perentoria la Lisi.
Oltrepassata la porta l’ambiente sotterraneo riusciva a
comunicare, con ogni probabilità per la prima volta da millenni, con l’esterno
grazie a una rete di stretti cunicoli attraversati da una corrente ventosa
costante che si insinuava fin laggiù dalla superficie del pianeta.
Le pietre sonore erano lì.
A decine, simili a grandi menhir solcati da nette
incisioni parallele.
Il vento di Marte le accarezzava rianimandole, generando suoni
che ricordavano le vibrazioni del vetro o l’eco dei metalli, il tono sordo di
strumenti di legno e perfino il canto modulato di una voce umana.
Maya si avvicinò ad una di esse, sfiorandola con una
mano.
- La piedra es la espina dorsal del mundo, dicevano gli
Incas… - intervenne estatico Morgensen.
Restarono in silenzio, penetrati attraverso i sensori dei caschi,
dal verso del calcare, dalle sonorità del basalto.
- Sembra che le pietre emettano la propria voce. Stanno compiendo
uno sforzo per farsi sentire. Come arpe di pietra... - bisbigliò il
geologo.
- Guardate! - indicò Maya - Si possono ottenere effetti diversi a
seconda di come vengono toccate: col palmo della mano, con una pressione più o
meno accentuata...
I tre appoggiarono le visiere trasparenti alle creature di pietra
ferite da tagli orizzontali e verticali. Era lo spazio tra queste fessure della
pietra a produrre il lamento, come un'eco proveniente dal cosmo, cristallizzata
nelle viscere del pianeta, che l'uomo era finalmente capace di udire: vagiti
nascosti nella pietra, suoni siderali indicibili. D’un tratto i movimenti stessi
di quei pionieri, forse una variazione di calore o di densità rispetto ad un
punto di equilibrio attorno ad ogni scultura, furono in grado di perturbare
l'emissione sonora del giardino di roccia: il flusso dinamico dei visitatori
creava una sinfonia di percorsi e orbite musicali.
- Stiamo registrando…? - si aggrappò ad un barlume di lucidità
razionale Lenormant.
Morgensen non lo avvertiva più, aveva capito che il suo compito
non sarebbe stato quello di uniformare la pietra alla lingua degli uomini, come
aveva sempre fatto: al contrario, si trattava di ascoltare ciò che quella lira
fatta di un materiale apparentemente impassibile, duro, freddo, eppure testimone
di millenni di vita e di storia estinti e tuttavia sonori e vibranti, aveva da
dire. Quelle incisioni arcaiche riconducevano alla vita la memoria di esistenze
perdute, liberavano la voce dal profondo di un’anima che finalmente poteva
tornare, forse per l’ultima volta, a parlare.
- Al MEV! - ruppe l’incanto Lenormant, anch’egli
turbato.
Maya seguì controvoglia verso il varco d’uscita i due ricercatori
lasciandosi alle spalle le voci di pietra. Ma là fuori, nelle distese senza
vita, le melodie dei granelli di sabbia li sorpresero con le tonalità diverse
prodotte dallo scontro delle particele silicee: il deserto marziano, uno dei
luoghi più silenziosi del sistema solare, dischiudeva alle orecchie umane il
verso impercettibile delle dune.
- Do maggiore, due ottave sotto il Do centrale... - balbettò
rapito Lenormant mentre arrancava alla volta del MEV.
E laggiù, dietro quella mesa, un Fa maggiore, mentre le dune
della piana cantavano in Sol minore. Più avanti, sul ciglio di Acidalia, l’onda
sonora come di un flauto o di un violino.
- “Il più bel canto che abbia mai udito” - rifletté Maya - “Un
suono pulito, un concerto di cui tutta questa terra desolata
risuona”.
Lei e Lenormant fecero ritorno sul veicolo: l’archeologo,
visibilmente scosso, cercava di razionalizzare l’esperienza sfogliando le pagine
elettroniche del palmare montato sull’avambraccio, alla ricerca di chissà
cosa.
- Non udite anche voi!? - la voce distorta di Morgensen proveniva
dall’esterno, solcato ormai dalle ombre lunghe del crepuscolo.
- Jarno, venga dentro! - ordinò la Lisi, seccamente.
Ma era tardi. La membrana vibratile di silicio, ferro e manganese
stava dissolvendo per il geologo i rulli di tamburi, il galoppo di cavalli e il
rombo di tuoni: la microfisica del deserto cedeva ineluttabilmente il passo ai
ventimila hertz della corona solare, agli archi magnetici dell’eliosfera
pizzicati da esplosioni immani. Fontane polifoniche di fuoco, estese per cento
milioni di chilometri, evocavano l’armonia delle sfere celesti.
- La cetra di Apollo…! - urlò Morgensen, correndo impacciato nei
movimenti dalla tuta in direzione di richiami invisibili.
Lisi e Lenormant lo osservavano dai monitor. - E’ completamente
impazzito… - sentenziò asciutto l’archeologo.
L’acuto delle aurore di Ganimede e il brusio ronzante dello
sciame delle Leonidi, il palpito regolare del basso di Xi Hidrae e l’organo a
canne della Nebulosa del Granchio, i fulmini, le tempeste e i cicloni di Saturno
avvolgevano con le loro emissioni possenti il giovane Morgensen, in grado adesso
di attingere alla traccia fossile del Big bang e ai suoi accordi
primevi.
-
No... - mormorò il Maggiore Lisi - Sta imparando ad ascoltare.
Terzo classificato al premio Galassia 2007