Il mangiapatate del Valhalla
Data: Domenica 22 giugno 2008
Argomento: Narrativa


un racconto di Giuseppe Iannozzi







Frans teneva una brutta nomea giù in paese: tutti lo additavano Giuda, un’ingrata fama per chiunque quella che Frans s’era fatta nel corso degli anni, porcata dopo porcata.
Io lo conobbi ch’era già vecchio. Francesco non era italiano: veniva dal Valhalla, così la chiamava lui la Germania di Hitler ed Eva, e ogni volta che ne diceva la riempiva di mitologia norrena, e soprattutto la portava dentro la Canzone dei Nibelunghi. Non poche volte finiva col tirare in ballo Schopenhauer e Nietzsche e Wagner e Sigfrido. Aveva visto i lager, e anche se non lo aveva mai ammesso con nessuno, forte era il sospetto che fosse stato un kapò. Non si chiamava neanche Francesco: in realtà era Frankobert. Però tutti lo si chiamava o Frans, all’italiana, o Giuda se lo si voleva prendere per i fondelli, e quando proprio non lo si voleva fra i piedi Crucco. Aveva ormai più di settant’anni, i capelli bianchi e tagliati corti ma ancora particolarmente folti; il volto non recava nessun segno di particolare bellezza, solo rughe sulla fronte ma nemmeno poi tante a volerle contare, occhi piccoli d’un nero inteso e profondo, labbra sottili; mascella debolmente volitiva con un che di cagnesco lungo gli zigomi, forse per via della barba che Frans teneva corta sempre curata al millimetro. Era un uomo grosso nonostante l’età: godeva di buona salute nonostante fumasse parecchio. Qualche volta s’era lamentato d’un’emicrania che non ne voleva che sapere di farsi da parte; aveva consultato il Dottore giù in paese e quello gl’aveva detto ch’era a grappolo, probabilmente d’origine ansiosa, dovuta alla tensione. Gl’aveva fatto fare delle analisi del sangue ma niente. Per scrupolo anche una tomografia assiale computerizzata: niente di niente, quell’uomo era sano come un pesce, perlomeno per le attuali conoscenze mediche. Non avendo ottenuto alcun risultato, Frans aveva sbottato un po’ pestando i pugni sulla scrivania del Dottore: poi s’era arreso, più per noia che per mancanza di coraggio e aveva promesso che avrebbe fumato qualche sigaretta in meno, ma in maniera più che recisa aveva rifiutato gli ansiolitici che gl’erano stati prescritti.
Le sue simpatie nazionalistiche non erano un mistero per nessuno: quand’era più giovane aveva dato del filo da torcere a un po’ tutti i socialisti e più d’una volta era venuto alle mani con sindacalisti e giovani sessantottini urlando proclami nazisti alle loro marce contro la guerra. Poi in Italia era scoppiato il terrore rosso, le Brigate Rosse, una scia di sangue che non mancò di portare la sua eco anche agli orecchi di Frans, il quale, neanche poi a torto, sputò in terra, in piazza davanti a tutto il paese, per proclamare che i brigatisti erano gli aborti d’un comunismo malato. Investì non poca foga per dare addosso ai fondatori delle BR, Alberto Franceschini e Renato Curcio definendoli peggiori di qualsiasi abominio al mondo e ch’era uno schifo che andassero in giro a piede libero dicendosi eredi della lotta partigiana. Disse pure che le BR volevano far fuori tutta la Democrazia Cristiana per instaurare una dittatura proletaria, al che tutti gli risero in faccia e molti se le presero di santa ragione. Ma il pasticcio accade quando le BR prendono Aldo Moro: il 16 marzo 1978 danno l’assalto in via Fani, a Roma, a l’auto su cui viaggia il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Tutt’e sei gli agenti della scorta vengono uccisi, Moro viene invece trascinato via dalle BR in un covo, in via Gradoli, sempre a Roma. Aldo Moro è al terzo piano d’un condominio, in una stanza dietro una libreria in attesa di subire il “processo del popolo”. A quel punto, anche chi non poteva vedere Frans per antipatia, per colpa delle sue idee, dovette allentare il morso: il rapimento di Moro era un fattaccio troppo grosso per lavarsene le mani e qualcuno, dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, senza dire nulla lasciò l’impegno comunista giù alla sede del partito. Furono non pochi quelli che dopo il dramma lasciarono la politica attiva per dirsi apolitici. Era la vittoria di Frans e la sconfitta della democrazia. Non bastano i posti di blocco allestiti in tutta Italia né serve che il MSI invochi la legge militare, né servono Giulio Andreotti ed Enrico Berlinguer per far fronte all’emergenza. Le BR diffondono un ultimo comunicato e l’8 maggio del settantotto, dopo cinquantacinque giorni di prigionia, Moro viene brutalmente ucciso. Il cadavere viene rinvenuto nel portabagagli d’un’auto rubata in via Caetani, in pieno centro dell’Urbe, simbolicamente tra Piazza del Gesù, sede della DC, e Via delle Botteghe Oscure, sede del PCI. Se ci furono quanti condannarono apertamente l’omicidio di Moro, di più furono quelli che con il loro silenzio fecero capire che così doveva essere.
 
* * *
 
Gli anni passarono, non furono facili e più d’una volta giù in piazza si venne alle mani e qualcuno perse più d’un dente. Ma appunto in un paese, per quanto grande sia, le cose rimangono in famiglia compresi rancori e invidie. Come si suol dire, i panni sporchi si lavano in paese. Frans attraversò incolume gli anni Ottanta e ne fece di cotte e di crude, più volte con l’inganno: una sorta di Jago shakesperiano ma più bastardo, un Giuda a tutti gli effetti. Quando non gli riusciva di mandare a gambe all’aria il nemico, allora lo prendeva da parte, gli sussurrava qualcosa all’orecchio e quello si menava poi la zappa sui piedi da sé. Frans teneva sempre l’orecchio bene in allerta: non c’era malignità di cui non fosse a conoscenza e alla prima occasione la sfruttava per mettere due contadini l’uno contro l’altro o due assessori, e via dicendo. Era un Giuda. Lo sapevano. Tutti lo additavano così. E tutti però lo ascoltavano, perché quando chiamati la curiosità era più forte d’ogni buonsenso.
Gli anni passarono e quello ch’era un semplice paese finì con l’acquistare vizi e malattie delle città: non che prima fosse tutto rose e fiori, ma dopo la grande crisi degli anni Ottanta, delle fabbriche chiuse, le strade allargarono i loro confini per dar riparo a loschi individui, perlopiù bosniaci. Arrivarono dall’Est le donne a fare la vita. I clienti locali non mancarono, anzi furono loro i primi ad approfittarne, a dare l’esempio e per questo furono ripagati con prezzi di favore. La prostituzione divenne una piaga e Frans, che odiava i bosniaci, diceva che oramai s’era in Sodoma e Gomorra. Per quanto fosse maligno Frans, non diceva poi il falso: il problema è che non tollerava le puttane bosniache, perché fossero state italiane ci sarebbe andato pure lui a inzuppare il biscotto. Ma con una bosniaca no, non ci sarebbe mai andato. E allora tempestava tutti, spettegolava alle loro spalle, si occupava di scappatelle e di altro ancora, poi riferiva: matrimoni e famiglie sfasciate per un brucior di ventre, e Frans ci godeva più che se avesse scopato con una donna. Far del male gli riusciva naturale. Una sera una puttana lo chiamò:
“Frankobert, che ci fa da queste parti?”
Frans aggrottò le sopracciglia: “Non quello che vorresti.” E fece per tirar lungo.
Ma quella lo richiamò. “Frankobert, non vuole scopare?”
“Non te.”
“A te non piacere noi?”
Frankobert finse di non sentire, ma quella continuò a chiamarlo con quel suo vocione rauco: e allora comprese.
“Tu sei un trans.”
“Trans e Frans!” E così dicendo scoppiò in una risata di gola.
Francesco ci vide rosso, o meglio vide nero e non ci pensò su due volte a correre incontro a quella. Prima che se ne potesse render conto era a terra con un labbro rotto e sanguinante, piagnucolante e isterica. Frans le aveva tirato un cartone con tutto il peso del corpo e se quella fosse stata una vera donna, poco ma sicuro, che le avrebbe spaccato la mascella. Ma anche così, per l’infelice fu un colpo che le fece inghiottire denti sangue e parole, le poche che sapeva in un italiano stentato. Frans avrebbe voluto suonargliele di santa ragione, ma quella s’era messa a piangere proprio come una donnetta e si stava facendo gente dappresso. In distanza sentiva i loro passi. Le assestò un paio di calci nel culo e come niente fosse, con calma, si ritirò nel buio ma insoddisfatto: prima o poi gliel’avrebbe fatta pagare, non se la sarebbe cavata con così poco.
 
Tre le trovarono morte, sgozzate: un sorriso da orecchio a orecchio. Ma nessuno in paese credeva che quel sorriso si potesse collegare a qualche organizzazione malavitosa nostrana. Era chiaramente un tentativo per depistare le indagini: chiunque le avesse fatte fuori a quelle poverette, doveva essere uno dell’Est, un pazzo, un Evilenko. Una di loro era un trans. Quando il fattaccio venne alla luce, Frans fu uno dei sospettati: ma a suo carico non c’era alcuna prova, così non si fece niente, neanche un mandato per frugargli nelle tasche. E Frans, in posizione di vantaggio, non mancò d’accusare i rossi, gli stalinisti, gridando ch’erano stati loro a portare la peste e che adesso stanchi d’avercela sempre fra le gambe s’erano decisi a farla fuori. In piazza si venne più volte alle mani: i paesani contro Frans, botte da orbi, denti che volavano e occhi pesti. Non intervenne nessuno, nemmeno le forze dell’ordine: che se la vedessero fra di loro finché avevano denti in bocca da sputare.
 
Ed intanto gli anni continuavano a staccarsi dal calendario; molti rancori vennero a galla, altri furono seppelliti insieme ai loro padroni e Frans la fece franca. Ma oramai era sul viale del tramonto, così almeno si credeva: non più giovane, era considerato al pari di uno dei tanti vecchi del paese. Francesco, o Giuda o Frans o Frankobert, era un vecchio con l’emicrania: ancora un uomo in forze, lo sguardo maligno del nazionalista convinto, la barba corta e curata al millimetro. Sì, era un uomo capace d’incutere timore. Lo conobbi per caso, diciamo pure così! Io ero arrivato da poco in paese e non sapevo granché, tranne che non mi piaceva molto il clima: l’istinto mi diceva che c’era qualche cosa di stonato, anche se non avrei saputo dire con precisione.
Ero seduto al bar, in piazza, accanto a Giuda che cercava di conquistarmi, arrivando al punto di offrirmi persino una sigaretta. Che accettai nonostante non fumassi più da parecchio tempo.
“Non dovrei fumare. Sempre questa emicrania. I dottori non capiscono…”, sbottò e mi fece accendere.
Tirai una generosa boccata: “Lei è un trapiantato.”
“Già. Gliel’ho detto: sono arrivato qui che ero giovane.”
“Non è vecchio.”
“Porto gli anni meglio di tanti altri. Ma non è essere giovani.” Buttò fumo dalle nari: “Pensa di trattenersi a lungo?”
”Non lo so.”
”Il famoso non lo so. E’ capitato pure a me. Ed eccomi qui.”
“Qualche rimpianto?”
“Non lo so.” E scoppiò a ridere. “Il fatto è che il paese è un vizio uguale alle città.”
“Credo di non capire. Se potesse…”
“Facciamo che ci diamo del tu: così è più facile… Che vuoi sapere?”
”Il paese è tranquillo.”
”Solo in apparenza. E’ un covo di vizi. Omosessuali, scambisti, puttane e comunisti. Un tempo tutta questi sarebbero finiti altrove…”
“Altrove, dove?
“Hai capito. Non fare il fesso.” E tirò fuori uno dei suoi sorrisi.
Aveva ragione: avevo capito, ma volevo che fosse lui a dirlo.
“Frans, perché mi hai raccontato la tua vita?”
”Forse solo perché volevo raccontarla a un giovane come te.”
”Non ho niente di speciale.”
“E invece sì. Hai la faccia dell’ingenuo. E io non mi fido degli ingenui. Era meglio che mi mettessi subito in chiaro con te. Potrai far fessi gli altri ma non me.”
Finsi di non capire.
“Hai capito benissimo. Ci stai provando…”
“Come?”
“Vuoi una confessione per poi sbattermi in prima pagina.”
”Non sono un giornalista.”
”Chi cazzo se ne frega! Però vuoi il mio culo. Ce l’hai scritto in fronte.”
“Tu non hai segni di rughe, una gran bella faccia…”
La battuta lo fece sorridere debolmente: “Sei spiritoso, ma non abbocco. Le rughe ci sono e io non ho fatto niente. E forse è proprio questo il problema: non ho fatto niente.”
”Che intendi?”
”Non credere che mi stia sbottonando.”
“Io non credo in niente, se questo ti può far piacere.”
Mi sorrise, come un diavolo di fronte a un angelo nudo e spennato, quasi con divertita pietà: “Lo vedi anche tu questo paese. Sono anni che ci sono dentro e non è cambiato. Gli anni sono passati, gli uomini con loro, ma niente di niente è cambiato veramente. La stessa mentalità di quando sono arrivato resiste ancora oggi. Come vedi sono colpevole di non essere riuscito a cambiare una virgola qui.”
“La cosa ti dà fastidio? E perché mai? Il paese non è tuo, intendo che tu non sei di queste parti, non te ne dovrebbe fregare delle opinioni di questa gente.”
”Te l’ho già detto, qui tutti scambisti e comunisti. Un vizio non diverso da quello delle città.”
”Non spetta a te giudicare.”
“Lo sai come mi chiamano?”
Scossi il capo.
”Te lo dico io come mi chiamano: Giuda. E sai perché?”
Imbarazzato ma non troppo, scossi di nuovo il capo.
“Perché mi hanno attribuito i loro crimini, quelli dei rossi. Ma io non sono dei loro. E’ chiaro?”
”Certo. Tu sei stato nei lager.”
”Infatti.” E non aggiunse altro: speravo davvero che gli sfuggisse un accenno ai lager, al suo passato di kapò e soprattutto se lo era stato e con quale ruolo. Ma i suoi settant’anni resistettero alla mia astuzia, che a lui doveva sembrare davvero tanto ingenua, divertente.
“Hai fatto qualche cosa di…”
Frans scoppiò in una risata cavernosa.
Dopo che si fu sfogato: “E tu saresti quello che non vuole da me una confessione! Ti ho detto che mi chiamano Giuda. Ma mi chiamano anche Crucco, e lo sai perché? Per prendere in giro i miei natali, la grande canzone dei Nibelunghi.”
”Non capisco.”
”Sei un furbetto.” Mi sorrise malevolo: “E patetico.” Sospirò. “L’hai vista questa gentaglia? Sono neri, come se fossero stati gettati nel carbone sin dalla nascita. Non c’è un solo centimetro di bellezza in loro, sono sporchi dentro e fuori. E sono comunisti.”
“E questo te li rende… antipatici?”
“Sono dei rossi e sono brutti. Guardali bene: sembrano i figli del diavolo.”
“Non ho mai visto un figlio del Diavolo. Credo sia un personaggio alquanto riservato.”
”I suoi figli sono i condannati. Tutta questa marmaglia finirà all’inferno prima o poi.”
”Allora non dovresti preoccuparti.”
“Io non mi preoccupo.”
”Non dai questa impressione. Perdona la franchezza, ma non sei quello che vorresti lasciare a intendere”; lo stuzzicai. “Sei una mammoletta. Come loro. Si vede che gli anni ti hanno rammollito.”
Tacque. Poi mi sorrise, un sorriso che mi fece arricciare l’anima: “Fai il furbetto, ancora. E’ un gioco che ti diverte. Peccato tu stia dalla parte sbagliata.”
”E quale sarebbe la parte giusta?”
”Il Valhalla è Giusto.”
Cercai di reprimere una smorfia, ma Frans se ne accorse: “Sei uno stronzo, lo sai?”
“Mi riesce bene.”
“E’ la sola, purtroppo per te. Direi che la nostra chiacchierata è terminata.”
”Hai fretta, Frankobert?”
“Perché sei venuto in questo luogo dimenticato da dio?”
”Per incontrarti.”
”Finalmente un po’ di sincerità.”
”Si dice che in questi anni non ti sei risparmiato: una porcata dietro l’altra.”
“E tu ci credi.”
”Non dico che non ci credo.”
“Sono in arresto? O hai intenzione di portarmi in qualche circo itinerante?”
”Nessuna delle due cose.”
“Che vuoi?”
”So benissimo quante volte hai fatto a pugni coi socialisti…”
”Se è per questo se le danno anche fra di loro…”
“Non è questo il punto. Tu sei…” Non volevo dirlo così ma glielo dissi: “…un sospetto.”
”Ti sbagli: un nazionalista, un tedesco. Io affronto la vita con coraggioso pessimismo, mentre tutti gli altri no: comunisti e cattolici al tempo stesso. Ciò che viene pensato è quella cosa al di fuori della vita terrena, quindi è priva di significato.”
“Il noumeno.”
”Le catene di Platone e di Kant.”
“Il Valhalla invece no…”
”Se all’umano si contrappone l’inumano, allo spirito saggio si contrappone quello malvagio e alla veracità si contrappone la menzogna, il mondo è essenzialmente diviso fra coppie di antagonisti.”
“Ζωροάστρης, Zōroastrēs”
“Cominci a capire. C’è un posto per chiunque venga scelto, ma è più semplice trovare un posto che entrarvi.”
“Le cinquecentoquaranta porte. Frankobert, tu sei malato.”
“Sei un dottore? Che ne sai tu del nuovo mito? Niente, niente come queste pecore in odor di socialismo.”
Rimanemmo in silenzio, a lungo, guardandoci negl’occhi, pronti a sbranarci.
 
* * *
 
Anno 2028 d.C.
 
Quella volta da Frans non ci ricavai nulla. A mani vuote ero andato a incontrarlo, forte solo della mia ingenua giovinezza, e a mani vuote ero tornato indietro, o meglio: con la coda fra le gambe. Non ebbi più modo d’incontrarlo. Avevo fallito miseramente.
Ma gli anni cominciarono ad accumularsi anche per me e con essi le delusioni. L’Italia la vidi cambiare radicalmente, non sono mai stato un patriota, però mi fece male vedere che i poveri, nel giro di trent’anni o poco più, diventarono la maggior parte della popolazione. Con gli anni i Governi che si avvicendarono furono sempre più di manica larga verso gli extracomunitari, i clandestini e i profughi: il paese si riempì di tante e tante etnie, e tutti volevano un pezzo della bengodi, ma l’Italia era sol più un territorio per metà ridotto a mero deserto e per l’altra metà povero in canna, insomma nulla che potesse aver a che fare coi reality show e le soap-opera passate sul Satellite di Stato che mostravano una terra ubertosa, di donne belle e giovani e di soldi facili. La realtà era ben diversa: il paese era finito sotto i colpi della rivolta civile più volte senza concludere nulla, le strade erano prese d’assalto da disperate lotte fra poveri. La legge non interveniva: nessun poliziotto aveva voglia di rischiare la pellaccia per sedare una rissa fra cinesi slavi italiani. I negri erano quelli che più se ne stavano tranquilli: bastava non pestargli i piedi, lasciarli liberi di spacciare, lasciarli liberi d’aggregarsi ai pusher nostrani. I Governi, solo all’inizio, tentarono d’arginare l’afflusso di clandestini, poi lasciarono che cani e porci entrassero: i controlli sulle coste furono smantellati nel giro di pochi anni, e i pochi rimasti a controllarle chiudevano sempre tutt’e due gli occhi, in non pochi casi per sempre con una pallottola in fronte.
A causa del buco nell’ozono, l’inquinamento fece del cielo un largo sudario grigio, onnipresente: al mattino uno si svegliava già madido di sudore con le lenzuola appiccicate al corpo, fuori c’erano già venticinque gradi e l’umidità era sempre non inferiore al novanta per cento. Durante il giorno la temperatura saliva fino a quaranta gradi e oltre. Ma i pochi che potevano permettersi d’andare in macchina non lesinavano sulla benzina, nonostante questa avesse oramai toccato costi proibitivi, più dell’oro. I pochi ricchi si spostavano solo in auto: il più delle volte ne possedevano un’intera scuderia, garage con dieci o venti automobili e tutte diverse. I poveri utilizzavano, per forza di cose, i mezzi pubblici vecchi di almeno cinquanta anni. Ma avevano pure le loro carrette, vecchie macchine capaci di tirare fuori l’inferno dal tubo di scappamento. Erano mezzi illegali, ma a nessuno gliene fregava granché. Motori truccati che inquinavano l’aria, e i morti di cancro ai polmoni ogni giorno non si contavano neanche più. I governi, tutti ammantati nell’aura d’un presunto socialismo, lasciarono che i poveri si ammazzassero pure fra di loro: l’importante era che potessero riempire le loro pance. I generi alimentari non geneticamente modificati avevano prezzi proibitivi, solo i politici e pochi altri con le mani in pasta se li potevano permettere; per tutto il resto della popolazione c’erano gli OGM, così si era finito col chiamare ogni cosa, dal panino alla sportina di broccoli.
 
All’inizio fu solo una voce, poi, dopo due anni, nessuno metteva più in dubbio che i palazzi governativi fossero diventati postriboli con tanto di maitresse e prostitute ordinabili 24 ore su 24. Solo all’inizio qualche giornale osò parlare di scandali sessuali; poi tutto fu insabbiato. E quando tutti lo seppero che Palazzo Madama era un unico grande covo di vizi, nessuno disse più nulla e nessuno parlò più di scandalo. Che Palazzo Madama fosse diventato un postribolo di lusso non sconvolgeva più la coscienza di nessuno; in strada si moriva di caldo, di fame e di coltellate, a chi gliene poteva fregare che Sodoma e Gomorra fossero risorte alla luce del sole?
 
Ebbi modo di pensare a Frans, anzi a Frankobert: mi chiedevo se fosse stato veramente colpevole degli assassini nei campi di concentramento nel ’39 - ’45. Doveva essere finito sottoterra da un bel pezzo… Ma un giorno ricevetti una telefonata: il centralino non seppe dirmi di più, solo se accettavo la chiamata a mio carico. A malincuore accettai. La voce era arrochita, ma era indubbiamente quella di Frans. Fu breve, mi chiese d’incontrarlo, allo stesso posto…: “Dovresti essere sottoterra da un pezzo, Francesco.”
“Ti è andata male. Sono vivo e vegeto”. E riattaccò.
 
Frans non era cambiato. Era come se gl’anni per lui non fossero passati affatto. Aveva la stessa aria grigia e temprata di quand’era un settantenne. Lo fissai non poco sbigottito, poi gettai lo sguardo sulle mie mani incartapecorite, livide, quelle d’un vecchio; e in quel preciso momento mi convinsi che Frankobert per mantenersi così doveva aver stretto un patto col diavolo.
Mi salutò strizzando gli occhi. “Ci si rivede.”
“Ne è passato del tempo.”
“Già! Con te è stato impietoso.”
Non me l’aspettavo. Frans non si preoccupò di addolcirmi la pillola, anzi: “Adesso sembri più vecchio di me. E malmesso anche a salute scommetto. Io, la solita emicrania. C’ho fatto il callo.”
E scoppiò a ridermi in faccia.
“Perché mi hai chiamato?”
”Perché non sono cambiato secondo te?”
Mi strinsi nelle spalle. Non avevo una spiegazione plausibile: il livore mi consumava, vederlo lì, fresco, uguale a come tanti anni prima l’avevo lasciato.
“No che non lo sai. Il mio sangue è puro, non come il tuo.”
“Puro”, ripetei meccanicamente.
“Esatto. Puro. La mia famiglia è d’un ceppo puro al cento per cento. Nessuno del nostro ramo si è mai accoppiato con un debole, con uno che non fosse genuinamente tedesco.”
“Non significa niente.”
”Significa invece. Credi che l’arianesimo fu tutta una cosa sporca per fare fuori gli Ebrei, i politici scomodi, gli omosessuali, vero? In parte fu anche questo. Ma l’arianesimo fu soprattutto la ricerca della purezza della razza, perché solo tramite la purezza del sangue l’uomo può essere realmente forte. Come me.” E si batté il petto con un pugno. “Ti chiedevi anni fa se avessi visto i campi di concentramento. Li ho visti. Ci sono stato dentro anche.”
“Adesso non è più importante.”
“No, invece lo è. A me non interessavano gli Ebrei, né le docce. Fosse stato per me li avrei confinati in una regione tutta per loro e morta lì. Hitler era un pazzo. Ma è stato anche un uomo di grande acume. Quel piccoletto scoglionato, nero e brutto come la fame, comprese che il sangue puro è l’unica medicina per fare l’uomo forte nei secoli dei secoli. Quello che invece non comprese è l’intelligenza altrui, anche di quelli col sangue misto e sporco come il tuo. E’ stato questo suo non capire la sua rovina.”
“E’ un cumulo di idiozie.”
“Se è come dici, perché io sono ancora qui e tu hai già un piede nella fossa? Sei sicuro che sia solo un cumulo di idiozie?”
Non sapevo che rispondergli. “Guardati intorno. Il mondo è cambiato. Non c’è più traccia di sangue puro. I vampiri sono morti di fame! E sai perché? Perché il sangue misto è uno schifo, non dona l’immortalità né contribuisce a rendere la razza umana più forte. Gli incroci di etnie diverse sporcano il sangue, lo avvelenano di tare genetiche.”
”Non è vero”; ribattei debolmente tenendomi a distanza da quell’essere mostruoso, che eppure m’affascinava. “Non è mai stato dimostrato…”
“Dimostrato, che cosa? Pretendevi forse che qualcuno ti venisse a dire che a forza di incroci l’uomo s’indebolisce?”
“E’ dimostrato che riprodursi all’interno d’una ristretta cerchia porta nelle generazioni venture tare genetiche, come l’emofilia, l’albinismo…”
“Sei proprio un ingenuo. Non parlo di scoparti tua madre o tua sorella o tua cugina per avere una sana discendenza. Parlo di tutt’altro. Parlo d’un sano accoppiarsi fra tedeschi di Germania. Di rimanere all’interno della propria razza frequentando famiglie sane nel corpo e nella mente. Di questo parlo. Non parlo di inutili e bestiali incesti medioevali.”
“Frankobert, hai le prove di quello che dici?”
Mi sorrise in modo strano. Si alzò dalla panchina dov’era seduto. Era dritto come un fuso: per lui gl’anni era come se non fossero passati. Solo qualche ruga in più sulla fronte da come lo ricordavo, e forse la mia memoria faceva pure cilecca, mentre io ero gobbo, tremante, col cuore malmesso e non avevo neanche la metà dei suoi anni.
“Sono io la prova, vivente per giunta. Non è abbastanza?”
Scossi il capo.
Non volevo credere che quella fosse la spiegazione.
Non poteva essere come diceva Frans.
“Il patto con il Diavolo!”
“Chiamalo pure così se vuoi, ciò non toglie che questa è la verità.”
“Che farai?”
“Non sono l’unico.”
“Lo sospettavo…”
“Che farete dunque?”
“Abbiamo tempo.”
“Capisco.”
“Non ti preoccupare. Quando il mondo cambierà tu sarai sottoterra già da un pezzo.”
“Avresti dovuto dirmelo tempo fa…”
“Quand’eri ancora giovane. Ora sei solo un vecchio noioso. Un trombone, vero?”
“L’anzianità non viene ben vista… se è questo che intendi.”
“Ti irridono per le tue idee. Eppure andavano di moda.” Scoppiò a ridere: “Ma oggi non più.”
“Non sono cambiate le mie idee, solo il corpo mi ha abbandonato.”
“Se non hai un buon corpo, e tu non ce l’hai più, non hai neanche più una mente che si possa dire sana.”
“Mangiapatate del cazzo!”, farfugliai. Il petto mi bruciava. Mi portai una mano sul cuore, mentre Frankobert mi osservava con occhio cinico.
“Ecco la fine che farete tutti. Resisteranno solo i più forti, perché hanno capito che la purezza è la sola medicina per resistere alla vita. La vita non è socialismo né comunismo, che portano l’uomo a mischiare il proprio sangue con cani e porci.”
“Non è così… Cuba, per esempio…”
“Cuba è ancora sotto embargo. I cubani scopano con i cubani. Non fosse stato per l’embargo, a quest’ora avrebbero tutti il sangue annacquato e malato, come il tuo.”
“Mi stai suggerendo che…”
“Ci hai preso. E’ stato la loro fortuna più grande. Quella cazzo di isoletta forse se la caverà, ma non per merito del comunismo. Solo perché è stata una cellula isolata dal mondo, sino a ora. Il comunismo è poi solo una parola masticata, che passa di bocca in bocca, come un chewingum, null’altro. Una parola.” E così dicendo scoppiò a ridermi in faccia mentre il bruciore al petto andava intensificandosi.
 
Quando ripresi conoscenza la faccia di Francesco era sulla mia.
“Hai avuto un infarto”, mi disse subito senza mezzi termini. “Fossi in te non ci proverei neanche ad alzarmi. Me ne starei bello straiato per terra. Non che questo ti salverà la vita, ma forse qualche ora in più riesci a fartela, per il Diavolo!”
“Credo tu abbia ragione…”, bofonchiai.
“Certo che sì.”
“Dove… dove siamo?”
“Dove ci siamo incontrati.”
“Fa freddo.”
“L’aria serotina è fredda. Il tramonto sta scavando le montagne. Uno spettacolo. Per te niente Valhalla… Uno spettacolo davvero.”
Poi tacque. E anch’io.






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