(Paisaje con grupo y mujer)
un racconto di RAMIRO SANCHIZ
La vidi attraversare la strada con passo indeciso, il vento che castigava il suo lungo soprabito grigio. Camminava con aria confusa guardando verso il mare, guardando il cielo, guardando il volto delle gente che passava ignorandola, perduta nell’inverno. Qualcosa nel suo viso mi sembrava prepotentemente familiare, come il peso di un destino con il quale presto o tardi avrei fatto i conti. Mi avvicinai perché sentivo di doverla aiutare. Iniziai a domandare se potevo fare qualcosa per lei, ma mi interruppe con voce decisa e al tempo stesso stanca, una voce corrosa dal tempo.
— Cerco il Museo di arte contemporanea di Ventomedio, disse. Può mostrarmi come arrivarci?
La domanda mi sorprese. Le dissi che il muso non era lontano, si trovava nello stesso quartiere. Le chiesi anche se si sentiva bene, aspettò un attimo a rispondere.
— Avrei voglia di qualcosa di caldo da bere, disse cercando di sorridere. Forse può invitarmi, la verità è che non ho denaro.
La condussi al caffè più vicino, guidandola per il braccio. Sembrava stremata, tutta l’energia concentrata negli occhi, che luccicavano nel vedere la città, determinati a non perderne un solo dettaglio.
— Non conosce Ventomedio? — Le domandai mentre prendevamo posto davanti alla finestra.
— No, non sono mai stata qui, mai. Però ho bisogno di vedere un quadro che è nel Museo di arte contemporanea. È... difficile da spiegare.
La invitai a provarci.
— Però mi dica il suo nome. Sento che se devo raccontarle la mia vita, sarebbe bene almeno... — e provò a ridere, ma si trasformò in un breve accesso di tosse.
— Desidera mangiare qualcosa?
— No, per ora no... Forse dopo, se lei ha fame...
Chiamai un cameriere e chiesi due caffè macchiati con croissant, poi mi presentai e le dissi che sono uno scrittore.
— Mi verrebbe da dire che mi ricordo. Forse ho visto al mio paese natale qualcuno dei suoi libri, anche se non posso esserne sicura. A ogni modo non sono una grande lettrice. Mi sono dedicata a altre arti: la pittura, la scultura... Però tempo fa. A volte lo ricordo come un sogno, un sogno nel quale disegnavo e dipingevo.
La sollecitai a dirmi di più della sua vita. Aveva fatto un lungo viaggio in treno dalla sua città natale con il proposito di visitare il museo e trovare quel quadro. Ogni volta che tentavo con le mie domande di chiederle perché quel particolare quadro, uno degli ultimi del periodo postmuralista di Alasdair Gray, nella fattispecie la terza delle Vedute di Unthank, diventava evasiva e si limitava a evocare ricordi remoti e vaghi. Concluse dicendo che per tutta la vita aveva provato qualcosa per questo dipinto, che di fatto non ricordava un momento in cui ancora non lo conoscesse. Era stato parte della sua vita, come il nome di suoi genitori o il suo volto stesso. Menzionò di passaggio un figlio e un divorzio, come dettagli senza importanza. Bevve il caffè e mi incoraggiò a raccontarle qualcosa del mio passato; però notai che lo faceva per compiacermi, trasudava noia per ogni cosa che la allontanasse dal quadro di Gray. Sembrava che avesse passato la vita studiando quel dipinto: era in grado di descriverlo nel dettaglio, anche se confessava che la sua memoria aveva dei vuoti, che a volte chiudeva gli occhi e dubitava se fossero quattro le figure umane nel paesaggio oppure tre, come se due quadri coesistessero nella sua memoria e lei stessa fosse incapace di decidere senza cercare conferma nei libri, e ora per la prima volta nel museo. Da parte mia, mi assalì il medesimo dubbio: ricordavo a malapena una lunghissima strada che si perdeva nel mare, fiancheggiata da alti edifici marrone simili a arieti contro la muraglia plumbea di un cielo tempestoso, e tre figure che osservavano il vuoto, o le stesse figure che ne guardavano una quarta, un volto di donna.
— Andiamo, le dissi.
Da un pezzo avevamo terminato i due caffè e i croissant, e lei brillava rianimata. — Il museo chiude fra 40 minuti.
Pagai il conto e uscimmo. La temperatura era scesa e il vento portava un forte odore salmastro. Ripiegai, come sempre all’ora del crepuscolo, verso le piccole luci calde alle finestre delle case. Lei parlava del dipinto, di quante volte lo avesse ricopiato particolare per particolare, del desiderio crescente di trovarvisi davanti di persona, di posare lo sguardo sulle pennellate, seguendo le tracce della volontà del pittore. Lo diceva con un fervore quasi erotico, pero nella maniera in cui ricordiamo gli amanti di un tempo, senza passione, quasi rassegnati, sorridendo eppure tristi.
Arrivammo al museo. C’era la mostra di un contemporaneo, un pittore locale di Ventomedio che rendeva omaggio a Hieronimus Bosch con una serie di dipinti a olio e collages, per la maggior parte riferibili a Il giardino delle delizie e Le tentazioni di Sant’Antonio. Fendendo la folla, guidati dal mio ricordo dell'ubicazione dei dipinti, attraversammo la sala della seconda metà del XX secolo, arte pop, iperrealismo, neoclassicismo, postmodernismo. C’era un’intera sala dedicata quasi completamente a Alasdair Gray. Ci fermammo, anzi mi fermai mentre lei rimaneva al mio fianco, davanti ai murali del ciclo di Lanark, e in quel momento compresi che da anni non vedevo quei quadri, quasi mi fossi deliberatamente astenuto dalla loro contemplazione, chissà perché. Al tempo stesso sentivo che l’intensità del mio sguardo equivaleva a una scoperta, che quei dipinti si riordinavano davanti a me come un mondo nuovo.
— Mi creda, — le dicevo, — è come se vedessi questi quadri per la prima volta. Anche se li conosco da tempo, credo di non essermi mai soffermato a contemplarli in questo modo. Sarà stato forse il suo entusiasmo a contagiarmi.
— Lei assentì.
— Però andiamo a vedere il quadro che cerco, disse, poi lei potrà tornare qui.
Aveva una voce grave e cavernosa. Lasciai che mi conducesse all’altro estremo della sala, dove si intravedevano quadri di formato minore. Quello che cercava, la veduta della città di Unthank, risaltava tra due paesaggi di Glasgow. Si mise quasi a correre, balzando quasi, e la seguii con gli occhi fissi sull’immagine della città, la via che si perdeva nel mare, ondulata come se seguisse le linee di una collina. C'erano tre figure umane con volti che sembravano rigidi per il freddo. Due di esse guardavano la terza, il cui sguardo si perdeva in un punto vuoto del quadro; qualcosa nell’immagine mi ricordò Ventomedio, la Ventomedio invernale che ci aspettava fuori. Sperimentai la sensazione che molti chiamano dèja vu, mettendola in relazione con altre vite o altre esistenze, con i sogni e l’eternità. Il quadro aveva cominciato a catalizzare implacabilmente la mia attenzione, la stessa sensazione provata davanti ai murali. Mi stupii della maestria nella scelta della paletta di colori, della composizione tumultuosa, le pennellate decise ai bordi del quadro, spazzolando i colori come se l’atto di dipingerlo fosse stato animato dal medesimo vento gelato suggerito dalla scena. C'era una minuscola iscrizione nel bordo inferiore destro: now my maps are out of date; mi ricordò qualcosa che avevo letto, o scritto, molto tempo prima. Stavo per raccontarlo alla donna quando scoprii che non era più lì. Trasecolai. Mi guardai alle spalle e non c’era, neppure davanti agli altri quadri. Solo allora mi resti conto che nel dipinto c’erano quattro figure (c’erano sempre state, era la composizione stessa a suggerirlo) e che l’uomo che ricordavo guardasse il vuoto in realtà guardava una donna sui trentacinque anni, capelli biondo chiaro, vestita con un lungo soprabito grigio. La donna sorrideva, gli elementi del quadro (edifici, autovetture, le altre tre figure, le nuvole) turbinavano sullo sfondo, come se fosse al centro di un vortice o, meglio, come se il dramma nei suoi occhi fosse l’occhio di un uragano.
Decisi di andarmene. Mi sentivo come in un sogno. Attraversai i vasti saloni del museo, mi introdussi nella folla di ammiratori di quel pittore che esponeva il suo omaggio a Bosch quasi cercando di dissolvermi fra loro. Una cameriera mi piantò davanti al petto un vassoio con coppe di vino bianco. Ne presi una e bevvi appoggiato a una colonna. Cominciavo a sentirmi nauseato. Pensai che l’aria fredda potesse rianimarmi, al tempo stesso avevo paura di uscire alla città, di rivedere quegli edifici, le strade che si perdevano nel mare, la gente perduta nell’inverno. Credetti che una cosa potesse salvarmi: il timido calore delle luci alle finestre. La gente andava e veniva parlando di Michelangelo, di Bosch, di Bacon: mentre uscivo, un ultimo sforzo di agganciarmi al senso comune mi portò a cercare trai volti quello della straniera. Non la trovai. Compresi allora perché la sua faccia mi risultasse tanto familiare: l’avevo vista, molti anni prima, in quel quadro di Gray.
Titolo oroginale: Paisaje con grupo y mujer
traduzione di Franco Ricciardiello
Ramiro Sanchiz è nato nel 1978 a Montevideo (Uruguay). Esordì sulla rivista uruguayana di fantascienza Diaspar e in seguito publicò su Galileo, Ad Astra e sull’argentina Axxón, dalla quale è tratto il presente racconto. Nel 2008 è apparso su diverse antologie di giovani autori e ha pubblicato in Spagna il romanzo “01.lineal”. I suoi autori preferiti sono Alasdair Gray, Philip Dick, William Burroughs e l’uruguayano Mario Levrero. Inoltre è assiduo lettore, tra gli altri, di James G. Ballard, Jorge L. Borges, Angela Carter e Roberto Bolaño. A maggio uscirà a Montevideo il romanzo “Perséfone”. Attualmente ha anche un blog personale:
Aparatos de vuelo rasante
FRANCO RICCIARDIELLO
“Vedute di Unthank” di Alasdair Gray
Non esiste in realtà nessun dipinto intitolato Veduta di Unthank, tuttavia pochi lettori sanno che Alasdair Gray, l’autore del quadro citato nel racconto di Ramiro Sanchiz, è un personaggio realmente esistente, anche se pressoché sconosciuto in Italia. In realtà si tratta una delle massime personalità della cultura scozzese, fautore di un possibile rinascimento letterario della sua patria. Nato nel 1934 a Riddrie, un sobborgo orientale di Glasgow, è autore di una vasta serie di murales in locali pubblici quali chiese, sinagoghe, pub; molte delle opere più vecchie sono andate distrutte con le ristrutturazioni, ma negli ultimi tempi Gray si è incaricato di restaurarne alcuni sopravvissuti. A partire dal 1981 si è dedicato prevalentemente alla letteratura, concedendosi però ancora di illustrare i propri libri. La sua opera più nota è il romanzo d’esordio, “Lanark: a life in four books” (1981, inedito in Italia) alla cui stesura si dice abbia lavorato per 25 anni: il protagonista è un uomo che arriva in treno nell’immaginaria città di Unthank, è che non avendo nome decide di chiamarsi come la foto vista nel compartimento del vagone: Lanark (che tra l’altro è la città scozzese dove Alasdair Gray visse da giovane, sfollato con la famiglia a causa della guerra). Unthank è un luogo orribile, non vede mai la luce del sole, i suoi abitanti vivono del sussidio di disoccupazione. Lanark riacquista poco per volta memoria di una vita precedente: è infatti la reincarnazione dell’artista Duncan Thaw, la cui esistenza al contrario si svolge nel “nostro” mondo (a Glasgow per la precisione), e che termina con il suicidio dopo il naufragio delle ambizioni artistiche.
Al momento di compilare la sua lista dei 99 migliori romanzi in lingua inglese dopo il 1945, quella vecchia conoscenza dei lettori di science fiction che è Anthony Burgess scrisse che “Lanark” è “il romanzo traumatico della lingua moderna” e lo paragonò a “Ulisse” di Joyce. Come molti capolavori del postmoderno, il libro è decisamente eccentrico, permeato di dark humour, ossessionato dal fantasma dell’ingiustizia sociale (Alasdair Gray è un fervente socialista).
Per chi volesse approfondire:
http://www.lanark1982.co.uk/bio.html - Biografia [in inglese] di Alasdair Gray
http://www.carmillaonline.com/archives/2003/05/000226.html - Recensione [in italiano] apparsa nel 2003 su Carmillaonline