VITA IN LETTERE (Agosto)
Data: Martedì 22 settembre 2009
Argomento: Saggistica


di Franco Ricciardiello

Libri comprati:
Georges Simenon, “Maigret tend un piège” (Livre de Poche)

Libri letti:
Un nuovo romanzo di Thomas Pynchon è comunque e sempre un avvenimento letterario, ma per il pynchonfan si tratta di un evento da pregustare con trepidazione. È con questo sentimento che ho atteso pazientemente la traduzione di Contro il giorno (Aganist the day, 2006), il primo romanzo pubblicato dal 1998. Non si può infatti dire che Pynchon sia un autore prolifico, con soltanto una raccolta di racconti giovanili e sette romanzi dal 1961 a oggi — l’ultimo dei quali, Inherent vice, è uscito negli USA soltanto il 4 agosto scorso.
La domanda preferita che trastulla il pynchonfan durante questa attesa è: “come sarà il prossimo Pynchon?” Magari soddisfa parzialmente la curiosità sbirciando le recensioni d’oltre oceano, ma è un gioco futile perché con il Nostro vale come per pochi altri autori la Regola n. 1 del Postmoderno: “più importante di cosa si dice, è il come lo si dice.”
E poi un bel giorno il romanzo è lì davanti a te nella vetrina della libreria, monumentale con le sue 1127 pagine di grande formato, eccessivo nel prezzo (€ 32, ma per il pynchonfan questo è un dato relativo), elegante nella sua rilegatura con costola di tela rossa, semplice e terrificante con tutto quel bianco e l'antico sigillo che forse rappresenta Shambhala, la favolosa città perduta del buddhismo tibetano.
E infine, a quale Pynchon somiglia? Come la maggior parte dei romanzi che l’hanno preceduto, Contro il giorno segue una narrazione sequenziale, cronologica: ciò che interessa l’autore è la digressione spaziale, non quella temporale (il flashback). Sono quasi totalmente assenti le figure grammaticali che hanno fatto la fortuna del “realismo magico” sudamericano, analessi e prolessi. Pynchon segue un altro procedimento, che potremmo definire con le parole del curatore di uno dei tanti siti anglofoni dedicati all’autore americano: “come diavolo sono arrivato qui da dov’ero prima?” Stai leggendo per esempio un dialogo, e improvvisamente ti rendi conto di trovarti da un’altra parte, distante nel tempo e nello spazio e magari con un protagonista differente: e da a qua sei arrivato per progressivi, impercettibili slittamenti, come piccoli anacoluti costruiti uno dentro l’altro. Un procedimento evidentemente più affine alla metonimia che alla metafora.
Contro il giorno ha inizio nel 1893 e termina poco dopo la Grande Guerra. La periodizzazione storico-letteraria è volutamente confusa, infettata da slittamenti verso un mondo “altro” (piuttosto che una Storia alternativa o ucronia): si prenda per esempio il crollo del campanile di San Marco a Venezia a causa di un siluro aereo durante una battaglia tra l’aeronave americana e quella zarista. Il particolare prevale sempre sul generale in un procedimento stilistico che è la sublimazione della sineddoche. La narrazione si muove seguendo i protagonisti nei loro spostamenti da occidente verso oriente, “contro il giorno” appunto. Dalla frontiera del West americano fino alla vecchia Europa: Inghilterra e Germania, poi l’Italia e la penisola balcanica, con una breve puntata in un’Asia centrale più favolosa che reale.
A differenza del linguaggio ricco, elaborato, reticente di Mason & Dixon o de L’arcobaleno della gravità, questo romanzo recupera lo stile più semplice di Vineland e di quel mitico V. , ormai lontano 45 anni, agli albori del postmoderno come categoria estetica. Il punto di vista del “narratore onnisciente”, che ha reso assolutamente pirotecnica la scrittura di Thomas Pynchon, rimane in un angolo. Sono (quasi) completamente scomparse le intrusioni metafisiche, e comunque i riferimenti a un mondo “altro” (tranne naturalmente il pianeta nascosto dietro il sole che l’equipaggio dell’aeronave Inconvenience visita “sfruttando una corrente ascensionale particolarmente potente”).
La trama non è difficile da riassumere: Colorado, fine XIX secolo, l’attivista anarchico Webb Traverse viene assassinato da un sicario del magnate Scarsdale Vibe; il romanzo segue le vicissitudini dei quattro figli Traverse fino al termine della prima guerra mondiale. L’unica femmina vive una travagliata fuga d’amore proprio con l’assassino del padre; i due maschi vivranno in esilio tra Messico e Europa, intrecciando amore, sopravvivenza e vendetta in un mondo gravido di presagi sull’imminente scontro universale; l’ultimogenito, Kit, accetta una borsa di studio di Scarsdale Vibe per studiare prima sulla East Coast e poi a Gottinga, la cui università è il centro nevralgico della matematica avanzata; ma quando prende coscienza del compromesso che ha dovuto accettare fugge in Italia (Domodossola e Venezia, poi Torino) e viene coinvolto nelle guerre dei Balcani. Il tema della vendetta contro il mandante dell’assassinio di Webb è il Leitmotiv tutta la narrazione, ma ricordiamoci che l’autore è Thomas Pynchon, quindi non dobbiamo aspettarci una soluzione pirotecnica né coerente: in fondo alle 900 pagine de L’arcobaleno della gravità il russo Čičerin incontrava finalmente il fratellastro Enzian ma non lo riconosceva. Così pure, la guerra mondiale che aleggia come un presagio non avrà alla fine alcuna rilevanza nella narrazione, anzi il lettore la vedrà “dall’alto” di un’aeronave e condensata in un breve capitolo, oltretutto senza che sia specificato se scoppia sul nostro mondo o sull’altro nascosto dietro il sole. È evidente l’intenzione di Pynchon di dare rilievo ai dettagli e attutire la visione d’insieme: la migliore chiave di lettura di Contro il giorno è infatti l’itinerario sfinciuno, la mappa (apocrifa) dell’Asia centrale stilata da esuli veneziani emigrati sulle orme di Marco Polo, che dovrebbe mostrare anche la via per la mitica Shambhala: le indicazioni e i simboli sulla carta diventano leggibili solo se osservati tramite una lente particolare, prodotta dagli artigiani dell’Isola degli Specchi a Venezia. È una deviazione meccanica dunque, uno slittamento della luce a produrre significato: in fin dei conti, un’altra metonimia. Come visto, la metafora, la figura retorica per antonomasia del linguaggio figurato, è meno interessante per Pynchon: il suo stile è quanto di più distante si possa immaginare dalla poesia. Intorno al tema della luce e della sua deviazione si sviluppa una serie di interessanti digressioni: c’è un minerale, lo Spato d’Islanda, che riappare periodicamente nella narrazione, quasi sempre a giustificare un piccolo scostamento dalla realtà. La reticenza stilistica di Pynchon va di pari passo con il suo interesse per i complotti dei servizi di intelligence, tema recuperato da V. , da cui ha riciclato anche il topos della città perduta (Shambhala al posto di Vheissu). Sullo sfondo rimane il grande tema del romanzo, forse la ragione per cui ha scelto di ambientare la storia proprio tra la seconda rivoluzione industriale e la grande guerra: l’età dell'oro del capitalismo e la sua sanguinosa fine, lo scontro tra proto-globalizzatori (Scarsdale Vibe) e proto-antiglobal (gli anarchici); non c’è dubbio che per Pynchon il capitalismo puro è finito con lo spezzarsi dell’alleanza tra le religioni di Stato e gli Stati industriali (si veda come esempio il cristianesimo conservatore di Vibe); dopo ci sono stati i Soviet, Roosevelt e il fascismo. La grande Storia non è finita, come scrisse Francis Fukuyama, con la caduta del muro di Berlino, bensì oltre mezzo secolo prima: infatti uno degli Sconfinanti, profughi fuggiti dal futuro grazie alla macchina del tempo, anticipa a Kit Traverse che “le Fiandre saranno la fossa comune della Storia” (p. 580), a quanto pare non soltanto di quella universale ma anche della piccola storia raccontata dal romanzo, questo complicato itinerario sfinciuno che è la letteratura di Thomas Pynchon.






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