Yupanqui
Data: Domenica 04 ottobre 2009
Argomento: Narrativa


un racconto di Claudio Tanari

Don Juan è il brujo, un vecchio col viso da bambino.

Quando nella capanna di paglia cala la sera Don Juan chiede una bottiglia di aguardiente; dopo una lunga sorsata passa il liquore ai guerrieri Yagua accovacciati intorno a lui. Il brujo posa la bottiglia da una parte e si accoscia, aiutato da un giovane sciamano, vicino al bacile fissato su un tripode davanti ad una nicchia di legno che ospita l'immagine della Madonna, un crocefisso, una statua di Pacha in legno, piume e pacchetti legati con nastri colorati.

Don Juan rimane lì seduto senza muoversi per parecchio tempo: non si può mettere fretta a un brujo. Beve un altro sorso. Le donne si ritirano dietro una parete di bambini mentre lo sciamano comincia a cantare sopra al bacile; frusta l'aria con una liana di ayahuasca per spazzare via gli spiriti maligni che avessero voglia di fare un bagno nell’infuso. Dopo l’ennesima bevuta Don Juan si pulisce la bocca continuando a ondeggiare il busto al ritmo della cantilena. Alla fine scopre la pentola e pesca un mestolo di liquido nero; lo offre in una tazza di plastica: il liquido è oleoso e traslucido, tutti lo bevono d'un fiato, afferrati quasi subito dalla nausea. Uno dei guerrieri restituisce la tazza allo stregone che beve col suo giovane sciamano, insieme agli altri mandano giù l’intruglio vischioso. Dopo un paio di minuti un'ondata di vertigine li travolge e la capanna si mette a girare vorticosamente. Lampi azzurri. Teste severe di anziani intagliate nei pali di sostegno cantano con voce profonda, Don Juan dondola e sibila come un cobra; il più giovane degli Yagua deve vomitare, e si lancia verso la porta andando a sbattere con la spalla contro una trave; sente l'urto ma nessun dolore. Cammina a fatica, senza coordinazione. I piedi come blocchi di pietra. Vomita appoggiandosi contro un albero e cade intorpidito come avvolto da strati di nuvole. Adesso esseri viscidi gli passano davanti agli occhi in una nebbia azzurra, ognuno di loro squittisce. Li osserva meglio, malgrado l’istupidimento: le mani palmate, impugnano bastoni che sputano serpenti viola. Sono centinaia, e marciano contro i guerrieri facendoli a pezzi, su di loro piatti dorati sfrecciano col rumore del tuono che abbatte gli alberi di kapok e murumurù , schianta il dio-uccello Urtau insieme al suo amico Iuruparì...

 

Mi chiamano El Quispe, “Il Libero”, ma io so che il mio nome è Yupanqui.

Non sopporto questi stivali di gomma, e la camicia colore del muschio. Mi piacerebbe tuffarmi nel Yanayacu che scorre proprio a pochi passi, ma la marcia non si ferma e i capi ci guardano. Da ragazzo andavo in giro nudo per la selva, cacciavo e mangiavo la carne senza sale, spesso cruda. A vent’anni spalmavo sul viso l’urukù che mi conduceva dritto alla tana dell'armadillo.

Un giorno al villaggio sono arrivati i soldati: avevano l'ordine di prenderci a forza per fare la guerra. Noi eravamo cinquanta, guerrieri Yagua: resistemmo con gli archi e le cerbottane, ma loro avevano i fucili. Ammazzarono qualcuno di noi, noi qualcuno di loro, ma poi colpirono a morte il curaca, il capo, e ci arrendemmo. Giocarono con le gonne rosse delle donne prima di violentarle. È così che va, in battaglia. Oggi, forse, sarebbe diverso: abbiamo imparato a maneggiare il machete e non ci saremmo fermati scongiurando Apocatequil di sterminarli.

Arrivati in caserma ci strapparono le vesti di fibra di palma e ci costrinsero a indossare l'uniforme; chi non voleva fu bastonato a sangue, braccia e gambe spezzate, finché il comandante ordinò che ci lasciassero in pace. E fece bene perché, da quando ci hanno spediti a combattere nella selva, siamo le truppe migliori.

Un tempo ero bravo a fabbricare punte di freccia: pei-namo avvelenate con il curaro, atari ad arpione; nella faretra, insieme alle punte di ricambio, portavo con me incantesimi per fermare la cacciagione.

I bianchi ci hanno dato fucili e pistole, che arrivano a colpire più lontano della freccia e della lancia, tendiamo agguati dalla cima degli alberi, i nemici muoiono senza neanche capire cosa li sta uccidendo. E quando loro strisciano tra le fronde, noi a terra, coperti di foglie, li ammazziamo in silenzio dal basso a colpi di machete.

La scatola di Ruben gracchia: sembra quasi voler rispondere al richiamo ripetuto dell’hoazin; il Capitano discute a voce bassa con il Comando dopo averci ordinato di fermarci.

Al villaggio parlavamo grazie alla voce della ceiba, a colpi di bastone sul tronco, che è cavo e rimbomba. Un colpo, due, tre. Quattro colpi volevano dire morte, o l'attacco di una tribù nemica. Quando scoppiava la guerra con un'altra tribù, si combatteva all'ultimo sangue e i nemici uccisi li mangiavamo: la parte migliore è il palmo della mano, che è tenero e ha un sacco di grasso.

Tutto finì all'improvviso, quella mattina, quando il curaca cadde mordendo la terra coi denti insanguinati, gli occhi bianchi a fissare il buio. In questi tre anni ho imparato quanto è buono il cibo col sale, mi hanno detto che è sbagliato mangiare uomini, sono riuscito a farmi capire dai capi e dai compagni non Yagua, anche se la notte mi manca l’abbraccio delle radici giganti del Bibosi e il cielo di smeraldo non mi canta più con le sue cento voci.

Dalla parete di felce davanti a noi sbucano Antonio e il Sergente Paco, che zoppica tenendosi la coscia sinistra, un urlo di dolore stampato sul viso. Il piede gli penzola trattenuto solo da un lembo di pelle: gli hanno tranciato l’osso e i nervi. Juan il medico ricuce la ferita ma poi dice di tagliare, prima che si infetti: io lo fermo, chiedendogli di farmi provare.

Il medico guarda in silenzio Paco che muove su e giù la testa, sorridendo con uno sforzo; dopo un po’ chiude gli occhi: ho cavato dal tronco di un sangre de grado la resina che gli salverà il piede, poi ho tamponato col tabacco la corteccia ferita dal machete. Il Sergente ha masticato a lungo lupuna prima di addormentarsi.

Ci siamo accampati qui, nella città morta, dopo aver guadato le acque scure del Yanayacu; sui muri di blocchi di pietra, teste di uomini-gatto; io e i miei compagni ci riposiamo nel Castello di massi bianchi e neri, attacchiamo alle gengive un grumo di sciroppo denso di ambil e coca. Domani gli elicotteri ci porteranno sulla Cordigliera: la Selva è persa, ormai, dice il Capitano. Ma se la Selva è persa, tutto il mondo è perso.

 

Johnathan colpisce il tronco di ceiba con il manguaré macho che da tempo è vedovo: l’altro, la femmina, fu venduto ad un gringo che pagò bene per il tronco bucato.

Il ragazzo trasmette messaggi ad altri Boras che sono riuniti più all’interno, nel villaggio di San Andrés, loro ultimo rifugio. Se sapesse cos’altro fare, probabilmente lo farebbe.

Per ora Johnathan desidera solo rallegrare noi, estranei giunti senza permesso al suo piccolo spazio senza nome. Sulle rive del rio Momón, affluente del Nanay, i Boras hanno costruito una capanna enorme che serve da laboratorio, sala per le assemblee e fiera.

I suoi gesti indicano che non si trova a suo agio con i soldati. Le donne e gli uomini sono stanchi, rassegnati alla nuova vita, vorrebbero tornare a non dipendere da altri come accade ora. Essere e vivere come prima, quando danzavano e cantavano liberi.

- Siamo rimasti in circa trecento nel villaggio di San Andrés, ma non siamo più Boras autentici. Ora c’è mescolanza di Boras con Huitotos e con voi Yaguas”, spiega Johnathan, il futuro curaca.

Dall’inizio della guerra non hanno più terre libere per cacciare o raccogliere frutta. Non gli rimane nemmeno lo spazio per seminare yuca o riso e ancora meno animali da catturare.

Uomini e donne si arrangiano coprendo le baracche di legno con sacchi di plastica o canne intrecciate. Cibo scarso e poca acqua, sporca e contaminata.

Mozombite, la nostra guida, ringrazia Rafael, il padre di Johnathan: i Boras aiutano l’esercito inviando messaggi con i loro manguarés, attraverso i quali ci comunicano la posizione del nemico.

- Il cielo è benigno e compassionevole. Nessuno sta venendo a distruggerci: apriamoci ai Maestri che arrivano dalla cintura del Ragno! - Rafael inghiotte a stento le lacrime ricordando le sue parole di un anno prima, all’arrivo delle prime barche d’oro.

I bambini adesso muoiono per la fame come mosche. Come Pedrito, un anno di età. Prima di iniziare la cerimonia funebre i Boras hanno esposto il bimbo nel bel mezzo della BR-158, bloccando il traffico dei mezzi corazzati. Nel frattempo un gruppo di uomini si è addentrato nella loro terra per scavare la fossa in cui deporre il corpo del bambino. E’ rischioso, ormai, ma è là e soltanto là che quella gente pensa la sepoltura, la restituzione delle ossa alla Pachamama.

 

Dall’alto la terra è solcata da graffi e scottature profonde: il nemico è passato anche su Lima, dove ci uniamo ad un battaglione decimato; al posto della città, ora, colline grigie di macerie e strade lucide di cemento, deserte. Solo qualche carro armato fruga ancora nelle viscere delle case crollate e calcinate da un sole maligno, come sciacalli in cerca di carcasse da spolpare. I compagni mandano giù saliva e pianto e paura. Sull’altopiano, cicatrici brune e tonde sembrano focolari abbandonati da cacciatori distratti o non preoccupati di lasciare tracce del loro passaggio, punteggiano fitte e monotone il terreno imbiancato da un calore di fiamma.

Nazca è una distesa secca di rocce ustionata dal sole straniero e dal fuoco. Le mani che hanno inciso i disegni laggiù dovevano essere gigantesche: le tempeste di polvere sollevate dalle barche nemiche e le buche spalancate dai combattimenti hanno quasi cancellato il Lama e il Colibrì, e il deserto non parla più con voce chiara. Quando ce ne andremo di qui forse non sarà più capace di farsi capire.

Peccato per Paco: voleva vedere le linee dall’alto, lui... Ora se ne sta in qualche ospedale da campo dalle parti di Iquitos, al capo opposto del paese. Con il piede ancora ben piazzato al suo posto, però.

Il Comando ci ha mandati quassù in elicottero: pare che al nemico piaccia arrivare sorvolando questa zona. Ci accampiamo vicino alla città di Palpa, una delle prime ad essere distrutte; i compagni Yagua sono nervosi, troppo lontani dalla selva. Le tracce del nemico sono dappertutto, le abbiamo viste dall’alto per esempio sul Ragno, sfregiato da scie roventi di atterraggio, sulle sabbie del deserto dipinte dagli ossidi di ferro e sul pietrisco raffreddato dal vento.

Di notte il chiarore della luna scorre lungo le linee della Pampa colorada fino alle nostre tende; gli dei della pioggia hanno dimenticato queste terre: respiriamo polvere. Come fanno gli abitanti di questi luoghi a riempire lo stomaco? E infatti non incontriamo uomini: se qui non è mai cresciuto un filo d’erba, ci sarà un motivo. La sera cantiamo, per farci coraggio, la Yahuasca che riscalda i cuori.

All’alba regnano il deserto e la garrua, la foschia che scioglie l’orizzonte. E’ da lì che escono i nemici, come fulmini. Il Capitano ci urla di stare a terra, ma così per loro che ci martellano è troppo facile: l’odore di carne bruciata mi riempie la bocca col suo sapore greve, i tuoni rimbombano le orecchie. I nostri elicotteri sembrano zanzare intorno alle macchine nemiche: uno ad uno vengono tirati giù da soffi di fiamma, il viso del Capitano sembra disperato, mentre fissa mappe sgranando gli occhi e sbraita nel trasmettitore da campo punti e coordinate. I missili a guida laser sembrano ubriachi e mancano il bersaglio oppure si schiantano contro una tela di vetro che copre le barche volanti, lassù. Eppure qualche macchina viene distrutta, anche i corpi sparsi del nemico macchiano la piana, ma il ferro e il fuoco avanzano sulla linea tagliente che si lascia alle spalle code di dolore e morte, mentre le nostre armi si ammalano e smettono di funzionare.

Quando dalla garrua spessa sbucano le barche d’oro, decido di arrampicarmi dietro ad una ruga della Scimmia che offre un buon riparo per me e i miei Yagua; da lì, inghiottendo la rabbia e le lacrime, assistiamo al massacro dei compagni bianchi: le loro carcasse carbonizzate smettono di agitarsi in pochi secondi; anche le grida lasciano il posto al silenzio, all’affanno del vento e al ringhiare roco dei nemici.

Che non si accontentano della vittoria: alcuni rimangono a cercare i superstiti, squarciati da ferite e mutilazioni, per finirli. Adesso un gruppo, lasciato lì dalla Macchina per terminare il lavoro, viene verso il nostro nascondiglio. Ci seppelliamo veloci nella sabbia, come ci insegnarono i vecchi, in mano il machete; quasi non respiriamo, gli occhi e il naso appena fuori dal terreno. Le sagome massicce sovrastano in controluce le deboli dune che i nostri corpi sollevano appena sulla pelle del deserto; all’improvviso emergiamo urlando dal terreno, facciamo esplodere sabbia e pietre: li facciamo a pezzi assieme alle loro armi, approfittando della sorpresa, inzuppando il suolo dei loro umori gli sfondiamo i crani allungati, e spezziamo ossa e nervi, con precisione ma velocemente; li abbattiamo a cominciare dalle gambe sottili come piante di caoba. Alla fine, tinti di sangue scuro, ci abbracciamo stremati e urlanti.

A un cenno silenzioso, fatto di sguardi che non scambiavamo da tanto, qualcuno accende il fuoco; tagliamo le appendici palmate dalle zampe superiori dei nemici e le cuociamo insieme ai grassi lombi squamati; il profumo della carne arrostita sembra riempire l’altopiano, riesce a coprire persino l’odore agro dei cadaveri bruciati dei nostri compagni. Durante il pasto qualcuno ride dell’espressione delle facce dei nemici e ne scimmiotta i musi da rettile, gli occhi gialli spalancati di terrore, le pupille taglienti e crudeli anche nel gelo della morte. E’ buona, la carne del nemico: un po’ scivolosa sotto il palato, ma tenace e gustosa, piena di umori che ci rendono più forti e simili agli dei. Nessuno di noi è ferito gravemente, qualcuno tira fuori l’ambil nascosto non si sa come dai tempi della selva e ne offre a tutti lunghe e ghiotte sorsate. All’orizzonte lampi gialloarancio ci raccontano che la guerra non è finita, ma per noi si tratta della prima vittoria da mesi.

La Stella e il Pellicano sorridono brillanti, anche se storpiati, al lume di una luna di cenere, il Colibrì e la Balena hanno ripreso coraggio e cominciano a diffondere nella notte le loro note minerali. L’Astronauta saluta dalle pendici dolci della collina davanti a noi: ci indica con l’unico braccio una direzione che conosciamo bene, noi Yagua. Eduardo ha trovato un elicottero ancora capace di volare: penso a come sarebbe bello picchiare un tronco di ceiba con il manguaré per avvisare il villaggio del nostro trionfo; chi dice che la selva è persa si sbaglia.

 

... il brujo sbarra gli occhi come se vedesse quello che racconta con voce bassa e gutturale: - Un diluvio sarà scatenato dal Cuore del Cielo... la faccia della terra si oscurerà, e una nera pioggia e pesante cadrà su di essa, notte e giorno!

Adesso tutti guardano, in preda a convulsioni, il terremoto che fa tremare il mondo. Dalle pianure spuntano come funghi le montagne, che continuano a salire scavalcando le vette più alte. I laghi si inclinano e svuotano le loro acque, venti impetuosi strappano le foreste dalle radici. Il sole scioglie le rocce, lava scorre come sangue dalle piaghe del terreno squarciato.

- E’ il Sesto sole! - nel delirio il vecchio col viso da bambino indica il vuoto - La fine del tempo del terrore: i Risvegliati sapranno leggere ancora le pagine strappate del libro della selva e le racconteranno alle creature che vorranno ascoltarli!

Lo spirito della pianta-maestro scivola lentamente verso l’uscita: Don Juan prende per mano le anime dei guerrieri e le riporta indietro, nei loro corpi; fumando la pipa succhia via il male delle visioni e lo sputa sorridente sulla terra battuta del fondo della capanna.

 

Javier accarezza il carrubo, come poco fa Ignacio ha fatto con il vimini che ci ha regalato le fibre delle stuoie e dei sedili da noi intrecciate qui sulla collina. Mangiamo allegri la papaia, felici fino alle lacrime e increduli di poterlo ancora fare; nudi dalle divise che abbiamo seppellito, nelle narici ancora l’eco della polvere secca e impastata di Nazca.

Roberto ha ferito due zamurros reali: li ha spiumati per procurarsi splendide penne e poi li ha lasciati liberi perché si coprano nuovamente di colori.

Abbiamo divorato carne di cuy cotta alla brace; Javier ride: secondo lui le chiappe grasse dei “serpenti” - così chiamiamo ormai i nemici, dopo averli visti da vicino - sono più saporite.

La notte scorsa lo spirito del giaguaro è entrato nel mio sonno, mi ha raccontato il successo nella caccia, mi ha dato utili consigli. Non predizioni.

Non so come finirà questa guerra, abbiamo perso i contatti con i nostri ufficiali bianchi. Ma intorno a noi, se ascoltiamo con attenzione, è facile cogliere gli echi delle ceiba: qualcuno vive ancora sotto il cielo di smeraldo ed è pronto a difenderlo, com’è naturale: qui siamo nati e vogliamo morire, e la nostra fossa dovrà essere coperta dai petali della chunchuhuaita e cullata dall’abbraccio delle radici del bibosi.

Ma non è ancora il tempo: adesso prima di dormire mastichiamo ad occhi chiusi tabacco witoto, al canto dell’almaperdida; immaginiamo la danza molle e lenta dell’anguilla elettrica e del delfino rosa fra i sassi d’argento laggiù nel letto fresco dello Yanayacu, che ci accarezza le orecchie e i sogni mentre il profumo di miele dell’atunsisac, il più grande fra i fiori, fa l’amore con la Selva.

E io so che il mio nome è Yupanqui.

 

 







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