un racconto di James P. Blaylock
illustrazioni di Antonio Folli
Si dice che siano successe strane cose a questo mondo (e si
dice che alcune ne succedano ancora), ma la metà, se proprio dovessi giudicare,
sono bugie. Non c'è modo di dirlo, a volte. Per settimane il cielo sopra la
costa a nord é stato d'un grigio: fitte nuvole in cielo come lana cardata a non
più di quindici metri da terra impalate sulle cime degli alberi, sulle sequoie
e gli ontani e gli abeti canadesi. L'aria è pesante per la nebbia che si posa
sulla costa e sull'oceano aperto, ammassandosi di quando in quando sulla punta
del molo e del frangionde, con tutti e due che svaniscono nel grigio cosicché
non c'é un soldo di differenza tra il cielo e il mare. E quando la marea
s'abbassa, e le scogliere che corrono via verso la punta appaiono attraverso la
nebbia, coperte dalle vesciche d'acqua marroni e dalle foglie gommose del fuco,
dal merletto rosa delle alghe e dalle foglie viscide della lattuga di mare e
dell'erba anguilla... é facile immaginare la massa scura del pesce che sta nei
giardini delle acque profonde e adescarlo su, verso il verde pallido dell'acqua
bassa, a nutrirsi all'alba.
C'è la possibilità, naturalmente, che delle cose alate, le
loro controparti se volete, abitino le tane nelle nuvole; che nelle vallate e
nelle caverne dei cieli pesanti e bassi ci siano bestie impensate. A volte penso
che se un uomo potesse tirar via senza preavviso il velo di nubi che oscura i
cieli, strappandolo via in un attimo, allora sorprenderebbe un mondo di
stranezze là in alto nei cieli: cose a forma di pallone con piccole ali sospese
come le pinne dei pesci palla, e creature spinose e coriacee; nient'altro che
ossa e denti e con becchi lunghi a sua volta, la metà dei corpi pieni di
nervature.
Ci sono state notti in cui ero certo di averle udite, quando
la nebbia era appesa alle cime degli alberi e le sirene gemevano oltre la punta
e l'acqua sgocciolava dagli aghi degli abeti canadesi oltre la finestra sul
tetto sottile del garage di Filby. Ci sono stati i suoni di strilli smorzati e
lo sbattere arioso di ali distanti. In una di queste notti che passeggiavo lungo
la scogliera, le nuvole si sono aperte per un attimo e una spruzzata di stelle
come un carnevale vorticoso ha brillato nelle profondità finché, come una tenda
che viene chiusa lentamente, le nuvole non si sono ammucchiate le une sulle
altre e non si sono più divise. Sono certo d'aver intravisto qualcosa (un'ombra,
la promessa di un'ombra) che offuscava le stelle. Fu la mattina dopo che
l'affare dei granchi ebbe inizio.
Mi svegliai a giorno fatto col suono del martellare di Filby
contro qualcosa nel garage: penso si trattasse di artigli, artigli di rame. Non
che facesse molta differenza. Mi sveglio. Non riesco ad addormentarmi fino ad
un'ora circa prima dell'alba. C'è un certo uccello, dio solo sa di che razza,
che canta fino alla fine della notte e si azzitta proprio quando sorge il sole.
Non chiedetemi perché. Comunque c'era Filby che stava battendo un po' prima di
mezzogiorno. Aprii l'occhio sinistro e lì , in cima al cuscino, c'era un paguro
rosso sangue con gli occhi posti sulla sommità delle antenne che mi stava
occhiando come fosse orgoglioso di sè stesso, agitando le pinze a tutto spiano.
Saltai su. Ce n'era un altro che strisciava nella mia scarpa e altri due che si
liberavano del mio orologio da taschino trascinandolo via nel suo fodero verso
la porta della camera.
La finestra era aperta e la zanzariera spaccata. Le bestie si
arrampicavano dalla catasta della legna e si issavano attraverso la finestra
aperta per rovistare tra i miei effetti personali mentre dormivo. Li buttai
fuori, ma quella sera ce n'erano di più, a dozzine piegati sotto il peso della
conchiglia che strisciavano verso casa con un occhio al mio orologio da
taschino.
Era una migrazione. Una volta ogni cento anni, mi dice il
dottor Jensen, ad ogni paguro del creato viene la brama del pellegrinaggio e
corre a riva. Jensen s'era accampato sulla spiaggia di casa per studiare le
cose. Si dirigevano tutti a sud, come uccelli migratori. Per la fine della
settimana ce n'era una quantità seccante in marcia, milioni a sentir Jensen, che
continuava ma lasciarono stare casa mia. Diminuirono col trascorrere della
settimana successiva e sembravano avanzare alla spicciolata da acque più
profonde ed erano sempre più grossi: le dimensioni del pugno di un uomo,
all'inizio, poi della testa e poi uno gigantesco, grosso come un maiale, inseguì
Jensen fino ai rami più bassi di una quercia. Per venerdì c'erano solo due
granchi, entrambi più grossi di un'auto. Jensen se ne andò a casa farfugliando e
bevve fino ad ubriacarsi. Era là il sabato, comunque, di questo gli si deve dar
credito. Ma non apparve niente. Specula che da qualche parte lungo la costa,
nell'acqua profonda di un baratro, un centinaio di braccia oltre la scomparsa
degli ultimi colori, ci sia una bestia monumentale, cieca e aggrinzita dalle
pressioni spettacolari e con addosso un cappotto di conchiglia, che sta sentendo
la strada verso riva.
Di notte, a volte, sento gli echi casuali di schiamazzi
lontani, solo un'impressione nebbiosa e in sordina, e mi fermo a fissare le
pagine di un libro aperto, la luce del focolare che si riflette sui cristalli
tagliati dei miei occhiali; rumori innumerevoli là nella notte nebbiosa tra cui
c'é il clack clack clack occasionale di quello che potrebbe essere il granchio
impossibile di Jensen che striscia su a gettare un'ombra nella luce del portico,
a richiedere il mio orologio da taschino. Fu la notte dopo l'apparizione del
granchio delle dimensioni di un maiale che ne entrò uno nel garage di Filby
(apparentemente forzando la porta) e fece un bel pasticcio col suo drago. So
quello che state pensando. Anch'io pensai che fosse una panzana. Ma le cose da
allora si sono messe in modo da farmi ricredere. Apparentemente conosceva
Augustus Silver. Filby era un suo accolito, Silver era il maestro. Ma l'affare
del drago, mi dicono, non è tanto una questione di meccanica. E' un problema di
prospettiva. E' stata quella la rovina di Filby.
C'è stato uno zingaro che fece una breve visita in un carro
l'anno scorso. Apparentemente non parlava. Per un dollaro era capace di fare le
cose più sorprendenti. Si strappò la lingua, appena arrivato, e la buttò in
mezzo alla strada. Poi ci ballò sopra e se l'infilò in bocca, come nuova. Poi
tirò fuori le interiora (metri e metri come salsicce che escono dal macinacarne)
e le ributtò tutte dentro e con un pizzico richiuse il buco che aveva fatto
nell'addome. Fece sentir male mezza città, badate bene, ma avevano pagato per
vederlo. E' suppergiù quello che ho sempre provato per i draghi. Non credo
neppure alla metà delle cose su di loro, ma darei un bel po' per vederne volare
uno, anche se non fosse nient'altro che una buona illusione.
Ma il drago di Filby, quello che stava mantenendo per Silver,
era un disastro. Il granchio (penso fosse un granchio) lo aveva fatto a pezzi e
tirato fuori la bambagia. Mi ricordava uno di quei grossi coccodrilli essiccati
che si trovano nei negozi di antiquariato, tutto mangiato a morsi dagli insetti
e che sembra triste e stanco, con la coda piegata di lato e un pezzo dell'ovatta
dell'imbottitura che appare da uno squarcio della schiena.
Filby era fuori di sé. Non é bene, per una persona cresciuta,
comportarsi così. Aveva raccolto l'avanzo sbrindellato di un'ala essiccata e ci
si stava flagellando. Si frustava e si ingiuriava. Allora non lo conoscevo molto
bene e così guardai tutta la strana scena dalla finestra della cucina: la porta
del garage che si apriva e si chiudeva battendo al vento, Filby che piangeva e
si lamentava attraverso la porta aperta, dando in escandescenze in lungo e in
largo, slanciandosi e arrestandosi teatralmente, la porta che si chiudeva
sbattendo tagliando via per circa trenta secondi l'intera faccenda imbarazzante
e poi si spalancava completamente per tradire un Filby lamentoso che cercava qua
e lì tra i detriti sul pavimento del garage: i resti di quello che una volta era
stato un drago in carne ed ossa, per così dire, costruito dall'onnipresente
Augustus Silver anni prima. Naturalmente non mi ero fatto nessuna idea allora.
Augustus Silver, dopo tutto. Il che quasi giustifica il tirare avanti da parte
di Filby. E ho tirato un po' avanti anch'io da allora, anche se, come ho detto,
la maggior parte di ciò che ha stimolato l'intero affare é incominciata ad
apparire sospetta allo stesso modo delle bugie e i sussurri nella notte
nebbiosa, il clamore e il ronzio e il movimento di ali incominciava a suonare
come una risata appena mascherata, diventando sempre più confusa con i mesi e
sorgendo dal nulla: dalle nuvole, dal vento e dalla nebbia. Anche le lettere
occasionali da parte dello stesso Silver erano diventate sospette.
Filby é un eccentrico. Posso vederlo chiaramente. Come
finanzi i propri progetti é al di fuori delle mie conoscenze. Piccoli lavori
strani, non ho dubbi: riparazioni e simili. Ha le mani di un meccanico
archetipo: dita a spatola, unghie nere, tacche e tagli e graffi che non saprebbe
identificare. Deve solo toccare un mucchio di componenti, agitarci sopra le
mani, e le deboli eccitazioni dell'ordine e del progetto sembrano fremere
attraverso i membri incrociati del suo banco di lavoro. E qui un enorme paguro
si era intrufolato e in una sola notte aveva fatto a pezzi un capolavoro, una
meraviglia, una cosa che non poteva essere riattaccata. Perfino Silver
l'avrebbe gettata. Non l'avrebbe presa neppure il gatto.
Filby fu scontroso per molti giorni, ma sapevo che ne sarebbe
venuto fuori. Avrebbe bighellonato attorno casa in modo apatico, agitando
giornali del giorno prima e un lampo di luce da un filo di rame gli avrebbe
afferrato l'occhio. Il ferro avrebbe suggerito qualcosa. Funziona così. Non solo
ha l'irritante abilità di coesistere coi rifiuti meccanici, ma ci parla anche,
sussurrandogli delle possibilità.
Presto, qualche mattina, si sarebbe messo a lavorare di gran
lena (mannaggia a tutti i paguri) mettendo assieme le diecimila scaglie
d'argento di un'ala, assemblando le punte di rubino di un occhio sfaccettato,
scrutando attraverso una lente uno spruzzo di fine metallo filato dentro una
treccia che sarebbe corsa lungo la colonna vertebrale di una creatura che, una
volta liberata in una notte nebbiosa, sarebbe scomparsa in un attimo tra le
nuvole e se ne sarebbe andata. Così sognava Filby. E lo devo ammettere: avevo
una fiducia totale in lui, nel drago che sognava di costruire.
All'inizio della primavera, cosi com'è, qualche settimana
dopo l'affare dei granchi rossi, stavo zappando il giardino.
Un'altra gelata era improbabile. I pomodori erano stati
piantati da una settimana e un enorme bruco verde pieno di spire si era mangiato
le foglie delle piante. Non erano rimasti che gli steli ed erano imbrattati da
una specie di poltiglia. Una volta, da bambino, stavo scavando tra i rifiuti
qualche giorno dopo una piovuta e tirai fuori un verme grosso un dito con il
muso di un essere umano. Lo seppellii. Ma questo verme dei pomodori non aveva
quel genere di muso. Era piacevole, di fatto, con piccoli occhi porcini e una
bozza al posto del naso, come succede per i nasi dei bruchi. Così lo lanciai
oltre la siepe nel giardino di Filby. Sarebbe tornato di qua, non c'erano dubbi.
Ma sarebbe tornato strisciando da qualsiasi posto, anche dalla luna. E dato che
era così (se ciò era inevitabile) allora non sembrava che ci fossero delle
ragioni a metterlo tanto fuori della sua strada, se vi riesce di seguire il mio
ragionamento. Ma le piante erano un disastro. Le sradicai e gettai anch'esse nel
giardino di Filby che è comunque pieno di erbacce, ma Filby in persona si era
sporto dalla siepe come una gurgula ghignante e un fascio d'una mezza dozzina di
viticci masticati gli volò in faccia come un calamaro. Non si tratta, comunque,
del genere di cose che preoccupano Filby. Non se ne curò. Aveva una lettera di
Silver spedita un mese prima da qualche parte dal sud.
Allora conoscevo appena la reputazione dell'uomo. Avevo
sentito di lui, ma chi non lo aveva fatto? E potevo ricordare a malapena di aver
visto le foto di un uomo grosso, barbuto, coi capelli scompigliati e lo sguardo
appassionato negli occhi, fatte quando Silver era coinvolto con la lega
meccano-vivisezionista, nei giorni in cui iniziavano a conoscere la verità sulla
mutabilità della materia. Lui e altri tre all'università furono i responsabili
della breve inondazione di unicorni, alcuni dei quali si dice vaghino per le
colline attorno a noi, mutanti interessanti, certo, ma non quel tipo di
meraviglie da soddisfare Augustus Silver. Dalle foto appare come il tipo che si
butta a testa in giù in una pozza gelata e mangia grano bulgaro e miele a
cucchiaiate.
E qui c'era Filby, a sbarazzarsi dei resti delle piante di
pomodoro danneggiate e tenendo una lettera in mano, commosso vivamente. Una
lettera del maestro! Era stato per anni nei tropici e aveva visto una cosa o
due. Sulle colline delle giungle orientali aveva avvistato un drago con quella
che quasi sicuramente era una cassa toracica di bambù,Volava col battere furioso
da xilofono delle canne ad aria e aveva la testa di un'enorme lucertola, la coda
a tridente di una razza cornuta e ali meccaniche costruite d'argento e spago e
la pelle di carpa. Gli aveva fatto venire certe idee. I draghi migliori, era
sicuro, sarebbero venuti dal mare. Stava per far vela verso San Francisco. Le
cose si potevano acquistare a Chinatown, certe "necessità", come aveva messo
nella lettera a Filby. Si citava il moto perpetuo, la costruzione di una
creatura immortale, saldata con le parti di una dozzina di animali selvatici.
Io ero ancora in attesa dell'emissione dell'ultimo granchio,
e anche Jensen. Scrisse una monografia, una relazione di grossa accuratezza
scientifica in cui si postulava la correlazione tra il numero decrescente delle
creature e l'enormità delle loro dimensioni. Si era accampato sulla scogliera
col figlio, Bumby, guardando la nebbia di traverso, gli occhi fissati alle lenti
di un telescopio speciale (uno che vedeva le cose, così come disse, in modo
particolarmente chiaro) e in attesa della prima chela tremante dell'animale
enorme che si drizzava fuori dalla risacca grigia, dall'acqua ricadente
drappeggiata da erbacce, e del muso del granchio che sarebbe seguito, attirato
verso sud da una specie di magnete migratorio verso solo il cielo sa che cosa. O
il granchio passò via lungo la costa nascosto dalla nebbia, o Jensen s'era
sbagliato: non c'é stato nessun ultimo granchio.
La lettera da Augustus Silver mise le ali a Filby, come si
suol dire, che volò a costruire il suo drago, inviando una lettera verso est in
cui includeva quaranta dollari, la sua quota arretrata alla Società del Drago.
Il bruco dei pomodori, lui stesso un drago senza ali, tornò strisciando nel
giardino quattro giorni dopo e si impegno con una mezza dozzina di piantine
fresche, mordicchiando arabeschi merlettati lungo le foglie. Lanciarlo di nuovo
sul terreno di Filby non avrebbe risolto nulla. Era un verme con una
determinazione monumentale. Lo misi in una vaschetta (una vaschetta grande da
tre litri e mezzo di sott'aceti, vuota dai sott'aceti, naturalmente) e ci
avvitai sopra un coperchio coi buchi fatti con le pinze. Visse felice in un
piccolo giardino di foglie e sporcizia e stecchi e pietre levigate,
mordicchiando occasionalmente foglie di pomodoro.
Passai sempre più tempo con Filby ad osservare, in quei
giorni dopo l'arrivo della prima lettera, le ossa meccaniche e le articolazioni
e gli organi del drago messe assieme. Diversamente dal suo mentore, Filby non
aveva quasi nessuna conoscenza della vivisezione. Ne aveva avversione, credo, e
come conseguenza le sue creazioni erano quasi completamente meccaniche... e
quasi completamente inverosimili. Ma aveva una tale aurea di certezza attorno a
sé, una tale convinzione assoluta e irriducibile che anche il progetto più
inverosimile sembrava, inesplicabilmente, credibile.
Ricordo un sabato pomeriggio con particolare chiarezza. C'era
stato il sole per la prima volta da settimane. L'erba non era stata ravvivata da
lumaconi e lumache la notte precedente, un segno, credo, che il tempo stava
cambiando verso il secco. Ma ero nel giusto solo a metà. Sabato aveva albeggiato
senza nuvole. Il cielo era invisibilmente blu, macchiato dalle chiazze di quelli
che potevano essere stati passeri o corvi che volavano proprio sopra le cime
degli alberi, o facilmente qualcos'altro, qualcosa di più grosso: draghi,
diciamolo, o gli abitanti peculiari di qualche mondo delle nuvole molto
distante. La luce del sole si riversò dai vetri molati della finestra della mia
camera, e giuro che potevo sentire le piante di pomodoro e di cipolla e di
pisello che si schiudevano in fiore, affrettandosi verso il sole. Ma
verso mezzogiorno grandi nuvole scure si intorpidirono sopra il Coast Range, le
loro ombre che strisciavano attraverso i campi e le sequoie, le staccionate e le
siepi. Uno spruzzo di pioggia veleggiò sulla brezza di terra che andava
rinfrescandosi, e l'odore dolce dell'ozono si levò dal selciato del vialetto di
Filby portando con la minuta traccia iniziale una specie indefinibile di
promessa e di rammarico: la promessa di meraviglie non risolte, rammarico per i
periodi e i frammenti di tempo persi che si allontanavano intruppati come paguri
in migrazione, inesorabilmente, irreparabilmente, verso le nebbie.
Così fu un sabato pomeriggio di arcobaleni ed ombrelli e
Filby, ancora animato dal pensiero dell'avvicinarsi di Silver, mi mostrò
qualcuna delle sue cose. La casa di Filby era una meraviglia, condannata
interamente alle sue collezioni. Teste intagliate tagliuzzate da steatite e
avorio e legno ferroso popolavano le stanze, come strani ricordi di un viaggio
lontano. Gli acquari ribollivano, pieni di piante acquatiche e creature strane e
chiazzate: anguille maculate e pescifoglia, ghiozzi sommersi nella sabbia fino
al naso, pesci piatti con tutti e due gli occhi nello stesso lato della testa, e
anablebi sfreccianti che hanno la capacità meravigliosa di vedere
simultaneamente sopra e sotto la superficie dell'acqua e così, a differenza del
pesce mondano che nuota sotto, erano inclini alla filosofia. Suggerii la stessa
cosa a Filby, ma non sono certo che capisse. Libri e pifferi e oggetti curiosi
riempivano una mezza dozzina di casse e carte stellari erano appese ai muri.
C'erano gli schemi di costruzione di qualcuna delle prime opere di Silver,
schizzi intricati e turbinosi completamente ricoperti di quelli che per me erano
calcoli e commenti assolutamente privi di significato.
Il lunedì arrivò un'altra lettera di Silver. Aveva continuato
verso est, con la promessa di qualcosa di molto raro nella linea dei serpenti:
un serpente proboscide, diceva, con i polmoni che correvano per tutta la
lunghezza del corpo. Ma sarebbe venuto sulla costa occidentale, questo era
certo, a San Francisco. Sarebbe arrivato entro una settimana, un mese, non
poteva essere assolutamente preciso. Sarebbe arrivato un messaggio. Chi poteva
dire quando? Ci accordammo che avrei fatto in macchina le cinque ore verso sud
lungo la strada costiera, in città, per prenderlo: io avevo un'auto.
Filby era fradicio di sudore per costruire la creatura prima
dell'arrivo di Silver. Desiderava così ardentemente avere l'approvazione del
maestro, vedere negli occhi di Silver la breve elettricità della sorpresa e
dell'eccitazione. E non avrei messo in dubbio per un momento che ci fosse
implicato un elemento di invidia. Filby, dopotutto, aveva languito per anni
all'università all'ombra di Silver ed ora era sul punto di diventare lui steso
un maestro.
Così là, nel garage di Filby, appoggiati ad una parete di
montanti d'abete sgrossato e assi di sequoia, stavano in silenzioso riposo le
spalle, il collo e l'ala destra della bestia, la testa una massa di cristalli
pastello sfaccettati, filo di pianoforte e le ossa strette nella morbida presa
di gomma di una morsa da banco. Fu di venerdì, la mattina della terza lettera,
che Filby toccò le punte spellate di due fili di rame microscopicamente fini e
gli occhi del drago ruotarono intorno ai loro assi, molto lentamente, ammiccando
un paio di volte, passando in rassegna il garage stretto e fiocamente illuminato
con uno sguardo antico ed esperto prima che i fili si dividessero e la vita
guizzasse via.
Filby era trionfante. Ballò intorno al garage, urlando per la
gioia, facendo piccole capriole. Ma la mia proposta di prenderci il pomeriggio
libero, andarcene in macchina a Fort Bragg a mangiare e a farci una birra si
scontrò con un rifiuto impassibile. Silver, a quanto sembrava, era
all'orizzonte. Dovevo partire nella mattinata. Avrei dovuto, quasi certamente,
passare un paio di nottate in attesa. Non si poteva mettere fretta ad Augustus
Silver, naturalmente. Filby, dal canto suo, avrebbe lavorato al drago. Sarebbe
stato un affare di una notte e un giorno, a stare larghi. Decisi di prendere con
me il bruco dei pomodori per compagnia, per così dire, ma la bestia s'era
infilata sotto tutta la robaccia per un sonnellino.
Questo fatto di dover essere un emissario di Filby mi fece
l'effetto di ritrovarmi abbastanza dubbioso quando mi svegliai il sabato
mattina. Ero un vicino che era stato intrappolato in una rete d'entusiasmo tutta
particolare. Io qui mi stavo infilando calzini pesanti e andavo incespicando per
la cucina, con fiocchi di nebbia che strisciavano dal davanzale e gli abeti
canadesi come fantasmi oltre i vetri gocciolanti, mentre Augustus Silver si
dimenava sui flutti oscuri del Pacifico da qualche parte oltre il Golden Gate,
con il pugno pieno di ossa di drago. Chi ero io da andare a dirgli qualcos’altro
oltre a "Filby m'ha mandato." O qualcosa di più oscuro: "Saluti da Filby." Forse
in questi circoli uno semplicemente strizzava l'occhio o faceva un segno o
portava un tipo speciale di cappello con una visiera di trenta centimetri e un
occhio incastonato in una piramide cucito sul davanti. Mi sentivo come uno
scemo, ma l'avevo promesso a Filby. Il suo garage era illuminato all'alba ed io
ero stato svegliato una volta durante la notte da uno strillo lacerante,
interrotto bruscamente e seguito dalla risata schiamazzante di Filby e da un
piccolo brano di canzone.
Avrei dovuto parlare con un anziano cinese di nome Wun Lo in
un ristorante fuori Washington. Filby si riferiva a lui come "la connessione".
Avrei dovuto presentarmi come un amico del Capitano Augustus Silver ed attendere
gli ordini.
Ordini: che diavolo di gergo era? Nel fioco bagliore della
lampada, a mezzanotte passata, un discorso segreto di quel tipo sembrava
ragionevole, perfino soddisfacente, all'alba gelida era ridicolo.
Erano quasi sei ore fino alla città, serpeggiando per strade
tortuose, con qualche tratto qua e là che era finito nel mare per via delle
piogge invernali. La nebbia veniva su dalle insenature piene di scogli e si
abbarbicava alle pareti rocciose, gettando un velo grigio su fiori nutriti di
rugiada e l'erba del litorale. I paletti argentati delle staccionate spuntavano
su dall'oscurità con qua e là il teschio di una vacca o di una capra impalato in
cima, e poi il passare via veloce di una mezza dozzina di cassette postali sui
pali, arrugginite e messe di sbieco verso la scogliera, assieme a cipressi tutti
contorti che sembravano sul punto di buttarsi a mare.
A tratti, senza nessun preavviso, la nebbia scompariva in un
batter d'occhio ed appariva un chilometro e mezzo di superstrada sgombra,
stranamente nitida e cristallina, in contrasto col suo precedente stato di
opacità. Oppure appariva all'improvviso un viale nel cielo, la cui fine remota
sprofondava nel blu opalescente e appariva distante e irraggiungibile come la
fine dell'arcobaleno. Attraverso uno di questi viali, balzando in evidenza forse
per tre secondi, starnazzò la massa sgraziata di quello che avrebbe potuto
essere un uccello enorme, che si affannava come contro un vento violento e
tumultuoso proprio sopra la nebbia bassa. Con la stessa facilità poteva essere
qualcos'altro, di molto più grosso. Un drago? Una delle creazioni di Silver che
faceva il nido nelle fitte foreste nebbiose di color smeraldo della Coast Range?
Era impossibile dirlo... e un pezzetto di qualcosa, un frammento d'ala, cadde
chiaramente da lassù e filò dritto in mare. Forse a cadere fu semplicemente uno
stecco che veniva riportato al nido da un airone ambizioso. In un attimo la
nebbia si richiuse, o piuttosto l'auto schizzò via dalla schiarita momentanea e
ogni opportunità di identificare la bestia, o meglio di studiarla, svanì. Per un
attimo pensai di rigirarmi e tornare indietro, ma era improbabile che fossi
riuscito a ritrovare lo stesso pezzo di schiarita o che, riuscendoci, la
creatura fosse ancora visibile. Così andai avanti, inanellando curve tra le
colline coperte di sequoie che potevano essere abili pitture appese lungo i
bordi spettrali della Highway One, coi ganci che le tenevano nascoste alla vista
persi nella nebbia che stava al di sopra. Poi, quasi senza avviso, l'asfalto
umido si trasformò in un'ampia sopraelevata e di li a poco nella distesa
ronzante del Golden Gate Bridge.
In basso alcune barche silenziose lottavano contro la marea.
Una di esse sarebbe potuta anche essere l'imbarcazione di Augustus Silver
nell'atto di inclinarsi per entrare nell'imbarcadero. Probabilmente non era
così. Dall'aspetto erano barche da pesca, piene di scampi e calamari e scorfani
dagli occhi d'insetto. Guidai fino alla periferia di Chinatown e parcheggiai;
lasciata l'auto e m'immersi nella folla che sciamava da Grant e Jackson e a
Portsmouth Square.
Era il capodanno cinese. Le strade erano appesantite
dall'odore di dolci alla mandorla e di nebbia, di anatra laccata e di polvere da
sparo, d'aglio e di alghe. In alto esplodevano i razzi in grandinate di
scintille appena visibili ed uno, ondeggiando sopra la strada mentre il fuso
bruciava, fece vela dritto verso Washington, fischiando e brillando e
spumeggiando verso il muro di un negozio d'antiquariato, cadendo poi a terra
inanimato, come imbarazzato per le proprie stravaganze. Il fumo e il botto dei
petardi, la calca della gente che mulinava e l'assurdità irritante della mia
missione mi condussero giù verso Washington, finché non inciampai nella porta
aperta e affumicata d'un angusto ristorante su tre piani. Si chiamava Sam Won.
Una parata di capocuochi abbigliati di bianco si spostava
bruscamente dalle verdure. Le grandi padelle cinesi sibilavano. Ciotole
presuntuose di riso bianco fumavano sul bancone. La testa d'un pesce grossa come
un melone occhieggiava da una teglia. E là, ad un tavolinetto d'acciaio e
formica plastificata, sedeva il mio contatto. Doveva essere lui. Filby era stato
stupendamente accurato sulla sua descrizione. L'uomo aveva una barba grigia che
terminava sopra la piana del tavolo e un abito dello stesso colore che era più
grosso di qualche taglia, e prendeva delle cucchiaiate di un brodo chiaro in
modo cosi meccanico e deciso che il suo mangiare era quasi un cerimoniale. Lo
avvicinai. Non c'era altro da fare che farla corta. "Sono un amico del capitano
Silver," dissi sorridendo e allungando la mano. Si inclinò, mi toccò la mano con
un dito flaccido e si alzò. Lo seguii nel retro del ristorante.
Mi ci volle solo qualche secondo per vedere abbastanza
chiaramente che il mio viaggio era stato interamente inutile. Chi poteva dire
dove si trovasse Augustus Silver? Singapore? Cylon?
Bombay? C'erano state delle erbe spedite da Est proprio due
giorni prima. Fui colpito all'istante dalla stupidità della mia posizione. Che
diavolo stavo facendo a San Francisco? Provai la sensazione sgradevole che i
cinque capocuochi proprio fuori della porta si stessero facendo una risata a mie
spese e che il vecchio Wun Lo, lo sguardo fisso verso la strada, stesse per
chiedermi del denaro: un biglietto da cinque dollari, solo fino alla paga. Non
ero forse l'amico di Augustus Silver?
Le mie preoccupazioni furono arrestate temporaneamente da una
vecchia fotografia appesa sopra un camino ricoperto dalle tegole. Raffigurava
una specie di strana città di capanne da qualche parte lungo la costa
settentrionale. C'era una leggera nebbia, a sufficienza da velare la campagna
attorno ed era evidente che la foto era stata fatta al tramonto, dato che le
ombre lunghe e profonde gettate dalle strane bicocche si stendevano verso
l'interno tra gli alberi. La punta di un faro era appena visibile sul bordo del
Pacifico oscuro e un numero modesto di piccole barche stava all'ancora al di
sotto. Era sconcertante, certo... doppiamente, per il fatto che il faro, la
lingua di terra che svoltava verso di esso, la baia verde di cipressi ed
eucalipto era, ne ero convinto, Point Reyes. Ma la città di capanne, ne ero
ugualmente certo, non esisteva, non poteva esistere.
Le catapecchie del gruppo ruzzolavano giù verso il limite
della baia, un lungo arco che scendeva le colline come una strana scala gotica e
tutte, lo giuro, erano fatte in parte con le spoglie di draghi, di enormi
rettili alati: stagno e rame, pelle e ossa. Alcune erano accatastate di
seguito, inclinate una contro l'altra come i castelli di carte. Alcune erano
appollaiate in cima a bidoni d'olio o palette in legno messe per dritto. Qua non
c'era altro che un'ala spezzata che gettava un frammento d'ombra, là c'era
quello che sembrava essere una creatura tollerabilmente completa che mancava,
suppongo, di qualsiasi parte essenziale che una volta era servita ad animarla. E
accanto a un pentolone da cucina con un uomo che con qualche probabilità poteva
essere lo stesso Wun Lo, c'era Augustus Silver.
La sua barba era immensa: la barba di un vagabondo delle
colline, di un cercatore finalmente tornato dopo anni di miniere sconosciute, e
quella barba e un cappello di feltro a larga tesa, la sua giubba orientale e il
bagliore della conoscenza arcana che brillava nei suoi occhi, lo stesso arpione
che teneva nella destra serrata, l'ampiezza delle spalle... tutti questi
particolari sembravano quasi deificarlo, come se fosse un'incarnazione di
Nettuno appena uscita dalla baia, o di un Odino errante che si è fermato per
bere petali di fiore in un gruppo bizzarro di baracche lungo la costa. Proprio
il suo aspetto annullò ogni mia indecisione. Lasciai Wun Lo che annuiva in una
sedia e che, evidentemente, aveva dimenticato la mia presenza.
Il fumo pendeva nell'aria delle strade. Migliaia di suoni
(una cacofonia di voci, esplosioni, girandole fischianti, musica orientale) si
mescolavano in una strana specie di silenzio armonioso. Da qualche parte verso
nord-ovest c'era un villaggio costruito con le pelli dei draghi. Se non altro,
se non avevo scoperto niente sull'arrivo di Augustus Silver, avrei dato almeno
uno sguardo al gruppo di baracche della fotografia. Mi spinsi attraverso la
calca in direzione di Washington, incurante delle faville e delle esplosioni.
Poi quasi magicamente, come il mar Rosso, la folla si divise e un'ampia corsia
d'asfalto mi si aprì davanti. Ad entrambi i lati di una strada tutto d'un tratto
sgombra c'erano dei visi ghignanti, gelati nell'attesa. Si levò una grossa
ovazione, una confusione, un battere di cimbali cinesi e un suonare di piccoli
corni di canna. Girato l'angolo e correndo alla pazza velocità di un treno
espresso, avanzava la testa furbesca d'un drago di carta, che penzolava avanti e
indietro, una criniera incolta dai colori dell'arcobaleno che gli fluttuava
dietro. Il corpo della cosa era lungo mezzo caseggiato e sembrava costruito con
migliaia di foglietti della carta di riso più fine dai colori pastello, fogli e
fogli che minacciavano di liberarsi e dissolversi nella nebbia. Una dozzina di
persone accucciate dentro correva lungo il selciato, tutti insieme che urlavano
e salmodiavano mentre la folla si richiudeva alle loro spalle e, in un'onda,
premeva verso est in direzione di Kearny, col tumulto e i colore che mutavo
ancora una volta nel silenzio.
Per questo il resto del pomeriggio ebbe un'aria di irrealtà
che, stranamente, rendeva più profonda la mia fede in Augustus Silver e nelle
sue creazioni, anche se ogni evidenza razionale sembrava puntare decisamente in
direzione opposta. Guidai verso nord uscendo di città e prendendo la scorciatoia
a San Rafael verso la costa, verso Point Reyes e Inverness, serpeggiando lungo
il fianco verde delle colline mentre il sole si abbassava nel cielo pomeridiano
verso il mare. Fu poco prima del buio che mi fermai a far rifornimento.
La curva della costa davanti a me era cugina stretta a quella
della foto e bungalow raggruppati sul fianco della collina potevano essere stati
gli spettri delle baracche del drago, se si serravano abbastanza gli occhi tanto
da confondere l'immagine attraverso un intreccio di ciglia. Forse lo avevo
riportato indietro, non posso più dire per niente quale dei due mondi avesse
sostanza e quale fosse il fantasma.
Un banco di nebbia era scivolato verso riva. Se non fosse
stato per questo, forse, avrei potuto aggiungere la cima del faro e completare
il quadro. Così com'era potevo vedere solo il velo grigio della nebbia che si
acciuffava in una debole brezza verso terra. Al distributore chiesi una mappa.
Sicuramente, pensavo, da qualche parte nelle vicinanze, forse in vista se non
fosse stato per la nebbia, c'era il mio villaggio. L'impiegato, un ammasso
d'olio di motore e salviette di carta blu che masticava tabacco, non ne aveva
sentito parlare, del villaggio del drago, voglio dire. Mi guardò di traverso.
Alla vetrina c'era appesa una cartina. Non costava niente guardarci. Così mi
diressi verso un cubicolo di acciaio e vetro, gelido per la ruggine e per l'aria
del mare e studiai la mappa. Mi disse poco. Era stata appesa di recente, il
nastro che la teneva agli angoli non si era ingiallito né aveva incominciato a
venir via. Attraverso una porta aperta alla mia destra c'era il garage oscuro
dove un meccanico cinese armeggiava col telaio di un'auto su un paranco.
Mi voltai per andarmene proprio mentre la nebbia sospesa
inghiottiva il sole, gettando la stazione di rifornimento nell'ombra. Sopra il
Pacifico oscuro si dilatavano le nebbie trascinate dal vento marino, un ciuffo
penzolante che si incurvava verso il cielo in un'ondata, come l'erba di una
pozza dilavata dai marosi o la coda ondeggiante di un enorme drago di nebbia, e
per la frazione di un secondo gli ultimi raggi morenti del sole della sera
brillarono dalle nebbia stracciata, illuminando la vecchia pompa del
distributore, l'interno dell'ufficio sbiancato, il garage buio e cosparso di
attrezzi.
La carta alla vetrina sembrò arricciarsi agli angoli, il
nastro scuro e secco all'istante. Il fondo bianco si tinse di ombre d'avorio
antico e d'ocra pallida, e quelle che erano state delle brutte pieghe nella
carta apparvero, per un momento, come delle strade finora sconosciute che
portavano dalle sequoie verso il mare.
Fu la strana combinazione, ne sono sicuro, di sera, sole
morente e nebbia che saliva a rendermi, per un attimo, incerto se il meccanico
fosse accucciato nella sua tuta sotto qualche automobile enorme e pinnata,
figlia della peculiare architettura dell'inizio degli anni '60, o se invece
stesse lavorando sotto la conchiglia di cromo e ferro di un drago inclinato,
gelato in volo sopra il pavimento di cemento tutto grasso e composto da spire
di tubi da riscaldamento e vecchi pneumatici polverosi.
Poi il sole ne se andò. L'oscurità cadde in un attimo e tutto
fu come era stato. Guidai lentamente verso nord attraverso il villaggio. Non
c'era, naturalmente, nessun villaggio di capanne fatto con gli scarti dei
draghi. Non c'era altro che magazzini e lotti liberi pieni d'erbacce e il
cemento e lo stagno consumati di una costruzione industriale occasionale. Un
groviglio di stradicciole circondate da baracche strane e cadenti, solo alcune
su pali come in attesa di una marea di proporzioni apocalittiche. Ma le baracche
erano fatte di doghettato e ghiaia bituminosa, non c'era alcun accenno a un
drago da nessuna parte, neppure la punta di un'ala arrugginita nel jimsonweed e
mostarda.
Decisi di non passare la notte in un motel, anche se ero
tentato a farlo, nella remota possibilità che la nebbia si dissipasse e che i
raggi di luna acquosi della costa lavassero via dalla linea costiera qualsiasi
cosa (uno scherzo della luce del sole o uno scherzo della nebbia) che per un
istante mi aveva confuso alla stazione di servizio. Ma, come dico, il giorno era
stato, in massima parte, infruttuoso e il pensiero di sborsare venti dollari per
la stanza di un motel era intollerabile.
Era tardi, quasi mezzanotte quando arrivai a casa, esausto.
Il bruco dei pomodori dormiva nella sua tana. La luce ardeva ancora nel garage
di Filby così uscii per sbirciare attraverso la porta. Filby sedeva su uno
sgabello, il mento sulle mani, che guardava fisso alla testa smantellata della
sua bestia. Istantaneamente mi rammaricai di aver guardato dentro; mi avrebbe
chiesto notizie di Silver e io non avrei avuto niente da dirgli. Le notizie (o
piuttosto la mancanza di notizie) sembrarono prosciugargli fino in fondo
l'energia. Non avrebbe dormito per due giorni. Jensen s'era fatto vedere qualche
ora prima borbottando di una marea meravigliosamente alta e del suo sospetto che
l'ultimo dei paguri avrebbe potuto ancora farsi vedere. Non avrebbe voluto,
Filby, dare un'occhiata alla spiaggia quella notte? No, Filby non avrebbe
voluto. Filby voleva solamente assemblare il suo drago. Ma c'era qualcosa non
proprio a posto: un filo o un altro che faceva contatto, o una gemma che era
stata tagliata male... e la creatura non rispondeva. Erano solo dei rottami.
Mi doletti con lui. Sbarra la porta al paguro di Jensen,
dissi, e aspetta l'alba. Sembrava eccessivo come insulsaggine ma Filby, credo,
era pronto ad accettare qualsiasi ragionamento, senza badare a quanto fosse
vuoto, per abbandonare il suo rabberciamento.
Tutti e due sedemmo fino a che non sorse il sole,
lasciandoci trasportare da reminiscenze lacrimose e dibattendo sui vantaggi
di un giro giù alla scogliera per vedere come se la stava passando Jensen.
L'alta marea, apparentemente, era accompagnata da una risacca monumentale dato
che negli spazi di silenzio meditativo potevo sentire proprio la furia e il
fragore delle ondate che collassavano sulla spiaggia. Mi sembrava poco probabile
che ci fosse qualche paguro in marcia.
I giorni che seguirono non videro nessun cambiamento nel
tempo. Continuò a gocciolare e ad essere fosco. Non arrivò nessuna lettera da
Augustus Silver. Il drago di Filby sembrava essere in uno stato di declino
perpetuo. Il problema che lo infettava si ritirò in profondità col passare dei
giorni come se si prendesse gioco di Filby che lo cercava a tentoni durante la
veglia, che annaspava verso di esso, certo in mattinata di tenere il problema
con sicurezza per la coda, imbronciato quello stesso pomeriggio perché ancora
una volta gli era sfuggito. La creatura era una meraviglia perfetta di parti
separate. Non avevo avuto idea della sua età. Centinaia di quelle parti, per la
fine della settimana, erano poggiate con precisione sul pavimento del garage,
una dopo l'altra nell'ordine in cui erano state smontate. Cerchi concentrici di
ossa si espandevano come increspature in uno stagno, e per il martedì della
settimana successiva grosse quantità ne erano state raccolte in barattoli del
caffé che stavano qua e là per il banco di lavoro e sul pavimento. Filby stava
decadendo, lo si poteva vedere. Quella settimana passò meno tempo nel garage di
quanto non ne avesse passato là un solo giorno le settimane precedenti, e al
contrario dormiva per lunghe ore nel pomeriggio.
Io avevo ancora la speranza di una lettera da Silver. Era,
dopotutto, là fuori da qualche parte. Ma ero tormentato dal sospetto che una
tale lettera avrebbe potuto contribuire certamente ad accertare le illusioni di
Filby (o le mie) e così prolungare quello che col passare dei giorni prometteva
di essere lo sgonfiamento finale di quelle stesse illusioni. Meglio nessuna
speranza, pensavo, della speranza impossibile, dell'attesa rovinata.
Ma verso la fine del pomeriggio, quando dalla finestra
dell'attico potevo vedere Jensen farsi strada con cura tra le scogliere
portando con se un cannocchiale in legno e ottone, mentre il bagliore arancio di
un sole diffuso si radiava attraverso la nebbia sottile sopra il mare, mi chiesi
dove fosse Silver, quali strani mari solcasse, quali meraviglie bisbigliate lo
stessero trascinando lungo sentieri della giungla proprio quella sera.
Un giorno sarebbe arrivato, di questo ne ero certo. Ci
sarebbe stata una nebbia rattoppata illuminata dalla luce avorio della luna. Il
suono della musica orientale, di banjo cinesi e gong di rame avrebbe echeggiato
sopra l'oscurità dell'oceano aperto. La nebbia avrebbe vorticato e si sarebbe
aperta, rivelando un universo di stelle e pianeti e l'aurora boreale che danza
in colori trasparenti come la luce delicata d'arcobaleno delle lanterne di carta
appese al cielo spazzato dal vento. Poi la nebbia si sarebbe richiusa e fuori
dalle brume spettrali, sollevandosi nella risacca, la sua nave si sarebbe
diretta alla bocca del porto, lentamente, fendendo l'acqua come uno spettro,
strane creature marine visibili nella scia fosforescente, lasciandosi andare una
dopo l'altra e tornando al mare come se avessero accompagnato lo scafo per
diecimila miglia d'oceano misterioso. Ci saremmo messi a bere una birra, tutti e
tre, nel garage di Filby. Avremmo convocato Jensen dalla sua veglia.
Ma come ho detto non arrivò nessuna lettera e ogni attesa fu
vana. La bestia di Filby era ridotta in parti: un vassoio di carni guaste, così
com'era. La sua idea mi ricordava soprattutto i tristi resti ossei del tacchino
del Giorno del Ringraziamento. Non ci si poteva fare niente. Filby non si
sarebbe placato. Ma la nebbia, alla fine, si era sollevata. La quercia nel
giardino stava schiudendo le foglie e le piante di pomodoro arrivavano
all'altezza del ginocchio ed erano lussureggianti. Il mio bruco era ancora
addormentato, ma avevo qualche speranza che l'aria primaverile lo avrebbe
resuscitato. Comunque, quell’aria non stava facendo nulla per Filby. Guardava
fisso per lunghe ore al miscuglio di detriti e quando in un momento male
ispirato gli suggerii scherzosamente di mandare qualcuno a Detroit per un
carburatore, mi gettò un tale sguardo selvaggio che mi defilai di nuovo
lasciandolo solo.
Una domenica pomeriggio il vento soffiava facendo sbattere la
porta del garage di Filby fino a che il rumore non divenne molesto. Guardai
dentro furtivamente, inorridito. Non c'era niente nei pezzi di rottami
accatastati che suggerisse un drago, tranne un'ala smantellata, con la seta e
l'argento coperti da manate di grasso. Due gatti si aggiravano attorno. Cercai
in giro qualche segno del paguro di Jensen sperando, di fatto, che una qualche
spiegazione razionale e concreta potesse essere richiamata a spiegare il
disastro. Ma Filby, ahimé, era semplicemente andato in pezzi con i programmi
del suo drago. Aveva perso qualsiasi strana ispirazione che gli dava la carica.
La sua creazione giaceva tutta sparsa, con neppure due pezzi collegati. Cavi e
fusi erano ammassati in mezzo a cristalli non meglio identificabili e il pezzo
contorto d'un macchinario elaborato era stato, abbastanza chiaramente, molto
seguito e ora giaceva freddo e morto, seminascosto sotto il tavolo da lavoro.
Dei delicatissimi questi e quelli erano impantanati in una pozzanghera d'olio
che schiumava per metà il pavimento.
Filby girava attorno, alla deriva, i capelli consunti. Aveva
ricevuto un'ultima lettera. C'erano degli accenni a un viaggio estensivo, forse
del pericolo. La visita di Silver alla costa occidentale era stata di nuovo
rimandata. Filby si passò la mano indietro sui capelli, dimentico del tormentato
risultato che l'azione causava. Aveva l'aspetto d'un pazzo Bedlam del 18°
secolo. Borbottava qualcosa sul fatto di avere una sorella a McKinleyville e
apparve abbastanza acceso quando aggiunse, senza motivo, che nella città della
sorella, in profondità nel cuore della costa settentrionale, c'era il totem più
alto del mondo. Due giorni dopo era partito. Gli chiusi la porta del garage e
gli promisi di raccogliergli la posta con un occhio particolare per un
francobollo esotico rivelatore. Ma non è apparso ancora niente. Ho preso
l'abitudine di passare la sera sulla spiaggia con Jensen e il figlio, Bumby,
tutti e due che sperano ancora nella fuoriuscita dell'ultimo paguro. I tramonti
primaverili sono inimmaginabili. Bumby ne è innamorato quanto me e può vedere
comparabili spire di colore e di forma nelle curve a spirale di una conchiglia o
nelle peculiari profondità verdi di una pozza creata dalla marea.
Di fatto, quando il mio bruco dei pomodori è venuto fuori
barcollando dalla tana e ha spiegato un enorme paio di ali diafane chiazzate di
scuro, l'ho portato in spiaggia cosicché Bumby potesse vederlo alzare le vele,
così com'era. Il pomeriggio era senza nuvole e l'oceano sospirava sulla
spiaggia. Forse la calma, insisteva Jensen, avrebbe richiamato il paguro. Ma
Bumby per allora era indifferente al favoleggiato paguro. Guardava nella
scatola della salamoia alla mezza dozzina di cerchi di un luminoso arancio che
punteggiavano l'addome di una gigantesca farfalla sfinge che una volta aveva
strisciato tra le mie piante di pomodoro in un astuto mascheramento. Era
magnifica e terribile allo stesso tempo e aveva un fascino strano per Bumby che
dava dei colpetti alla scatola inventando nomi e scartandoli.
Allorché svitai il coperchio, la farfalla svolazzò verso il
cielo per qualche metro e girò attorno in un ovale impazzito, con Bumby che era
attaccato alla sua scia e correva all'inseguimento mentre il mostro si
affrettava verso sud.
Il suo quadro m'é chiaro ora come acqua di sorgente: Bumby
che corre e che salta, scalciando verso l'alto spruzzate di sabbia, che si
profila contro la scogliera muschiata che sale a picco e la magnifica farfalla
sopra la testa, fuori portata, che alletta Bumby lungo la spiaggia del
pomeriggio. Alla fine fu impossibile dire semplicemente cosa fosse la chiazza
nel cielo blu Cina: la minuta creatura alata per un attimo in controluce nel
falso orizzonte della nostra piccola baia, o qualche grossissimo rettile volante
che si avventa sopra l'oceano distante da dove scomparirà nel vuoto, oltre
l'orlo della terra piatta.
titolo originale Paper Dragon
© James P. Blaylock
traduzione italiana Danilo Santoni
collegamenti
Myron Chester e i rospi