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Enceladus (Tratto da "La Massa Mancante", Pablo Palazzi) Inserito : 07-15-2006 @ 07:00 pm |
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Enceladus.
La guardò di traverso, da un paio di metri, ed immaginò d’ucciderla.
Le avrebbe detto d’avvicinarsi, di stendersi accanto a lui a guardare quell’immenso cielo stellato. Una volta distesi non le avrebbe dato il tempo di distinguere tra una dolce carezza sulle labbra ed un efferato omicidio. La differenza non stava in fondo che in pochi secondi in più. Una dolce carezza, malauguratamente troppo prolungata. Avrebbe premuto più forte con entrambe le mani nel caso si fosse dimenata per non lasciarsi morire. Certe donne – pensò divertito – non sanno apprezzare i sentimentalismi estremi. Gli venne una risata maligna che trattenne, e di seguito immaginò lo sguardo di lei pietrificato in quell’istante subito prima d’andare al creatore. Non gli faceva alcun effetto immaginarlo, non gli provocava nessun sentimento. L’idea gli era così indifferente che se ne compiacque. Sentì la bocca umida di saliva e l’odore sgradevolmente zuccheroso dei fiori del carpino e capì, come gli capitava spesso, di non essere affatto felice. Ma neppure davvero triste come era stato altre volte in passato.
“Che cosa mai sarebbe cambiato nel sistema solare, nella via lattea, per non parlare del magnetismo di Enceladus, se da quella sera Alisia sarebbe sparita dalla terra?” – pensò.
Non sarebbe cambiato nulla, ne era convinto. E non si doveva scervellare per convincersi.
Quell’articolo che aveva letto il giorno prima gli entrò ancora di prepotenza nei pensieri. Ci si era imbattuto in modo del tutto casuale su una rivista scientifica che un turista americano aveva lasciato al tavolino del Café Des Platanes: i misteri della luna bianca. Le recenti scoperte geologiche su uno strano satellite di Saturno chiamato Enceladus dovevano averlo turbato in qualche modo.
Probabilmente era per il fatto che ora non ricordava più quali foto inserite in quell’articolo fossero reali e quali dei disegni. E chi erano mai quegli bizzarri artisti che prestavano il loro talento per mistificare la realtà? – si chiese, provando la sgradevole sensazione che stesse per confondere tutto: Saturno, Alisia, i pensieri e le parole. Sapeva bene di non essere affatto felice.
Quella notte era davvero scura come un tunnel nello spazio. Sembrava un surreale buco nero sorretto da due polmoni scarnificati come fossero ali che respiravano il metallico, profondo rumore delle cicale. Ce n’erano a migliaia di cicale quella notte. Ne sentiva l’elettrico cortocircuito immaginando che provenisse direttamente dallo spazio profondo. Magari proprio da Enceladus. Gli creava un senso di malessere profondo pensare all’idea di Enceladus piantato là nel mezzo dello spazio più buio. In quella specie malinconia del siderale vuoto cosmico ci si ritrovava e si sentiva solidale con quei corpi celesti abbandonati da Dio.
Pensò alle cicale come ad illusioni prodotte dal mal di vivere esalato dalla materia oscura tra i mondi brana. E guardando la sua ultima conquista femminile non vedeva che uno spettro balbuziente. In quel suo sguardo immobile illuminato da mozzichi di candele, non vedeva nulla, neppure del rancore.
Alisia fece un passo solamente e s’arrestò guardandolo come una donna matura potrebbe guardare il sesso del suo amato nell’attimo esatto che precede l’orgasmo. Il volto cupo e pensieroso di lui le parve proprio come un pene eretto che all’improvviso cambiava pelle e diveniva prima una foglia acerba e poi secca. Alisia nascose il suo imbarazzo quando immaginò quella foglia sgretolarsi ed ondeggiare nel pullulare malconcio del vento. Il sesso che si dilapidava attraverso i rami d’abete che circondavano il giardino della villetta di Algyss.
Ne era innamorata di sicuro, se lo ripeté ancor prima di fare un secondo passo. Ma le faceva accapponare la pelle il modo inumano con cui la possedeva sessualmente. Non ci trovava alcun erotismo, alcuna passione. Stringeva i pugni quando vedeva il suo sguardo vuoto e insensibile mentre raggiungeva un orgasmo. Era una maschera di cera.
“Posso venire lì?”
Alisia se ne stava ad una decina di metri, eretta sotto il porticato della villetta. Vista dal basso aveva davvero un sedere ben fatto, pensò lui. Rotondo e carnoso. Non tutte le ragazze di vent’anni potevano vantarne uno uguale. Vista dal basso persino le sue gambe sembravano più lunghe e affusolate. Ma quel cranio già così grosso sembrava invece enorme. Tanto quanto Enceladus – pensò prima divertito, poi disgustato.
Alisia doveva aver avvertito quel malessere. Infatti quella notte non osava neppure avvicinarsi a lui. Sapeva che l’avrebbe potuto disturbare ed irritare. Lei che chiamava le stelle “delle macchie nel cielo”. Lei che a stento era al corrente del movimento dei pianeti.
“Certo che puoi…”
Non le rispose che dopo una ventina di secondi. Solo dopo che ebbe immaginato tutta quella scena: lei che rinunciava definitivamente ad opporsi alla morte. Il colore del suo volto che diveniva bianco e splendente. Come Enceladus appunto.
Alisia si coricò timidamente al suo fianco sopra la coperta che aveva disteso sull’erba umida e fece per stringergli la mano, ma la ritrasse subito sentendo in qualche modo una spietata freddezza. Quando i capelli le si adagiarono sulla spalla intravide ancora quello strano simbolo che aveva tatuato sul collo. Non le aveva mai chiesto cosa significasse perché si era presuntuosamente convinto che tutto ciò che riguardasse Alisia non poteva avere né alcuno spessore intellettuale né, alla fine, alcun senso.
“Perché sei così freddo con me?”
Rimase in silenzio. Ed in effetti ci pensò – perché era così freddo con quella ragazzina poco più che ventenne che frequentava ormai da due mesi? C’era davvero un motivo? L’aveva ferito? Tradito? Che cosa le aveva fatto di tanto sgradevole da apparirgli quella notte come una pietra senza braccia e gambe e soprattutto senza testa. La guardò ritirarsi e si chiese ancora nella testa – Cos’è stato? E quando è successo?
Alisia se ne stava tornando sconsolata in casa agitando le natiche che le uscivano dai striminziti calzoncini, quando – quasi per sfidare giocosamente i suoi pensieri – si chiese se fosse realmente viva Alisia. O se altro non fosse che una proiezione del mal di vivere cosmico, un’insieme di coordinate spaziali inanimate.
C’era da rabbrividire ad avere certi pensieri, ed infatti si sentì trasalire, come se fosse stato abbandonato in una vasca da bagno buia e profonda come stelle fredde dopo il Big Crunch.
Era passata mezzanotte e non si sentiva più alcun suono nell’aria se non il balenare pacifico delle onde sulla spiaggia oltre il giardino della villetta.
“Alisia! Alisia…”
La chiamò due volte ad alta voce. Poi una terza rassegnato. Aveva spento le luci della sala ed era andata a letto – pensò.
Si era offesa probabilmente, ed anche se sentiva la sua voce fingeva di dormire. E sebbene non l’amasse affatto quella ragazzina, per un attimo sentì fervere una malata gelosia. Non perché lei potesse pensare ad un altro uomo o perché non l’amasse più. Niente del genere.
Era una gelosia strana. Era come se Alisia all’improvviso non riconoscesse più la sua voce, tanto era divenuto incolmabile il loro distacco. Anzi, come se Alisia non potesse più udire la sua voce perché questa non era più in grado di farsi udire la lei. Pensò al suono bizzarro della parola ‘svanire’. Svanire! – disse ad alta voce. Trasalì ancora.
In quel momento s’augurò per un breve istante che le stelle non fossero davvero altro che delle macchie nel cielo, e che il cielo – come diceva Alisia – faceva da cuscinetto tra noi e le stelle. L’orata alla griglia che aveva mangiato qualche ora prima gli si rigirò intorno allo stomaco.
Sentì un tremendo bisogno di calore umano, come se all’improvviso gli avessero strappato via dal cervello tutti i ricordi del suo passato, sostituiti con il fatuo tempo di un buco nero. Poco prima di tirarsi su di scatto ebbe la rabbrividente sensazione di non esistere affatto. Ancora quella parola, svanire. Si ripromise per l’ennesima volta di smettere di pensare. Non era forse per questo che si era preso un paio di giorni di vacanza? Non era per questo che era partito proprio con Alisia che gli avrebbe garantito innumerevoli conversazioni prive di spessore?
Ma certo! – ora lo ricordava. E si sentì sollevato.
Sulla scrivania del salotto vide il suo ultimo romanzo aperto, Alisia probabilmente gli aveva dato uno sbirciata. Spense quindi l’abatjour ed andò in camera da letto brancolando nel buio. Si coricò accanto ad Alisia.
“Ti sei già addormentata?” chiese dolcemente, senza neppure vederla o sentirla.
Non udì alcuna risposta, né un debole sospiro.
Rimase in silenzio per qualche minuto pensando di nuovo all’inaspettato successo del suo ultimo romanzo. L’aveva visto persino per qualche settimana negli scaffali di un supermercato. Aveva sperato, supplicato invano affinché s’arrestasse quell’escalation di vendite. L’illusione d’essere un grande scrittore di nicchia s’era spenta all’orrenda visione di una grassa donna che acquistava il suo ultimo romanzo insieme al radicchio e a del maiale surgelato. Quel pensiero gli fece venire in mente una notte di tante estati fa quando aveva dormito in quello stesso letto con Sharon. Lui era un giovanissimo scrittore amato solo dalla critica d’avanguardia, un talento precoce si diceva, e Sharon una ragazza talmente bella e sensuale che sembrava il premio massimo che si potesse ricevere in una vita intera. Sharon era il suo nobel per la letteratura. Nessuna donna che avesse mai visto poteva neppure avvicinarsi alla sua bellezza, tanto che non era mai stato invidiato a tal punto, neppure ora che il suo libro era un best seller. E’ troppo bella per te, fin troppo bella – gli dicevano spesso i suoi innumerevoli detrattori. Eh già, si disse sconfitto nell’animo, adesso non era affatto la stessa cosa. Ma tutto ormai era definitivamente cambiato. Stando così le cose non si poteva affatto tornare indietro. E Sharon a questo punto non esisteva più. Almeno quella Sharon di un tempo. La immaginò invecchiata ed allora sorrise al passato che non sarebbe mai tornato. Ed al futuro, che seppur non gli sembrasse affatto roseo, portava in grembo quell’aurea di mistero e di minaccia che lo eccitava ancora.
S’alzò, e senza accendere la luce, andò nel bagno accanto alla stanza da letto. Si guardò allo specchio e constatò disgustato di quanto alcune sere si trovasse invecchiato. Come se si potesse rimanere uguali per tre anni di fila ed invecchiare poi in soli dieci secondi. C’era un non so ché di insensato, di tremendamente insensato nell’invecchiare – pensò. L’idea di invecchiare era insopportabile almeno quanto la solitudine di Enceladus.
Si lavò i denti e tornò a letto al buio. Alisia non dormiva affatto – pensò. Probabilmente se ne stava immobile con il respiro strozzato in attesa delle sue prossime mosse. Forse pensava a che errore era stata quella breve vacanza sull’isola, e che al ritorno sulla terra ferma avrebbe messo fine a quella relazione che la faceva sentire sempre di troppo. Probabilmente ora l’avrebbe scambiato volentieri con il suo ex che tanto di fretta aveva congedato per stare con lui. Non si ricordava affatto il suo nome. Alto, magro e con i capelli neri. Così lo aveva dipinto Alisia. L’aveva lasciato di punto in bianco nonostante tra di loro ci fossero quasi quindici anni di differenza. In quel momento si rese conto che non sapeva neppure con certezza quanti anni aveva Alisia. Diciannove come ventidue, non ne aveva la più pallida idea. Ma glielo aveva mai chiesto veramente?
Rimase a lungo immobile per evitare che Alisia potesse confondere il suo stiracchiarsi le ossa con delle avance. Aspettò a muoversi finché non immaginò che Alisia fosse piombata finalmente in un sonno profondo. Gli venne in mente il volto di suo padre quando lo avevano costretto ad identificarlo nella camera mortuaria. Era morto solo quattro mesi fa. O erano sei, si chiese? Non si ricordava più. Di certo era morto prima che il suo ultimo libro diventasse un best seller. Ora, pensò tristemente, era davvero solo. Era solo al mondo come Enceladus era solo nello spazio. Bé non proprio, pensò, quel pianeta di ghiaccio aveva pur sempre Saturno. Infondo era un suo satellite e questo probabilmente non sarebbe mai cambiato, almeno per chissà quanti miliardi di anni. Lui invece era davvero solo, perché la madre si era spenta quando lui aveva poco più di sei anni. Un incidente d’auto in Sud America. Era stato in Cile o in Colombia? – si domandò senza ricordare.
Queste tristi constatazioni gli fecero venir voglia di sfiorare il corpo nudo di Alisia per sentirsi un po’ meno solo. Non d’abbracciarla ma semplicemente di sfiorarla. Quasi si decise a farlo. Di certo la sua esitazione non dipendeva affatto da una malsana competizione tra di loro a chi sarebbe riuscito a sopportare di più l’astinenza di calore umano, di sentimenti. Non con Alisia di certo, non aveva nessuna guerra in atto contro di lei. Il fatto era che con lei non c’era in atto proprio nulla. Pensò che se l’avesse toccata o anche semplicemente sfiorata, lei si sarebbe immediatamente avvinghiata a lui come un polpo. E al quel punto si sarebbe trovato nella fastidiosa situazione di doverla possedere sessualmente, in modo brutale, l’unico modo possibile. Non perché Alisia si sarebbe ritrovata all’improvviso eccitata tremendamente dal nulla, ma più tristemente perché lui si sarebbe sentito costretto a violentarla brutalmente. Non voleva mentirle, non voleva che potesse confondere il suo gesto derivato da una disperata solitudine con dell’affetto o ancor peggio dell’amore. Alisia non avrebbe mai potuto immaginare che dietro a quel gesto si nascondeva la malinconia di un satellite di Saturno. Non era certo una cosa che le avrebbe potuto spiegare facilmente. Quindi desistette e rimase ancora immobile. Provò ad addormentarsi e per un attimo credette di riuscirci. Ma non fu così.
Guardò l’orologio sulla scrivania accendendo un fiammifero. Erano le due e quarantasette del mattino. Approfittò della fiamma per accendersi una sigaretta che si gustò fuori nel giardino. Guardando la luce delle stelle riflettersi nelle increspature del mare. Se fosse stato con Sharon quella notte le avrebbe aperto una bottiglia di Crystal e una volta ubriachi ed eccitati dalla cocaina si sarebbero tuffati in mare nudi. Poi pensò che era appena Aprile e che l’acqua era probabilmente ancora gelida. Sharon gli avrebbe sicuramente rimproverato questo suo calcolare tutto, anche la temperatura dell’acqua. Persino quando sei strafatto devi sempre pensare e rovinare tutto! – gli avrebbe detto. Allora sì che quella notte nel letto avrebbe fatto con Sharon la sua malsana competizione d’astinenza di calore umano. Perché chiunque avrebbe perso, e qualcuno perdeva sempre, il risultato non cambiava affatto. Si sarebbero prima accarezzati, poi baciati. Si sarebbero detti che s’amavano e avrebbero fatto l’amore. Mai esagerando nelle perversioni per non rovinare il loro amore, questo era il patto tra di loro.
Ma non aveva una nostalgia reale di Sharon. Gli mancava l’idea. L’idea del passato che in quanto passato non esiste più lo turbava. Esattamente come l’invecchiare e come la malinconia di Enceladus. In quel momento avrebbe voluto fare l’alba in giardino con Einstain. Il grande fisico gli avrebbe confessato che la teoria della relatività dello spazio tempo era stata un’intuizione non suffragata da nessun dato empirico. E che era stato un altro fisico e non lui a formulare le fatidiche equazioni. Poi lo avrebbe consolato spiegandogli che lo spazio tempo tra lui e Sharon c’era sempre stato, prima ancora che lui avesse avuto la percezione di viverlo. E che ci sarebbe stato anche dopo la loro morte. Perché nessuno moriva realmente. E nessuno esisteva realmente allora - avrebbe aggiunto lui. Immaginò Einstain che gli dicesse un’ultima cosa prima di immergersi nel mare scuro e sparire. Proprio così caro mio, è esattamente così, gli avrebbe detto.
Erano ormai le quattro passate. Aveva appena letto le ultime dieci pagine del suo best seller. Le trovava imbarazzanti ora. Ma non era stato affatto così quando le aveva scritte. Non era un caso – pensò – che ora che aveva scritto quell’orrendo romanzo si fosse meritato Alisia e non Sharon.
Ma davvero dormiva profondamente Alisia?
Non l’aveva sentito alzarsi dal letto? Con tutto quel trambusto ch’aveva fatto poi…
Prese una bottiglia d’acqua gelida dal frigo e si versò un bicchiere. Poi si lavò nuovamente i denti e tornò a letto.
Alisia doveva dormire come un sasso perché non solo non la sentiva muovere ma neppure respirare. Di certo lui non l’avrebbe svegliata. A quell’ora della notte sarebbe stato davvero un gesto maleducato ed insensibile. Si ripromise di parlarle francamente al loro rientro dalla vacanza. Le avrebbe detto che non l’amava, del resto non glielo aveva mai fatto intendere, e che non si trattava neppure di una relazione a scopo sessuale. Le avrebbe spiegato che in questo periodo della sua vita aveva bisogno di relazioni vacue. Non avrebbe usato, pensò, la parola vacue. Aveva bisogno di relazioni superficiali. Ecco, così avrebbe capito, si sarebbe offesa, e nel peggiore dei casi nel giro di un paio di settimane sarebbe sparita. Anzi, svanita! Gli piaceva davvero il suono di quella parola. In fondo poteva sempre presentarla a qualche amico. Conosceva un sacco di scrittori che avrebbero fatto follie per Alisia. Maurice Foster forse non l’avrebbe trattata come una regina? E Massimo, quell’italiano avrebbe buttato sua madre dalla finestra per fare sesso con Alisia.
Ed ecco che, pensando a questa cosa, agli amici ed ai conoscenti che avrebbero apprezzato Alisia, si ritrovò a fare una strana scoperta. Qualcosa a cui non aveva mai pensato prima d’allora.
Nessuno aveva mai visto Alisia. Davvero, nessuno che conoscesse l’aveva mai vista. Non erano mai usciti insieme in città, mai una sera. Alisia veniva direttamente a casa sua, facevano sesso e poi se ne andava a notte inoltrata. A volte mangiavano e guardavano un film ma poi se ne andava via sempre a notte fonda. Avveniva tutto a casa sua. Anzi no! – pensò eccitato – era stato due volte a casa di lei. Un minuscolo monolocale orrendo. Ma usciti, mai.
Quella scoperta gli fece venir voglia di una sigaretta. Scese dolcemente dal letto e uscì in giardino.
Certo – pensò – che anche qui nell’isola non erano usciti molto. Le spiagge che frequentavano erano deserte, i bar ancora chiusi. Tanto che Alisia preparava il pranzo al mattino e lo portava con sé in spiaggia.
Qualcuno qui nell’isola li aveva mai visti assieme?
Quella domanda lo eccitò tremendamente. L’idea che Alisia fosse una specie di spettro lo rendeva euforico. Avrebbe potuto tranquillamente sbarazzarsi di lei senza che nessuno lo venisse mai a sapere.
Alisia chi? – avrebbero detto quando avrebbe tentato di raccontare questa storia a chicchessia.
Gli venne voglia di sentire quanto fredda fosse l’acqua del mare. Scese in spiaggia giù per lo sterrato a piedi scalzi ma una volta sulla sabbia non ne ebbe più voglia. La sabbia ghiacciata e le alghe sotto palmi dei piedi gli erano bastati.
Tornò in giardino che ormai il cielo era cobalto. Presto sarebbe sorto il sole. Ed ora era davvero stanco, si sarebbe addormentato sicuramente.
Chiuse bene le porte di vetro del salone e tornò in camera da letto. La luce ormai filtrava dalle persiane e la stanza da letto era dolcemente illuminata.
Alisia non era a letto.
Si buttò come un bambino sul materasso e poi, una volta sotto le coperte divaricò le gambe, approfittando di tutto quello spazio. Presto Alisia sarebbe tornata dal bagno e dopo qualche parola di circostanza avrebbero dormito abbracciati. Ora l’idea di dormire abbracciato a lei non gli dispiaceva affatto. Si sentiva sazio, tutto quel pensare di quella notte gli dava l’impressione d’aver vissuto cento vite mentre Alisia se n’era rimasta a letto. Non c’era davvero niente di più relativo del tempo, pensò a tal proposito. Quindi si preparò ad accogliere Alisia a letto con entusiasmo. Che cresceva d’attimo in attimo.
Finché non si sentì spazientito ed andò in bagno, quasi per rimproverarla di questa sua lungaggine.
Ma Alisia non era neppure nel bagno.
La cercò in sala. In cucina. Poi, scocciato, uscì in giardino e la chiamò.
Alisia! Alisia dove sei?
Ma proprio mentre la chiamava si ricordò che la porta di vetro attraverso cui si accedeva al giardino era chiusa dall’interno. Del resto l’aveva chiusa lui solo pochi minuti prima.
Si sentì per la prima volta il cuore in gola. Durò un attimo solo ma che gli lasciò un brivido che l’accompagnò nuovamente dentro la villetta.
La cercò senza più chiamarne il nome. Immaginò che potesse spuntare fuori all’improvviso da una tenda o da dietro chissà quale mobile.
Booo!!!! – avrebbe fatto. E di sicuro l’avrebbe spaventato.
Quel gioco cominciò a non piacergli affatto. Tanto più che ormai aveva percorso avanti e indietro tutte le stanze della villetta. Quattro in tutto.
Dove accidenti si era nascosta?
Decise di mettersi a letto. Presto si sarebbe stufata di giocare se lui non l’avesse cercata e sarebbe saltata fuori.
Ma proprio nella stanza da letto si ritrovò davanti ad una brutta sorpresa. Una sorpresa davvero spiacevole. Si sentì intimamente confuso per un attimo.
Perché mai Alisia gli aveva voluto fare un tale scherzo?
Dove erano finiti i suoi vestiti che erano dentro l’armadio aperto? Le sue scarpe? La sua valigia?
S’alzò di scatto e sorrise. Alisia aveva nascosto tutto per fargli davvero un brutto scherzo. Corse in bagno. Era pronto per urlare – Alisia ma chissà di chi è questo? Te lo sei dimenticato?
Ma lo spazzolino da denti, come del resto tutta la sua borsetta dei trucchi, l’accappatoio, le ciabatte, sparito, tutto sparito. Gli tornò in mente quella parola, svanito. Ma ora quel suono gli sembrò sgradevole e minaccioso.
Ma che razza di mente diabolica aveva Alisia?
Davvero non conosceva Alisia abbastanza in profondità da supporla capace di arrivare fino a questo punto?
Erano quasi le sei mattino quando fece ritorno nel giardino della villetta. Aveva girovagato per le tortuose stradine che collegavano le stupende ville di quel promontorio senza alcun esito. Alisia era svanita nel nulla e non c’era veramente alcun ché d’altro che potesse fare al momento per rintracciarla. Aspettò che fosse mattino inoltrato seduto al tavolo del terrazzo. Ogni tanto la testa gli cadeva tra le braccia ma riuscì ad impedirsi d’addormentarsi.
Verso le dieci del mattino prese l’auto e la condusse lungo la statale panoramica che conduceva al paesino di Roussebourg. Era una mattina fredda e ventosa, ed il cielo prometteva un violento nubifragio. Era la seconda volta, da quando era arrivato sull’isola, che scendeva in paese. Due sere prima aveva portato Alisia a cena da Bizlac, un ristorantino in una via interna della città vecchia di Roussebourg. Ogni volta che scendeva nell’isola con una donna diversa la portava almeno una volta a cena da Bizlac. Conosceva il proprietario, Antuan, e non solo poteva vantarsi con lui delle sue innumerevoli donne, ma – proprio per questo motivo – riceveva spesso da lui svariati complimenti e una serie continua di smancerie che finivano per fargli fare, se mai ne avesse avuto bisogno, una gran figura anche davanti alle sue amanti. Era un giochetto perfetto di cui andava assai fiero.
Accelerò il passo davanti ad un negozio di maschere tribali indonesiane voltandosi da un’altra parte. Il proprietario di quel negozio, si ricordava, aveva un’orribile cicatrice sugli occhi che gli rendeva lo sguardo agghiacciante. Non era proprio di quello che aveva bisogno quella concitata mattina.
Sarebbe dunque andato al Bizlac, che normalmente apriva già al mattino presto, ed avrebbe chiesto ad Antuan se aveva visto Alisia quella mattina. O la notte prima. Alisia, gli avrebbe spiegato brevemente, è la ragazza che era a cena con lui due sere prima, e che adesso pareva svanita nel nulla.
Mentre camminava ci ripensò. Gli avrebbe detto solo se l’aveva vista quella mattina passare di lì. L’aveva lasciata a leggere delle riviste e ora non la trovava più. Ad ogni modo, e non era affatto una magra consolazione, qualunque fosse stata la risposta di Antuan, questa gli avrebbe per lo meno confermato che due sere fa era stato davvero a cena con Alisia. E che qualcuno l’aveva vista realmente quella ragazza.
Nonostante i suoi buoni propositi s’imbatté nelle serrande chiuse del Bizlac. C’era un nefasto biglietto che portava la scritta chiuso per lutto. Tuonò e di seguito incominciò a piovere. Una violenta raffica di vento percorse tutto il vicolo della città vecchia e sradicò il biglietto dalla serranda portandolo via. Anche il suo berretto beige di paglia gli volò via ma lo raccolse subito.
S’incamminò incupito verso il Café Des Platanes sulla piazza di Roussebourg. L’assurda situazione che si era venuta a creare lo stava logorando da una parte mentre dall’altra si sentiva ancora assolutamente tranquillo che tutto si sarebbe risolto. Tanto che comprò il Times nell’edicola internazionale e si ordinò un’abbondante colazione sotto la veranda del Cafè Des Platanes.
Normalmente era solito aspettare l’arrivo del caffè e del succo di arancia prima d’aprire il Times, ma quella volta fece un’eccezione a causa di quella foto in prima pagina. Non era per nulla usuale che sul Times ci fosse in prima pagina la foto a colori di Enceladus.
Misteriosa sparizione di un satellite di Saturno. Il sottotitolo diceva – La sonda russa Laxmorng che da mesi ne monitorava i cambiamenti magnetici ha inviato una serie di immagini completamente nere.
Saltò subito all’articolo completo sfogliando il Times come mai aveva fatto prima d’allora. C’era un’altra foto a colori di Enceladus che metteva in risalto la sua glaciale luminescenza. Il corpo celeste più luminoso del sistema solare, diceva il giornalista. E una foto completamente nera ad eccezione per la parte in alto a sinistra dove si vedeva una porzione degli anelli di Saturno.
Ecco l’immagine misteriosa inviata da Laxmorng al centro spaziale russo in antartide. Secondo gli scienziati questa foto trasmessa da Laxmorng sarebbe spiegabile solo con un rarissimo caso di multiple rifrazioni causate da un’improvvisa e violenta liberazione di gas sottostante alla luna bianca nella sua atmosfera. Le rifrazioni avrebbero fatto scomparire Henceladus creando una specie di illusione ottica simili a quelle usate di recente dal mago newyorkese Hugh Kall. E’ grande naturalmente l’attesa per l’arrivo delle nuove immagini dalla sonda al centro spaziale russo. Nonostante la grande forza gravitazionale di Saturno è stato comunque escluso da più parti la possibilità che un’enorme meteorite possa esser finito nell’orbita del pianeta e possa essere entrato in rotta di collisione con Enceladus, polverizzandolo nello spazio.
Leggendo quell’articolo la cosa che gli diede più fastidio fu il paragone irriverente con quel ciarlatano pelato di Hugh Kall.
Riuscì a bere solo il succo d’arancia e se ne tornò alla villetta di Algyss prendendo questa volta la stretta strada a strapiombo sul mare. Ormai diluviava così forte che i tergicristalli della sua macchina sembravano compiere chissà quale sforzo inaudito per arrivare da una parte all’altra del parabrezza.
Si convinse, al di là della fantomatica sparizione di Enceladus, che al ritorno alla villetta avrebbe ritrovato Alisia. Era l’unica cosa ragionevole che ci si potesse aspettare! – si disse irritato. Non che i misteri non gli piacessero, ma preferiva quelli che si limitavano ai pensieri e alla fantasia dei romanzi.
L’unica cosa che lo fece preoccupare veramente fu il fatto di non aver potuto trovare una misera conferma da parte di Antuan. Con nessuno, ma proprio con nessuno poteva parlare di Alisia, quella ragazzina con un bel sedere e un po’ scemotta.
Aveva soggiornato ancora per due notti alla villa. Due lunghissime, interminabili notti. Alisia non era tornata. Ormai si era arreso alla situazione. E si era forzatamente convinto di un’unica ipotesi: quella fatidica sera Alisia era tornata in camera da letto, aveva fatto i bagagli e se ne era andata via a piedi uscendo direttamente sul lato esterno del giardino attraverso le persiane della stanza da letto. Ma certo! Ora la vedeva chiaramente la sua immagine nella penombra: percorreva in salita il viale alberato che conduceva alla statale. Aveva il volto gonfio dalle lacrime e il cuore in pezzi. Una volta sulla statale chiunque avrebbe accettato l’autostop di Alisia. Aveva preso il primo traghetto per la terra ferma. S’immaginò che ora si stava già consolando nelle braccia di quel tipo alto, magro e con i capelli scuri. Quasi si sentì libero di mandarla al diavolo quella Alisia.
Quando il suo traghetto attraccò a Nimes trovò Larry che lo aspettava. Larry Robontaorea era il suo agente ed era venuto per condurlo direttamente a Salisburgo dove in serata doveva ricevere un importante premio letterario. Importante per la casa editrice non certo per lui, visto che era un premio riservato a quel romanzo da supermercati.
Tutto bene, disse, a parte il tempo.
Non accennò nulla su Alisia visto che Larry non ne conosceva neppure l’esistenza. Larry era un francese d’origine malgascia, di ventisette anni. Aveva tutt’altro l’aria dell’agente letterario ma per certe cose era una macchina infallibile. Preciso, puntuale, puntiglioso, sempre attento alle nuove opportunità per fare lievitare la tua carriera da scrittore e di conseguenza il suo portafogli.
Una volta in hotel a Salisburgo si fece portare in camera dei sonniferi. Si sdraiò sul letto e si mise il telefono sullo stomaco.
Chi poteva chiamare per sapere se Alisia era veramente tornata a casa?
Conosceva qualcuno che vivesse vicino a lei o che lavorasse vicino al suo negozio di giocattoli?
Nessuno, nessuno.
Cercò di sforzarsi di ricordare prima il suo cognome, poi il nome del negozio o della via. Non c’era modo di ricordare e quindi di tentare una ricerca. S’alzò dal letto, si lavò i denti e mise la statuetta di bronzo che gli avevano consegnato nella valigia. Dormì tre o quattro ore di fila. Poi si svegliò, erano le tre e trenta del mattino.
Prese il telefono e chiamò Michel Lambresse a Zurigo. Michel non era solo il suo editore ma qualcosa di più. Si sa che possono nascere rapporti anche fortemente ambivalenti nel modo degli scrittori e anche in quello più ampio degli editori.
Pronto chi è? – chiese assonnato ma ovviamente preoccupato Michel.
Michel sono io, sono a Salisburgo, scusa l’ora, lo so…
E’ successo qualcosa? Non mi tenere sulle spine.
No davvero, scusa per l’ora ma volevo chiederti una cosa visto che sei l’unica persona che conosco che legge il Times. Cioè, l’unica persona che conosco che posso chiamare alle tre di notte e che legge anche il Times.
Accidenti. Dimmi.
Ecco, due giorni fa ho letto quella notizia in copertina. Quella cosa incredibile sulla sparizione del satellite di saturno, la luna bianca –
Sì, sì, ricordo. E allora?
Allora mi chiedevo se ci sono state smentite. Se sono arrivate le nuove foto della sonda russa. Insomma sono passati due giorni…Enceladus è riapparso o no? Ecco è questo che volevo davvero sapere – disse con tono agitato.
Sono arrivate le nuove foto, il satellite di Saturno è al suo posto – disse scocciato.
Ah, benomale. Davvero, non sai che sollievo. Ma come è stato possibile?
Buonanotte.
Michel aveva riattaccato. Poco importava, Enceladus era tornato al suo posto. Ora poteva dormire sereno. Anche Alisia sarebbe sicuramente tornata al suo posto. Prima o poi tutto si ricompone, è questione di non farsi sopraffare dai pensieri negativi. Dormì, dormì a lungo e profondamente.
Il giorno seguente furono a Vienna per il festival del libro. La sera stessa prese un aereo e tornò a casa.
La prima cosa che fece al mattino fu quella di andare nella via del negozio di giocattoli di Alisia. La saracinesca era abbassata. Lasciò l’auto in mezzo alla strada e chiese notizie al macellaio accanto.
Sono dieci giorni che manca, credo sia andata in vacanza. Mai fatta una vacanza così lunga – aggiunse – vuol dire che è davvero innamorata questa volta!
Esitò un attimo e poi gli chiese – Sa con chi è andata? Sa chi è questo uomo?
Quello lì mai visto, mai saputo niente. L’altro, quello di prima, invece era sempre qui. Passava almeno una volta al giorno al suo negozio. Gelosia…
Alto, magro e con i capelli neri?
No, non direi. Altezza media e corporatura robusta. Capelli cortissimi a spazzola. Colore non so.
Non era fondamentale capire perché Alisia gli avesse mentito sul suo ex. Guidò come uno scellerato fino alla strada dove c’era il suo fatiscente monolocale. Ci mise un po’, e un bel po’ di ricordi dovette tirar fuori prima di trovarlo.
Bussò e suonò senza risposta. Ormai esausto chiese a due vicini di casa. Uno non l’aveva mai vista l’altro si limitò a dire che non l’aveva più incrociata da quasi un mese. Maledizione! – esclamò. Guardò disgustato quell’orrenda palazzina e tutti quei bigotti mentecatti che ci abitavano dentro. Adesso era davvero arrabbiato. Arrabbiato con Alisia!
Passarono tredici mesi.
L’aula dei congressi de La Defence era gremita di giornalisti e addetti ai lavori. Si fece silenzio. Il presentatore pronunciò il nome del vincitore del premio Lassiter, il premio della critica per il miglior romanzo dell’anno. Fece il suo nome. Sharon, meravigliosa come sempre, gli fece i complimenti baciandolo sulla guancia.
Salendo le scale che lo portavano al palco si chiese perché Sharon l’avesse baciato sulla guancia e non in bocca. Stavano insieme da solo quattro mesi e il loro rapporto era ancora fragile. Lui aveva il terrore, un vero sano e viscerale terrore che la loro storia potesse finire ancora. L’avevano guardata tutti Sharon quella sera al cocktail. Tutti l’avevano ammirata e sedotta almeno una volta con gli occhi. Certo che il suo mini abito succinto e quel rossetto volgare sulle labbra carnose non erano davvero l’ideale per quel tipo di boriose cerimonie. Volgare ma tremendamente sensuale. Era un desiderio vivente che camminava su dei tacchi a spillo. E quella sera, ancora una volta, l’aveva messo in ombra questo era certo. Prese il microfono per ringraziare ma sapeva bene che il solo ringraziamento che questa giuria di critici ammuffiti avrebbe gradito da lui era il consenso di possedere ad uno ad uno, in ogni posizione la sua splendida Sharon.
Fece un discorso banale e sciatto, tanto il pensiero di Sharon che socializzava con il giovane Craig Mullighan gli catturò gravemente l’attenzione.
Poi, come da prassi, accettò alcune domande dai critici. Il primo fu Lefranc, un mieloso lucidascarpe omosessuale.
In questa sua ultima opera ha voluto cogliere l’essenza della morte e della trasmutazione. Porre la questione morale della morte. E dell’omicidio naturalmente. Come quello della propria donna – come la chiama lei – trasmutata. Leggendo il suo romanzo si ha l’impressione che questi gesti possano essere compresi, inglobati, o forse lei direbbe trasmutati, in un progetto morale più ampio, quello che lei definisce come brana. Il suo protagonista omicida ne esce quasi da eroe, una sorta di eroico polverizzatore di materia oscura: non pensa che questa forzatura antropologica possa generare degli equivoci nei lettori?
Dall’alto del palco cercò di capire se fosse Craig Mullighan ad insistere così ineducatamente a corteggiare Sharon o se fosse Sharon che stava dando spago a quell’idiota scrittore venezuelano. Era inconcepibile che un belzebù del Venezuela potesse anche scrivere. Quelle patetiche storie di rum e di tango al chiaro di luna che piacciono tanto alle donne senza alcuno spessore. E sebbene fosse una grazia di Dio, Sharon era proprio una di queste. Rispose di getto, una cosa stupida senza neppure pensare.
Freddo e diligente. Ma completamente assente. Disse al conduttore che avrebbe preso una sola ultima domanda. Se non tornava velocemente in platea, pensò, quel porco venezuelano avrebbe infilato le sue lunghe mani nelle mutandine di Sharon.
Si alzò qualcuno che non guardò neppure in faccia –
Eppure, per certi aspetti, io ho avuto l’impressione che il soggetto del romanzo non fosse né l’implicito protagonista, né la teoretica morale, quanto piuttosto la vittima, che non rappresenta affatto la morte ma un’inconsistenza quasi ancestrale, qualcosa che si riassorbe e si riproduce seguendo dei cicli. Un divenire che non s’arresta, come invece accadrà al protagonista, con la morte fisica. Ora le faccio una domanda diciamo non da critico ma da lettore: Alisia, la protagonista femminile, muore veramente nel romanzo? o non è mai esistita? In altre parole lei “assolve” il protagonista o lo avverte più come un cinico e spietato esecutore?
Altri tribunali, rispose lui, a noi totalmente sconosciuti, si occuperanno di procedere agli atti.
Poi fece una pausa, e si rese conto di non aver afferrato neppure lui ciò che voleva dire. Infine concluse: gli scrittori scrivono per non dover sapere.
Grazie a tutti per essere intervenuti e ringrazio ancora per questo importante riconoscimento.
Uscendo dalla sala congressi de La Defence strinse stretto a sé Sharon, anche durante il noioso rito degli autografi sulle copertine del libro. Così fu costretto a vedere il titolo del suo ultimo premiatissimo romanzo almeno una cinquantina di volte.
Enceladus l’aveva chiamato.
E di quel nome, come del resto di quel disegno simbolico sulla copertina, non aveva dato alcuna spiegazione.
Tornò a casa con Sharon evitando la serata di gala. Era chiaro che lei ci sarebbe voluta andare eccome. Magari per flirtare ancora con Mulligham. Lui era un cowboy venezuelano e a lei piacevano i cowboys. Lui ormai era destinato a diventare un borioso scrittore dell’establishment, il tipo da pantofole e scrittoio nella stanza insonorizzata. Avrebbe rinunciato senza pensarci a tutta quella notorietà per la sola certezza che Sharon sarebbe sempre rimasta lì con lui. Avrebbe cambiato lavoro, si sarebbe persino umiliato a divenire un vaccaro se questo avesse riacceso la fiamma tra di loro. Ma per il momento Sharon si era trasferita da lui, e da questa conquista voleva partire.
Quella sera, in modo del tutto inaspettato, Sharon fece una scenata di gelosia. Lo rese felice questo suo ardore nei suoi confronti. Anche se tutto era nato per una vera stupidaggine: Sharon aveva trovato in un cassetto un paio di calzoncini corti da ragazza.
Non sono i miei questi! – urlò.
Vuoi che te lo dimostri?
La raggiunse in camera da letto per vedere di cosa si trattasse e la vide mentre s’indossava un paio di pantaloncini corti.
Vedi – disse mostrando quanto spazio c’era tra il suo sedere perfetto e il pantalone – questi non sono i miei!
Di chi solo allora? – disse infervorata.
Erano probabilmente di qualche ragazza che aveva un bel sedere carnoso. Spesso le ragazze appena ventenni hanno dei sederi così grossi ma sodi.
Alisia ne aveva uno così.
A ben vedere, constatò, quelli erano proprio i pantaloncini che indossava Alisia quella notte ormai lontana in cui era sparita per sempre.
Quel battibecco però li portò entrambi ad un logorante silenzio che durò per ore. Sharon fece una doccia e quando lui passò accanto alla porta semi aperta del bagno la vide nuda. Che si guardava allo specchio i seni ancora perfetti ed i capezzoli umidi, il ventre piatto e le labbra carnose e bagnate. Immaginò che stesse pensando a Mulligham ed alla festa a cui non erano stati. Forse, pensò, stava meditando ancora quel seme maligno: voleva lasciarlo ancora. Alla prima occasione l’avrebbe fatto.
Si fumò una sigaretta alla finestra logorato da queste sue orribili fantasie. Sharon che passava da un uomo all’altro, ogni volta rigonfiandosi di rinnovata eccitazione e passione, mentre lui invecchiava ingobbito in uno sgabuzzino scrivendo libri che, nel migliore dei casi, gli avrebbero rubato solo tempo alla vita reale.
Si lavò i denti e si coricò a letto che la stanza era già buia. Se ne stette raggomitolato nel suo bordo del letto per non infastidire Sharon. Sapeva che Sharon non avrebbe mai e poi mai acconsentito a fare sesso con lui quella notte. Probabilmente all’improvviso lo trovava brutto ed insignificante, ed i loro rapporti sessuali talmente scialbi che non le procuravano alcun orgasmo.
Si ricordò di quando in quello stesso letto aveva dormito con Florine. Quanti anni erano passati? – si chiese. Forse tre, forse quattro. Quante cose erano cambiate. Avrebbe scambiato Sharon con l’amibile, dolce Florine. Così femminile, così elegante ed austera. Che con quel suo piccolo problema psicologico si era quasi del tutto alienata dal sesso. E dagli orgasmi. Con Florine, pensò, quella notte si sarebbero potuti concentrare sui sentimenti, le dolcezze, le infinite carezze. Florine le avrebbe, per l’ennesima volta, detto quanto era orgogliosa di lui e dei suoi premi letterari. Gli stessi che per Sharon erano solo il sintomo dell’inaridimento sessuale, la morte della passione.
Non la sentiva neppure muovere Sharon. E l’odiava quando faceva così, quando non tradiva più nemmeno del nervosismo per la situazione. Non c’era nessuna guerra in atto da parte di lei, intanto presto l’avrebbe lasciato comunque. Magari per Mulligham. Riusciva quasi a vedersela a Caracas con Mulligham a bere rum nei piccoli bicchieri di vetro. Si sarebbe fatta scivolare il rum sul seno scoperto per farsi leccare da Mulligham davanti a tutti. Ed avrebbero ballato fino all’alba, strusciandosi ed intrecciandosi tanto da avere continuamente orgasmi. Quell’immagine gli fece sembrare la sua notte di dolcezze con Florine una cosa patetica. Finché c’era Sharon con i suoi modi sregolati, con il suo corpo prorompente, con i suoi desideri mai paghi, tutto il resto gli sarebbe sembrato patetico ed inutile.
Faceva un caldo tremendo e non gli veniva affatto di dormire. Immaginò Sharon che se ne stava rigirata con la sua biancheria intima bianca e la crema profumata sul corpo liscio. Avrebbe fatto eccome sesso con lei, non c’era nulla che potesse eccitarlo di più. Avrebbe persino acconsentito che Mulligham, proprio in quel momento, potesse entrare nella loro stanza da letto per fare sesso con lei. Pur di vederla nello splendore, nel furioso, smodato vigore delle sue passioni carnali. Che tanto distanti erano dalla perfetta, rigorosa eleganza dell’universo. Quel paragone gli fece addirittura sembrare l’universo una scialba, piatta routine quando paragonata alla malizioso, bestiale manifestarsi delle pulsioni ormonali di Sharon.
S’alzò turbato da questi pensieri e andò a fumarsi una sigaretta sul pianerottolo fuori dall’appartamento. Sapeva bene che finché Sharon esisteva lui non avrebbe avuto pace, e mai avrebbe trovato serenità e felicità. Indipendentemente che loro stessero insieme o non si vedessero più. Era l’idea che esistesse una persona come Sharon che gli impediva d’essere felice e di scrivere davvero un saggio e non più uno stupido, inutile romanzo.
All’improvviso, mentre era ancora seduto sulla moquette del corridoio del piano, vide Sharon che lo stava fissando dalla porta. Gli si gelò il sangue all’idea che avesse deciso di lasciarlo proprio quella notte.
Tornò a fissare il muro davanti a lui quasi con la speranza che lei potesse tornare dentro l’appartamento per rimettersi a letto. Ma uscì così nuda com’era, e gli si sedette accanto. Attese qualche istante, che gli sembrarono i minuti che precedono il gesto del boia, e poi l’abbracciò. E lo strinse a sé come non aveva mai fatto.
Non sapeva darsi una ragione per questo suo gesto se non il fatto che ormai era arrivata a provare pena per lui. E che a quell’abbraccio sarebbero seguite le fatidiche parole. Mi dispiace tanto, avrebbe detto. Poi avrebbe portato a termine l’esecuzione.
Non gli rimase che aspettare in silenzio le parole di lei con le braccia buttate lì sulla moquette come fossero inutili drappelli.
Sharon disse una sola frase e tornò dentro – ‘Ti prego non mi lasciare’.
Quella frase lo colse di sorpresa. Che durò solo un breve sbigottimento. Poi capì, o almeno così credette. Non era un caso, pensò, che Sharon avesse pronunciato quella frase senza un singhiozzo, senza una misera lacrima. Senza quei segni che potessero tradire una reale paura di quel presagio.
Si convinse che Sharon lo avesse appena provocato. Era una provocazione orrenda, pensò. Una forma d’onnipotente controllo che aveva voluto esercitare su di lui. Con quel tono che aveva usato! Come un adulto si poteva rivolgere ad un bambino capriccioso. Non aveva rispetto, si disse, dell’arte dello scrivere, tanto meno del suo acclamato intelletto. Ora la odiava ancora di più e si sentì all’improvviso arrivato al culmine della sua tolleranza e della sua umiliazione.
S’alzò, chiuse la porta, e piombò furioso, senza più controllo, nella stanza da letto.
Prese i calzoncini di Alisia e glieli buttò addosso.
Lo sai di chi sono questi?! – urlò. E di seguito la ricoprì di insulti volgari.
Quindi prese il suo ultimo romanzo, Enceladus, e glielo tirò contro.
‘Non l’hai neppure letto vero? Non hai neppure fatto lo sforzo!’
‘Sei impazzito?! Stai calmo…’ - disse Sharon con un’espressione enigmatica che non era affatto un chiaro, limpido spavento. Tanto che gli parve che ella ridesse.
Le si avvicinò puntandogli un dito minacciosamente nel mezzo degli occhi. Da così vicino non poté non accorgersi ancora una volta quanto Sharon fosse maledettamente bella. Inarrivabile – pensò, prima di minacciarla.
‘Tu non mi conosci affatto. Non sai di quello che sono capace. Non sai nulla di me. Non provocarmi o sarò costretto…’
Si fermò lì, in una stringa avvolgente d’erotico silenzio.
‘A far cosa? Vuoi uccidermi?’ – gli disse in un modo ironico e malizioso. Tremendamente sensuale. Tanto che lui si sentì eccitato. O forse ancor di più: improvvisamente amato. Per via dell’atto dell’uccidere, della carnalità di quel gesto. Una lotta furiosa dei loro corpi sudati, pensò, e poi le loro carni trafitte in profondità. Proprio come aveva fantasticato potesse accadere tra Sharon e Mulligham a Caracas.
Le strinse una mano leggermente intorno al collo. Si sentì eccitato come non gli era mai accaduto. Ora che sentiva il sudore ghiandolare della sua pelle, la natura più vera di Sharon.
‘Ho ucciso una donna. L’ho già fatto.’
La teneva ancora dinnanzi a sé con le dita sul suo collo che quasi non riusciva più a controllare. Sharon lo fissava negli occhi, fece una smorfia che a lui piacque enormemente.
‘Chi?’ – chiese lei, come se stesse sfidandolo a stringere ancora la sua presa intorno al collo.
Rimase in silenzio a fissarla e si rese conto di non saper nulla di Sharon, di non conoscerla affatto. La desiderava da impazzire. Era inconcepibile che qualcosa potesse esercitare un tale alieno desiderio su di lui.
‘La donna del libro. Alisia. L’ho uccisa davvero.’
A quel punto, come se si fosse tolto un grosso peso dallo stomaco, le liberò il collo ed abbassò il braccio. Sharon lo fissò a lungo senza respirare. Poi, senza aggiungere altro, se ne andò in bagno.
Mentre era immobile nella stanza, sentiva lo scroscio dell’acqua del rubinetto del bagno. Realizzò in quell’istante che la sua vita stava prendendo una piega del tutto nuova ed inaspettata. Non sapeva se esserne felice o turbato.
S’accese all’improvviso la radio della camera da letto.
Che si fosse fatto già mattino? – si chiese sentendo un brivido minaccioso.
Lo speaker annunciò con una voce ferma ed inumana la canzone: The Serpent’s Egg, tratta dall’album The Host of Seraphin.
Un’atmosfera d’inaudita quiete avvolse la stanza. Ed immaginando ancora che ora della notte o del mattino potesse essere, si rese conto d’incanto che quella canzone non sarebbe stata adatta per nessuna ora della giornata.
Il suono dell’acqua in bagno sembrò assorbirsi nel canto ipnotico di quella canzone e divenire tutt’uno, una cascata forse.
Si mosse verso il bagno. E tutto in quell’istante, dalle pareti al pavimento, gli parve sul punto di pulsare come il battito di un neonato e d’avvolgersi come una macchinosa, elegante spirale.
La porta del bagno era rimasta socchiusa. Poté guardare dentro scorgendo a tratti il volto di lei allo specchio. Ogni volta la sua immagine riflessa ricompariva sempre più truccata. Aprì leggermente la porta. C’erano un sacco di trucchi, di creme e barattoli di ogni genere sulla lastra di marmo bianca. Mentre dal lavandino incominciò a fuoriuscire dell’acqua sporca. Si era decolorata i capelli ed ora si stava passando una matita scura intorno agli occhi. Notò che senza i tacchi a spillo le sue gambe non sembravano più così lunghe e il suo sedere quasi s’adagiava e pareva più grosso, ma stranamente carnoso come quello di un’adolescente. Spalancò la porta e lei, passando ancora quella matita scura sulle ciglia, si voltò verso di lui con un’indulgente, docile sguardo d’arresa ai suoi desideri. Così truccata non sembrava neppure più lei. Aveva indossato, per qualche strano motivo, quei pantaloncini.
Ed ora, guardandola, sembrava quasi di vedere Alisia.
Sentì un brivido d’incomprensibile paura fremere in tutto il corpo. E si sentì improvvisamente fragile come era stato da bambino.
‘Perché mi fai questo?’ – le chiese. E trattenne delle lacrime.
Rimase invano in attesa di una sua spiegazione, ma ella non disse una sola parola ed anzi tornò a perfezionare con estrema attenzione il trucco sugli zigomi. Che ora, con quelle ombre pallide, parevano più sporgenti. Come tutto il viso – constatò – ormai pareva irrimediabilmente più grosso e luccicante.
Credette quindi di vedere per la prima volta quel piccolo tatuaggio che aveva dietro sul collo, quello strano simbolo.
Tornò in camera da letto pensando con malinconia all’infantile, spensierata purezza del passato che non sarebbe mai più tornata. E quando raccolse dal letto il suo ultimo romanzo Enceladus non poté davvero fare a meno di riconoscere, in quello strano simbolo che aveva fatto stampare sulla copertina, il tatuaggio che le aveva appena visto sul collo.
Spense la luce e si sdraiò sul letto. Un unico pensiero riuscì a distrarlo da quell’opprimente sibilo che proveniva dal bagno. Pensò, dopo tanto tempo, nuovamente a quel satellite di Saturno. La luna bianca. Che sebbene fosse così lontana, così sola nello spazio siderale, aveva avuto una tale incomprensibile influenza sulla sua vita.
Tanto da averla resa oscura persino a se stesso.
Enceladus (La Massa Mancante) - Pablo Palazzi, 2006
www.pablopalazzi.com
www.sxho.it
Ultimo aggiornamento il 07-15-2006 @ 07:01 pm
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