Una città oscura con troppi incubi
di Maurizio Porro
C'è di tutto e di più nel nuovo film dell'egizio australiano Alex Proyas, autore del fumetto al nero Il corvo, e ora di un film un po' gemello, Dark city, strano incrocio di fiabe (la bella addormentata ... ), fantascienza (Philip K. Dick) e detective story, in alta seduzione visiva digitale. Merito del fantastico scenografo Patrick Tatopoulos, lo stesso di Godzilla che, come in un videogioco impazzito, crea e deforma a vista grattacieli d'inizio secolo, apre porte, allunga o accorcia scale favolose: un sogno liberty gotico che va in frantumi. Ma è soprattutto l'umanità che soffre nella storia: feroci notturni Nosferatu (ogni riferimento ai classici, compreso Metropolis, non è casuale) rubano e scambiano le memorie personali, azzerando il flusso della coscienza. E sul doppio sogno kafkiano (lo sceneggiatore Lem Dobbs ne sa qualcosa), con un poveraccio che si sveglia condannato, indaga il detective William Hurt in un'allucinazione che andrà a buon fine all'alba.
Ci sono in questo film troppo ripieno di echi, e talvolta dal fascino macabro, le paure nostre contemporanee; la commistione dei generi, sotto un prepotente segno fantasy (si può nominare Magritte, magari invano), porta il regista, ispirato da un suo sogno ricorrente, alla poetica dell'eccesso. Trasformare una visione espressionista in un film-fumetto americano punk-dark con lieto fine, non era facile, anche per gli attori che sono tutti sintonizzati. Stanno davanti a un oceano di solitudine ben espressa da Proyas con le immagini, modesto invece è il film come sviluppo narrativo. Compito: portare l'incubo a casa e liberarlo nell'inconscio.
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