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Sia maledetto chi mi ha creato


di Tullio Kezich


Dimenticate Boris Karloff con il chiodone attraverso il collo, il gelatinoso Christopher Lee e tutti gli altri Mostri di una lunga tradizione cinematografica. Pur brutto, anzi bruttissimo, in «Frankenstein di Mary Shelley» De Niro è un uomo come noi: parla, ragiona, esprime il male di vivere. L'ha messo al mondo, rabberciandolo con pezzi di cadavere ed esponendolo alla consueta scarica di fulmini, un altro uomo che potrebbe assomigliarci.

È il dottor Victor Frankenstein, alias Ulisse, alias Faust, alias il pirotecnico Kenneth Branagh che lo impersona bravamente nel film da lui stesso diretto. Il guanto della sfida di Frankenstein, come sa chi ha letto l'unico romanzo (1818) resistente nel tempo fra quelli scritti dalla moglie di Shelley, è addirittura gettato ai piedi di Dio. Nel suo laboratorio di Ingolstadt, Victor definito nel sottotitolo libresco «il Prometeo moderno» realizza il miracolo di dare la vita a un essere artificiale; e quando se lo vede davanti ne ha paura, si dimentica di attribuirgli un nome e ne provoca l'eterno risentimento. Frankenstein come Laio, la Creatura come Edipo: e il figlio malriuscito prende a odiare il padre colpevole di non amarlo.

Sulla falsa riga del romanzo, il film inizia dal sottofinale: errabondo fra i ghiacci dell'Artide, Victor racconta la sua incredibile odissea al capitano della nave che l'ha salvato. Da anni lo scienziato è sulle tracce del Mostro che ha sfogato i suoi istinti di vendetta sulla famiglia Frankenstein portandovi morte e disperazione. Non sveleremo come termina la vicenda, anche se l'atmosfera corrusca, la concitazione paranoica del narratore e gli eventi calamitosi che si succedono nei flashback fanno presto escludere ogni prospettiva di lieto fine.

Prodotto da Coppola, ancora alla ricerca dei precedenti letterari dei grandi filoni orrorifici del cinema dopo il «Dracula» di Bram Stoker, il film di Branagh è certo più vicino al testo di altri adattamenti. Chi avrà occasione di rileggere il libro, scoprirà però con sorpresa che l'autrice non fornisce alcun particolare sul modo in cui il protagonista si procura la materia prima né sulle pratiche da lui attuate per creare il «mostro». Tutte le nefandezze è come se si svolgessero fuori scena, alla maniera della tragedia classica, ma il regista ad uso alle carneficine elisabettiane del teatro britannico non è disposto a rinunciare all'urlo e al furore.

Ne consegue un «Frankenstein» tutto sopra le righe, dove per esempio la madre di Victor anziché spegnersi dolcemente come nel romanzo trapassa in un delirio sanguinoso che ricorda gli eccessi di Ken Russell (un regista che alla nascita di «Frankenstein» nella villa di Byron sul lago di Ginevra, dedicò il delirante «Gothic»).

La chiave accattivante scelta da Branagh non è bastata a conquistare la grande provincia Usa; "Variety" ha definito la pellicola «A major disappointment». In realtà gli americani non hanno apprezzato l'impegno di riportare «Frankenstein» al suo carattere di racconto filosofico, e la confezione rigorosamente europea di uno spettacolo realizzato tra gli esterni naturali delle Alpi e gli studi cinematografici londinesi, e un cast praticamente «All British». Da Helena Bonham-Carter (che è Elizabeth, la sfortunata sorellastra e poi moglie di Victor) allo sbigottito padre Ian Holm e al grande Richard Briers, che impersona il vecchio cieco unico ad accogliere umanamente la Creatura.

Scarsi, insomma, gli apporti americani, tra i quali il tontolone Tom Hulce nella parte dell'amico fidato. Ma è davvero ispirata la scelta di De Niro, che riesce a restare, se stesso dietro un laborioso reticolo di cicatrici, e a fissare in macchina uno sguardo implorante e desolato che è la migliore sintesi del significato del romanzo; è insieme un appello per tutti gli incolpevoli «mostri» del nostro pianeta. Questa capacità di collocare un messaggio forte al centro di una messinscena elaboratissima risulta la migliore testimonianza del talento di Branagh, un autore che nel suo incredibile eccettismo ci stupisce ogni volta.






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