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Un maghetto libertario in un film davvero troppo lungo


di Tullio Kezich


Siamo tutti "babbani". Ovvero, secondo la terminologia di Joanne Kathleen Rowling autrice della saga di «Harry Potter», comuni mortali incapaci di cogliere il senso magico della vita. Quando noi adulti mettiamo piede nel regno delle favole, tendiamo a tirarci indietro.

Basti pensare a come venne accolto nel dopoguerra neorealistico «La bella e la bestia», di Jean Cocteau; o come alcuni anni dopo la nostra sinistra culturale prese le armi contro «La strada», il tentativo felliniano di evocare qualche risonanza magica proprio nel cuore del neorealismo. Non voglio dire che il film di Chris Columbus tratto da «Harry Potter e la pietra filosofale», prima versione cineillustrata del ciclo fermo per ora al quarto romanzo e con altri tre annunciati, sia un fatto d'arte paragonabile a quelli menzionati. Ma per ciò che riguarda la Rowling e i cento milioni di copie vendute, ai quali si aggiungono ora i proventi astronomici della pellicola, entrai in campo anche l'antipatia che molti provano nei riguardi di chi è baciato dalla fortuna. Niente dà fastidio come il successo.

Perciò in mezzo ai tanti che vanno pazzi per Harry, si sono levate proteste di gruppi religiosi e di criticoni diffidenti. Penso all'autorevole scespirologo Harold Bloom, che definisce «Potter» una miscela di Tolkien (a proposito, è in arrivo sugli schermi anche «Il signore degli anelli») e di Thomas Hughes (un poco noto autore dell'800 da cui J.K.R. avrebbe copiato il magico collegio di Hogwarts). Bloom garantisce che la saga (banalmente convenzionale, piena di frasi fatte, sintomo di appiattimento culturale) non diventerà un classico come «Alice». Ancora più arcigno, in una breve intervista su L'Espresso spericolatamente intitolata «C'è del nazi in quel maghetto», Antonio Faeti asserisce che la Rowling gli ricorda Madame Blavatsky, l'occultista che piaceva a Hitler. Per me invece l'orfanello occhialuto e misteriosamente vocato, che nell'incarnazione di Daniel Radcliffe si distingue dalla naturalità dei suoi compagni per una piacevole astrattezza tipo «sorriso della Gioconda», appartiene alla famiglia del tenace Oliver Twist di Dickens o dell'avventuroso Jim Hawkins fra i pirati dell’"Isola del tesoro", resi popolari anche al cinema.

All'opposto del nazismo, Harry è un piccolo eroe intrepidamente libertario.

Tale sentimento palpita in un film saggiamente radicato (al di là della componente americana del finanziamento, della regia e degli effetti speciali) in una dimensione «all british» garantita dalla presenza di validi collaboratori tecnici e di superbi attori (Maggie Smith, Richard Harris, Fiona Shaw e via elencando) discendenti da una impeccabile tradizione di teatro per ragazzi.

Certo basta mettere a confronto l'incipit del libro con quello del film per constatare ciò che il cinema può e non può fare in casi come questo.

Forse solo il disegno animato sarebbe stato in grado di raccogliere i segnali di rottura dalla realtà che colpiscono lo zio «babbano» del protagonista: un gatto che legge una mappa e i cartelli stradali, una misteriosa folla di ammantellati, una pioggia di stelle cadenti su tutta la Gran Bretagna. Nonostante le libertà che può prendersi tramite gli interventi del computer (qui limitati per precisa volontà della scrittrice, autorizzata per contratto a dire la sua), il cinema ha un ineliminabile gravame realistico che non può competere con i voli fantastici della pagina. Ed è proprio questo uno dei limiti dell'operazione.

Un altro limite, sempre dovuto alle caratteristiche del mezzo, è l'inderogabile necessità di attenersi a un ritmo narrativo incalzante; e qui direi che sulla durata eccessiva di 151 minuti, dopo le continue sorprese della prima parte, nell'ultima oretta l'interesse cala. Scopriamo che il quadro, allestito con sapiente divertimento e senza guardare a spese, è più affascinante della narrazione; e che l'intrigo della pietra filosofale, partito tardi, arriva in porto quando lo spettacolo ha già esaurito la sua carica di emozioni.






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