Un così bel matrimonio, ma è clonato per quattro
di Maurizio Porro
Se vi racconto che «Mi sdoppio in quattro» (Multiplicity), è la storia del solito padre di famiglia americano che non trovando tempo per casa e ufficio, si rivolge, con scatto neo irrealista, agli effetti speciali, prima donando un suo doppio, poi un terzo e un quarto, mandando così la mogliettina, i due figli e la linda casetta nelle grinfie infernali della commedia ad equivoci, ecco vi sembrerà forse la solita farsa, abbellita dai trucchi tecnologicamente fantastici di moda nel cinema Usa. Invece il film è qualcosa di più e di meglio, va caldeggiato, nonostante Michael Keaton, l'ex Batman, non abbia in Italia attecchito popolarità, mentre in America è una star di primo piano anche per meriti televisivi.
Harold Ramis, che nella cassetta di sicurezza degli incassi ha due «Ghostbusters» e l'ottimo «Ricomincio da capo», costruisce una commedia dai tempi perfetti, senza una sbavatura, certo un po’ prevedibile ma con una sceneggiatura che, in originale, fa scintille. E con un'idea che è un'ideuzza: quella per cui tutti noi vorremmo affittarci un sosia. Ma la trovata è che anche i cloni hanno una loro personalità (nell'ordine: un ragazzaccio, un effemminato, un dissociato alla Jerry Lewis), e Keaton è formidabile nel dosaggio dei caratteri, votandosi a inenarrabili pasticci.
Passi sul lavoro, anche se nel cantiere edile il capo mastro rischia l’infarto, ma il meglio si gioca naturalmente ne letto matrimoniale, crocevia di quattro partner di un gioco alla Feydeau. Corretto con una tecnica per cui nessuno dubiterebbe mai che il signor Doug si è fatto in quattro, e di ciò va reso atto al «mago» di turno del computer Richard Edlund.
Insomma, se avete voglia di ridere bene non perdete «Mi sdoppio in quattro», ha fatto ridere perfino il pubblico della Mostra di Venezia. Andie McDowell, la moglie che rischia la follia, parte da una solida base di frustrazione da casalinga, è un optional molto gentile e necessario per un film che, scritto a otto mani assai sintonizzate, è un'irresistibile variazione sull'antico tema del doppio.
Trattasi di farsa, siete avvertiti, ma costruita e recitata con abbondanza di trovate e un sicuro tempo comico.
Si è soprattutto grati a Michael Keaton, emblema della mediocrità americana in jeans e camicia a scacchi, vittima dell'attualizzato concetto del logorio della vita moderna, cui rimedia il solito angelo, che viene, da Frank Capra e triplica l'offerta. Com'è subito chiaro, tre di questi quattro Mister Keaton verranno licenziati e avranno loro autonomo destino a Miami. Chiaro che la morale tira, a letto come in cucina o in ufficio, al trionfo perbenistico e all'efficienza obbligatoria della famiglia clintoniana, né fa nulla per nasconderlo. Ma, volendo, ci si può vendicare, ridendo a crepapelle sul candore di certi costumi coniugali.
Anche perché resta psicanaliticamente inteso, suggerisce il regista, che ciascuno conserva intatta la sua brava confusione di ruoli e la sua crisi di identità.
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