Il pellegrino spagnolo
di Fiorella Borin, "Pandora" n. 21, ed. Solfanelli, 2012, 14,00 €, 184 pagg.
Bel romanzo fantastico ambientato nel 1571 a Montefalco, in Umbria, nel quale si racconta di come un pellegrino arrivato dalla Spagna per recarsi a Roma per espletare un voto, incontri una ragazza della quale si innamora perdutamente.
E di come lei muoia dopo essere stata selvaggiamente violentata da dei briganti, e lui di fame e stenti quando si era recato nel paese che gli avevano detto dominare maggiormente il territorio circostante, in modo da poter meglio vedere la sua amata che sarebbe tornata da lui.
Perché lei, con l’ultimo fiato che le era rimasto in gola gli aveva detto "Tu mi vedrai tornare".
Il racconto è farcito di numerose "storie nella storia", brevi racconti motivati dalle più svariate circostanze, che al contempo lo alleggeriscono e lo rendono più gradevole.
Ed è, anche, un racconto fantastico, appunto, perché il magico lo pervade.
Bisogna però arrivare fino a pagina 64 per trovarvi il primo passo fantastico, uno di quei racconti nel racconto che abbiamo detto, una fiaba su di un "… sarto che venne sfidato dal re a fargli un vestito d’acqua di mare…".
È poi ancora in un altro di quei racconti nel racconto che troviamo un altro passo fantastico, orrorifico, addirittura: "Il cadavere di Scolarina si alzò in piedi e, guardando con severità il marito, lo rimproverò per aver spiattellato in pubblico qualcosa di privato, che lei avrebbe preferito restasse un loro segreto. Pronunciate queste parole, la donna si rimise distesa nella fossa, riprese l’aspetto di una persona irrefutabilmente morta, e così i becchini la ricoprirono di terra." (pag. 92).
Ciò che il marito aveva spiattellato era che il loro era stato un matrimonio illibato.
Poi il marito morirà di crepacuore, ma non verrà ritrovato nella sua, tomba, trovata vuota, ma in quella della sua amata, abbracciato a lei.
Ma è poi che il fantastico irrompe anche nella narrazione principale, quando ormai il tragico destino di lei è stato segnato, e il ragazzotto che ne ha trovato il corpo e l’ha pietosamente sepolto, imbattutosi in un frate, gli chiede di benedire quel corpo.
Allora quegli sentirà ("Forse fu solo suggestione, se udì una voce mormorare" (pag. 102)) la sua voce dire una poesia piena di tristezza, si, ma anche di una felicità ultraterrena.
C’è, poi, un fatto decisamente tale che percorre tutta la seconda metà del libro: un signorotto, vista, e sentita, una contadinella bellissima suonare un flauto, le si era aggirato ripetutamente attorno, ma senza riuscire ad attirarne l’attenzione.
Innervosito da ciò, aveva incoccato una freccia e ucciso un usignolo, che era caduto morto su di lei.
E, dopo che il suo cavallo, che aveva lanciato contro quella, che, rimasta inorridita, gli aveva rivolto male parole, l’aveva quasi miracolosamente scartata, aveva cominciato a subire una sorta di maledizione, per quel suo gesto: ogni uccello che lo avvistasse, guidato da un usignolo, lo attaccava, per ferirlo: "… disse che erano stati gli uccelli… come… ebbe fatto tre passi, dagli alberi vicini spiccarono il volo almeno cento uccelli, e gli furono addosso." (pag. 107).
Cosa che si risolverà nel finale, quando viene capito che una delle sue frecce "… continuava a fiottare sangue come una ferita aperta" (pag. 162), un "… cappellano intinse la freccia indiavolata nell’acqua benedetta e, dopo sette abluzioni consecutive, il sangue si fermò." (pag. 163).
Lui farà pubblica ammenda del suo crimine, e le sue ormai infinite ferite, che sembravano inguaribili, guariscono, e gli uccelli smettono di attaccarlo.
Ma la vera magia, ovviamente, è quella dell’amore dei due sfortunati amanti, per la quale il pellegrino spagnolo, anche dopo morto, non ne vorrà sapere di starsene nella teca nella quale, per un’interpretazione fantasiosa del suo destino, era stato riposto, ma, ogni notte ne usciva, per mettersi in una postura dalla quale, più facilmente, avrebbe potuto vedere la sua sposa che tornava da lui.
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