Una contorta favola morale
di Giovanni Grazzini
Lo scrittore tedesco Michael Ende, autore nel '79 del romanzo Storia infinita, ebbe a definire pubblicamente idiota il film che ne fu tratto, colpevole di scimmiottare gli americani con gran scialo di trucchi. Avrebbe preferito che la fantasia si esprimesse senza mostri ed effetti elettronici. Sarà dunque contento di Momo, derivato a sua volta da un suo romanzo del '73 (da lui stesso sceneggiato col regista Johannes Schaaf, con Rosemarie Fendel e Marcello Coscia), nel quale i maghi degli effetti speciali hanno avuto poche occasioni di sbizzarrirsi. Peccato che ora tocchi a noi l'essere insoddisfatti. Perché Momo non ci sembra ben riuscito, né sappiamo comprendere a quale pubblico si rivolga. Temiamo che gli adulti lo considerino per ragazzi, e che i ragazzi, corrotti da Spielberg & C., facciano spallucce di fronte alla storia di una bimbetta, appunto vocata Momo, protagonista di un'impresa resa concettualmente tortuosa dagli autori del copione.
L'idea di partenza è che una banda di soprannaturali malvagi, i Grigi, vogliono rubare all'umanità il tempo libero per nutrirsene. Se tutti lavorassero senza un attimo dì requie, nessun momento sarebbe dedicato al gioco e all'amicizia: gli uomini sarebbero divorati dal mito della ricchezza e i Grigi potrebbero affermare il proprio predominio.
A differenza degli adulti, la piccola Momo, una trovatella ben amata perché a tutti dispensa sorrisi, non cade nella trappola dei Grigi. Lasciandosi guidare dalla tartaruga Cassiopea, che con messaggi luminosi sul guscio le consiglia di camminare a ritroso, percorre il Vicolo del Mai e raggiunge Mastro Hora, il Guardiano del Tempo. I Grigi la ricattano, per finalmente stanare il gran vecchio, ma questi ferma gli orologi e conferisce a Momo magici poteri. I Grigi vanno in fumo, e sul mondo torna a cadere una pioggia di petali rosa: le ore della bellezza, della letizia e della libertà ...
Non si sa bene da quale parte prendere Momo, prodotto insieme da Italia e Germania federale per ripetere il successo di Storia infinita col largo dispendio di capitali che chiedono i kolossal. Vuol essere un film d'avventura del genere "fantasy", inteso ad ammonirci sugli inganni d'un progresso che anteponendo la produttività a ogni altro valore sociale ci impedisce di tirare il fiato e di godere le gioie della vita, ma c'è un sovrappiù di contorto nella morale della favola. Vuole mischiare il fantastico e il realistico, introducendo gli elementi del quotidiano in un quadro di pura immaginazione, ma ne esce un ibrido in cui il bozzetto di genere (tutta la prima parte) contrasta con la sostanza fantascientifica.
Vuole conquistarci con la ricchezza dell'apparato decorativo, ma non ripara così ai danni di una sceneggiatura scombinata. Vuole dare a Momo i connotati della fatina buona, venuta dal passato a portare la pace (la bimba vive nella grotta di un anfiteatro in rovina), ma non chiarisce quali sono le sue virtù. Vuole contrapporre la perfidia dei Grigi alla pittoresca umanità dei vivi, ma riduce questi ultimi a macchiette. Riesce insomma difficile capire come Momo, che pure è animato dalle migliori intenzioni (non si può non convenire sui guasti provocati dalla fame di soldi), ed è firmato da un regista, Johannes Schaaf, del quale ammirammo l'esordio con Tatuaggio, possa offrire un'alternativa europea ai colossi americani, spesso tanto più volgari ma assai meglio costruiti.
Ciò che lo salva, e merita plauso, è tuttavia il nostro Danilo Donati, al quale si devono la scenografia, i costumi e l'arredamento. Dalla sua alleanza col fotografo Xaver Schwarzenberger il film ricava la grazia figurativa che potrà fame la fortuna.
Il sinistro universo dei Grigi, uomini calvi in grado di sopravvivere fin quando fumano il sigaro, tutti uguali nel truce sembiante, e quello luminoso, dominato dal bianco e dall'azzurro, percorso da Momo verso la casa del Tempo abitata da cento orologi, sono infatti descritti da Donati con invenzioni architettoniche e coloristiche di alta qualità. Benché manchino i nessi narrativi e stilistici con quello che vorrebbe essere il mondo della realtà, stilizzato a sua volta (ma con scivolate nel patetico e nel dialettale), l'impatto visivo è dunque garantito. E fra gli attori c'è chi fa del suo meglio: il vecchio John Huston, patriarca degli Evi, la piccola Radost Bokel, tedesca d'origine zingara, Leopoldo Trieste, Armin Müller-Stahal, Mario Adorf, Ninetto Davoli. Belle le musiche di Branduardi, generoso lo sforzo dei produttori, ai quali si deve augurare buona fortuna sui mercati internazionali.
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