Un ritorno al passato per la saga (e spunta anche il volto di Schwarzy)
di Paolo Mereghetti
Il fascino, anche a distanza di anni, del personaggio di Terminator, così come l'aveva inventato James Cameron, si può individuare sostanzialmente nell'ambiguità con cui ci raccontava dallo schermo la forza della tecnologia e l'idea del domani che attende l'umanità. L'imbattibilità annunciata dei cyborg che venivano catapultati dal futuro finiva infatti per essere messa in discussione da un contendente di «generazione» inferiore: un uomo nel primo episodio, un Terminator «vecchio modello» nel secondo. E l'incubo di un domani distrutto dall'insipienza umana (per colpa di un conflitto atomico) e dominato dalla crudeltà delle macchine finiva per lasciare spazio a un futuro di riscatto e di rinascita (il destino messianico di John Connor).
Sprecato sostanzialmente il terzo film della serie (Terminator 3: le macchine ribelli di Jonathan Mostow), il mito cerca ora la possibilità di una ripartenza affidandosi più che alla regia dell'impalpabile McG (all'anagrafe Joseph McGinty Nichol) a una sceneggiatura più calibrata di John Brancato e Michael Ferris e al lavoro combinato di direttore della fotografia (Shane Hurlbut), scenografo (Martin Laing), costumista (Michael Wilkinson) e naturalmente effetti speciali (Charles Gibson, più Industrial Light & Magic e Stan Winston Studio).
Invece che in un futuro molto prossimo all'oggi, come era successo per i primi due film, Terminator salvation è ambientato in un futuro lontano, nel 2018, quando ormai l'apocalisse è avvenuta, le macchine dominano il mondo (grazie al sistema di controllo Skynet) e l'umanità è ridotta a pochi coraggiosi ribelli che cercano di resistere alla caccia spietata di cyborg e robot. A guidare la resistenza c'è naturalmente John Connor, che in questo film prende il volto piuttosto convincente di Christian Bale.
Così, in un universo visivo che non si fa scrupoli a «rubare» suggestioni e idee al meglio della fantascienza precedente (il deserto come cimitero tecnologico alla Mad Max; Skynet immaginata come una «copia» dei panorami industriali di Blade Runner; i rifugi e gli hangar dei ribelli che sembrano venire dai primi episodi di Guerre stellari; le moto-robot che ricordano certe idee del disegnatore Syd Mead), in una ambientazione livida che predilige le scene notturne o comunque molto contrastate, l'idea su cui è costruito il film è quella di ribaltare il percorso cronologico - non più dal futuro al presente del film, ma dal passato all'oggi dell’azione - e di recuperare l'ambiguità di fondo del rapporto uomo-macchina.
L'altro protagonista del film, infatti, quello che forse può aiutare Connor a sconfiggere Skynet, è il detenuto Marcus Wright (Sam Worthington) che all'inizio del film vediamo mentre subisce una condanna a morte in un penitenziario e che poi ritroviamo nel futuribile 2018 costretto a combattere lo strapotere delle macchine. Di cui scopriremo poco a poco le qualità decisamente «sovrumane» che lo contraddistinguono. Così, senza togliere allo spettatore il piacere di scoprire le ragioni di tanta diversità, aggiungiamo che Marcus porta in sé le ambiguità che nei film di Cameron erano affidate a due personaggi distinti e che forse perché viene dal passato e non dal futuro ha molto più chiare le differenze tra bene e male, tra giusto e ingiusto.
Il resto è «normale» cinema digitale, con gran spreco di effetti speciali, esplosioni computerizzate e complicate macchine-robot, tali da giustificare un costo di produzione che si aggira sui 200 milioni di dollari e che vede nell'ultima mezz'ora l'ormai tradizionale scontro uomo-cyborg. Uno scontro che permette di recuperare in extremis anche il volto con cui la saga si era identificata, quello dell'(ex) attore e ora governatore della California Arnold Schwarzenegger. Uno dei cyborg con cui Connor e Wright dovranno combattere esce all'improvviso da una nuvola di vapore con il volto - ricostruito al computer - di Schwarzy. Il corpo no, è quello del bodybuilder Roland Kickinger, anche se gli esperti giurano che la struttura delle masse muscolari, che vengono mostrate senza abiti ma con qualche ombra sapientemente distribuita, ricordi molto quella del primo Schwarzenegger.
È una specie di omaggio dovuto, anche se poi alla fine risulta la cosa più debole (e superflua) di tutto il film: senza raggiungere la qualità dei due film di Cameron, questo quarto episodio riesce a reinventare piuttosto bene la saga dell'uomo alle prese con gli incubi creati dalla (propria) scienza. A cui l’apparizione di uno Schwarzy computerizzato aggiunge poco o niente.
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