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Avamposto


di Giuseppe Iannicelli


Il maggiore Stephen si preparava a difendersi dall’attacco quotidiano, che, sapeva, sarebbe stato tra circa otto minuti, ovvero alle diciassette in punto.

Da quanto tempo l’attacco si ripeteva? Ogni giorno, senza sosta, sempre, con una puntualità inumana.

Anni. Certamente più di tre anni, ma questa affermazione non aveva un valore preciso. Potevano essere anche dieci.

Avrebbe potuto saperlo: il tempo, lo sforzo di premere il tasto del calendario elettronico. Ma il nebuloso dubbio e la fastidiosa insicurezza erano forse meglio di un atroce certezza.

In conseguenza, quanti anni aveva lui, maggiore Stephen, matricola 32774150? Impossibile dirlo.

Certo con la morte del tenente Steafer, la situazione si era aggravata. L’avamposto era rimasto completamente alle sue dipendenze: ogni cosa, dalla difesa alla manutenzione, doveva essere fatta da lui stesso.

Povero Steafer. Morire per una scarica di corto circuito. Che morte stupida. Se pure ne esiste una che non lo sia.

L’attacco arrivò.

L'aereorazzo del nemico si avvicinò e iniziò a lanciare scariche di laser, e siluri nucleari tattici a portata strettamente limitata. Il maggiore, salendo da un sedile all'altro, azionava ora gli scudi settoriali, ora i cannoni antiaerei, ora i laser.

Da quanti anni durava la guerra? Quando lui era nato si combatteva già. Durava da tanto che quasi ne dimenticava le cause, e, anzi, queste non avevano nessuna influenza su di lui, che ormai combatteva solo per far finire la guerra stessa.

Lo avevano mandato all’avamposto, a quell'avamposto, e ora lì lui combatteva la sua guerra, per porle termine. E questo era tutto.

Non si poteva comunicare, a causa di un sistema di disturbo creato dal nemico per isolare le trasmissioni, il cibo era quello offerto dall'impianto di riciclaggio, come pure l'acqua e l'aria che si respirava. Il nemico attaccava alle 17.00. Ogni giorno.

L'energia si abbassò per un attimo: un siluro doveva essere caduto vicino all' alimentatore generale nucleare, sepolto da qualche parte, vicino all'avamposto.

Stephan pensò, una volta ancora, che un giorno l’attacco non ci sarebbe stato, e che al posto del solito aereorazzo nemico, sarebbe arrivato un mezzo aereomobile, o magari un convoglio a cuscino d'aria, con sopra soldati amici.

Con un colpo di laser centrò un siluro prima che questo colpisse l'avamposto.

I soldati amici sarebbero scesi, e avrebbero gridato che la guerra era finita, avrebbero gridato, anche se lui non poteva sentirli, da sotto; si sarebbero fatti riconoscere dal sistema elettronico di identificazione, perché le telecamere erano state fra i primi sistemi a cedere. Comunque fosse, lui avrebbe capito lo stesso.

Avrebbe indossato la tuta antiradiazioni, poi sarebbe uscito dopo aver aperto i pesantissimi portelloni che difendevano l'entrata della postazione. Sarebbe uscito e sarebbe tornato a casa.

Quando questo sarebbe successo, non lo sapeva.

L’attacco terminò alle 17.15, come di consueto, e il maggiore, con la tuta zuppa di sudore, si alzò dal seggiolino e uscì dalla camera di combattimento.

Non sapeva quando, ma quello che pensava sarebbe accaduto, prima o poi.

In attesa di quel giorno, continuava a combattere, sepolto nell’avamposto.


La folla si accalcava sulla vasta terrazza, mormorando, mentre la guida saliva su un palchetto, per farsi sentire meglio, e inizia a gridare:

- Signore e signori, quello è l’avamposto di cui tutti avete sentito parlare. -

Tacque, con un attimo di imbarazzo.

Il capitano Hatchet guardava la costruzione grigia, enorme, monolitica, che si stagliava all'orizzonte. Il sole stava tramontando, e colorava tutto di strani contrasti tra netta oscurità e tinte intense ma ormai morenti.

Tutta quella gente gli dava fastidio, e gli sembrava che, pur nel silenzio rispettoso, non comprendesse quanto stava accadendo.

- …  Ecco, vedete l’aereo robot che sta per effettuare l’attacco simulato … -

Hatchet rabbrividì, nel freddo invernale. Il robot solcò il cielo sibilando e si fermò ondeggiando poco avanti all'avamposto.

- … In questo momento il robot sta effettuando operazioni a carattere elettronico, per cui gli strumenti all'interno dell'avamposto rileveranno che è in corso un attacco. Allo stesso tempo, sempre dall’interno, sembrerà che le manovre difensive siano reali e che si spari davvero. Ogni tanto, con una media di due volte al mese, capita che il robot si schermi, rendendosi non rilevabile dagli strumenti stessi, nel bel mezzo del combattimento simulato, facendo apparire così una sua distruzione da parte delle difese. -

La gente taceva, guardando ad occhi spalancati il robot.

Hatchet tirò su il coletto della divisa, e l'immagine dell'uomo nell'avamposto gli apparve per un attimo, come un fantasma.

Quell'uomo credeva di combattere una guerra.

Era un soldato, come lui, in fondo.

Combatteva una guerra. Che era finita, finita e perduta. E di cui era incredibilmente, l'unico superstite della sua parte.

Avrebbero potuto dirglielo, avrebbero potuto andare a tirarlo fuori di lì. Ma cosa avrebbe significato, per lui, a quel punto?

Solo continuando a combattere avrebbe vissuto, sarebbe esistito, avrebbe sperato, avrebbe avuto una parte in quel mondo, perché fuori dall’avamposto non c'era più niente di lui.

Avrebbe continuato a vivere, fino a che un giorno, il robot avrebbe rilevato che non vi erano più segni di attività, laggiù, dentro l’avamposto.






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