La città dei sogni
di Paolo Raiteri
L’abisso insormontabile che certe convenzioni sociali hanno scavato tra gli istinti biologici e l'etica del comportamento, è certamente solo effetto di un miraggio, la rappresentazione di un luogo comune senza solida base, un condizionamento camuffato perfidamente da codice morale di cui non si può invocare neppure la qualità di verità primitiva per giustificarne l'esistenza. Eppure, non è questo condizionamento che regola l'esistenza degli uomini, senza che essi ne abbiano coscienza? Non è questo condizionamento che guida i loro passi con altrettanto rigore, altrettanta fatalità di quella esercitata dal giogo sul movimento ottuso dei buoi? E ancora, non è questo condizionamento che impedisce loro di appellarsi più spesso agli istinti di vita? Forse che le esigenze in apparenza primitive del nostro essere non sono manifestazioni differenti ma essenziali della stessa realtà? Tuttavia, in questa nostra società, la necessità di salvare la faccia, di conservare a tutti i costi un'immagine di decoro e di dignità è talmente imperiosa, talmente inibitoria da spingerci ad ignorare gli aspetti più riposti della nostra natura. E non certo perché si tratta di qualcosa di criminale. Si sa bene che tutta l'umanità è fatta di carne. Eppure…
C’è un vuoto, nelle nostre vite comuni, nella stessa società che ci ha formati, un vuoto che solo la natura è in grado di colmare.
E c'è una storia morbosamente disgustosa, nella mia memoria e nel passato della città - forse avrei dovuto scrivere "nel vostro futuro e nel resto del mondo" - che attende con impazienza d'essere narrata.
Però, mio Dio, è così difficile parlarne. Non so neanche da che parte cominciare. Dallo scoppio delle fogne, forse? No, no. Ancora prima. Dal sogno premonitore, allora? si, probabilmente. Un sogno premonitore, terrificante e ricorrente. Tutte le storie di questo tipo cominciano così: c'è sempre un sogno terrificante, all'inizio. Tutti siamo un po' mostri nell'inconscio, perciò ci sono leggi e religioni.
Mi svegliai di soprassalto. Tremavo tutto e avevo le labbra atteggiate ad una smorfia d'orrore. Al mio fianco, sentii che Claudia si muoveva e si metteva a sedere.
Evitai di guardarla. Non ero ancora persuaso di non dormire e incerto se tutto ciò che mi era attorno esisteva effettivamente nella realtà, o se non fosse piuttosto un prolungamento del mio disordinato sogno notturno che si sarebbe trasformato d'un tratto in una fanghiglia di escrementi acidi e puzzolenti. Presto, però, i miei sensi si rischiararono e ricevettero, più evidenti, le solite e addomesticate impressioni. L'arredamento della camera si materializzò lentamente davanti al mio campo di visione e la voce di Claudia proruppe lacerante attraverso gli strati d'incoscienza del sonno profondo.
- Vado in cucina. – disse lei, facendo per alzarsi, - Ti preparo qualcosa di caldo. –
La guardai esterrefatto. Poi, l'afferrai per un braccio, tirandola giù, sul letto. – No - dissi, abbracciandola convulsamente, - Adesso sto bene -
- Non vuoi un tranquillante tesoro? -
- No, davvero, mi sento a poste con te vicina. -
La stringevo così forte che lei ne doveva avere dolore, ma quel corpo caldo e sodo accanto al mio testimoniava quanto fosse bello esistere per il solo fatto di amare.
Mi sentivo uomo, realizzato completamente da quel corpo morbido tra le mie braccia. Dopo un poco, mi accorsi che albeggiava. La luce penetrava dalla finestra, una specie di carezza lievissima, liquida, che si allungava silenziosamente. Mi sciolsi dall’abbraccio e subito percepii lacerante lo strappo di quel contatto.
- Scusami - dissi, scostando le coperte e saltando giù dal letto.
- Hai fatto di nuovo quel sogno? - mi chiese Claudia.
- Si, certo. Di nuovo quel sogno. Non vorrei parlarne, ti spiace? –
Lei scosse la testa, pensosa. Sapeva che, dopo tutto, le era dovuto un chiarimento, ma cercava di assecondarmi. Mi voleva bene e, certamente, i particolari del mio stato d'animo la interessavano profondamente; tuttavia, dacché erano iniziati i sogni, aveva sempre evitato di affrontare direttamente l'argomento. Non quella volta, però.
- Senti tesoro – cominciò cercando di mantenere un tono di voce indifferente, - la mamma mi ha dato il nome di una persona. Un medico. –
- Ho già un appuntamento con Salus alle undici. - dissi io.
- Ascolta - riprese Claudia, sforzandosi di apparire calma e ragionevole, - il medico che ti dicevo è un esperto di psicoterapia della famiglia. Ci andremo tutti e due, capisci? Non sarai solo tu il paziente. Voglio dire, che forse non è nemmeno colpa tua. –
- A volte, penso che si tratti di una premonizione; altre volte, lo vedo come uno scherzo della mia fantasia. - Dissi io, con voce rotta, - Solo, che non riesco proprio a ridere. -
- Caro, promettimi che andremo a parlargli. Me lo devi promettere, capisci? - Mi resi conto che Claudia aveva perso un po' del suo abituale distacco e si stava rivolgendo a me con lo stesso tono di voce che usava i bambini quando fanno i capricci. Pensai che stesse diventando un po' isterica anche lei. - Allora me lo prometti? –
- Non ho bisogno di un altro medico. - Le dissi, cominciando a vestirmi, - è di te che ho più bisogno. -
- Ma come posso 'aiutarti! - Gridò, -non vedi in che stato sono anch'io? Non dormiamo più, non facciamo più l'amore Niente. Tutta questa storia ci sta rovinando, te ne rendi conto? –
- Non urlare, ti prego. - Dissi io, afferrandole la mano. Lei tentò di liberarsi dalla mia stretta, ma io mi sedetti accanto a lei e l'abbracciai.
- Ecco, sei riuscito a farmi piangere. - Disse lei, cominciando a singhiozzare.
- Abbracciami - la implorai, - devi solo abbracciarmi, nient'altro. Tienimi stretto. È solo così che mi puoi aiutare. - Claudia tremava, anche i denti le battevano. Il suo corpo era scosso da singhiozzi silenziosi. Aveva paura per me, e non sapeva che cosa fare. Io, invece, mi aggrappavo a quel momento per suggere qualcosa di concreto, di reale. Alla fine lei riuscì a districarsi e si voltò con un sospiro, scostandosi i lunghi capelli neri che le piovevano ai lati del viso. Il tremore che l'aveva scossa sembrava essere passato in lei. Ripresi a vestirmi. Capivo quanto le fosse impossibile continuare a sopportare quella situazione, però non potevo farci niente; avrei potuto andarmene per un po', ma l'idea di perderla, foss’anche per pochi giorni, bastava a gettarmi nel panico. Ero già pronto ad uscire, quando lei si voltò di nuovo dalla mia parte e indirizzò uno sguardo torbido al quadrante della sveglia sul mio comodino.
- Dove vuoi andare a quest'ora? - Chiese con un filo di voce - In ufficio. Ci vado a piedi. Penso che un po' d'ria mi farà bene. -
Claudia saltò su. - Senti, tesoro, non andare, Telefono io in ufficio, dirò che stai poco bene. Resta a casa oggi. -
- No, non posso - dissi io, - devo andare. –
Mi avviai alla porta. Lei mi seguì. Aprii la porta, poi mi voltai. Lei si alzò in punta di piedi e mi diede un bacio leggerissimo. Poi si scostò ed io uscii.
La città, nel primo mattino, ha sempre posseduto un fascino speciale per me. L'aria sembra più fresca, per un uomo allevato in città, abituato alle mefitiche zaffate di fumo delle fabbriche. E poi, si possono vedere le luci artificiali che si spengono e i muri in lastre di vetro che colgono il bagliore dei primi raggi del sole.
Ma quella mattina, non volevo vedere che il grigio, il misero che mi circondava - cemento e automobili - e cacciarmici dentro, non tanto come se vi fossi rassegnato, ma addirittura come se mi piacesse, perché ne traevo la conferma che la mia vita non poteva, non doveva essere diversa.
Perfino le vie che dovevo percorrere le sceglievo così, le più frenetiche e rumorose, anche se mi sarebbe stato facile passare per quelle con i viali e le belle aiuole.
Ma desideravo specchiarmi nell'espressione dei visi grigi e uguali dei passanti, respirare l'aria appestata dai gas di scarico, ascoltare le sirene delle fabbriche, e anche certi rumori propri delle vie caotiche e che nelle mie saltuarie passeggiate mattutine avevo sempre cercato di evitare: lo strombazzare dei clacsons, le frenate brusche delle automobili, la musica assordante dei juke-boxes nei bar affollati e fumosi. Tutto perché quei logorii e stridori esterni m'impedivano di dar troppa importanza al frastuono disgustosamente molle che rimaneva nel mio cervello molto tempo dopo che il sogno si era dileguato. Il mio ufficio si trovava in un modernissimo edificio di cinquanta piani. Nell’ascensore, mentre salivo, mi sentivo, come sempre, come una fetta di pan carré nella metà ascendente di una vecchia tostatrice rotante. Lasciai con sollievo le imbottiture di espanso al 34° piano, e mi sistemai dietro la mia scrivania, in fondo a una lunga fila di scrivanie identiche, salutando con garbo tutti i colleghi presenti. Ero sempre molto gentile con loro, ogni volta che facevo il sogno. Pensavo che il fatto di dare e ricevere calore umano mi avrebbe aiutato a liberarmi dal mio incubo.
Il lunedì mattina non c’è un granché da fare. La dattilografa dell’ufficio commerciale ci aveva portato allora le quietanze. Uno dei ragazzi scherzò gentilmente con lei, e quando fu uscita, essi enumerarono le sue grazie con pesanti apprezzamenti. Poi, qualcuno lesse sul giornale di due ragazze del FREE-LOVE che un agente aveva arrestate per via che amoreggiavano teneramente su una panchina dei giardini pubblici. Le vicende scabrose piacevano loro molto, si vedeva benissimo, ma ne parlavano sempre con un tono distaccato, come se il loro interesse fosse esclusivamente sociale. Da parte mia, invece, sentii subito di provare un senso d'istintiva simpatia per quelle due ragazze e senza darmi tempo a pensare osservai: - Penso che l'agente non avrebbe dovuto arrestarle. –
- E tu, che cosa avresti fatto? - Domando Vendrame. -
- Niente - Risposi.
- Niente, eh! Vorrei vedere se tua figlia fosse una lesbica. - Disse Utili, con acredine. Esposi, allora, la filosofia del movimento FREE-LOVE:
- Questi giovani, - cominciai, - desiderano solo l'onestà nei rapporti personali e sessuali. Pensano che ci sia stata troppa ipocrisia in passato e si scagliano contro le frustrazioni sociali e sessuali, convincendo o tentando di convincere la gente a pubblicizzare l'amore e le sue devianze contro il potere che tende, invece, a sublimare le richieste, le tendenze e i sentimenti più istintuali dell'individuo. –
Gli altri mi guardarono a bacca aperta, ma Bisio, che è colto, intervenne a questo punto: - I giovani crescono sempre con l'idea che tutto sia spazzatura, che il mondo cominci da loro. Disprezzano le vecchie generazioni che hanno accettato l'integrazione nel sistema, ma non sanno fare altro che scandalizzare la gente. Parlano di libertà sessuale, di un'organizzazione favorevole agli istinti di vita e che aiuti gli istinti di vita… Idiozie! Non hanno neppure una coscienza di classe… -
- Loro non si pongono problemi ideologici. Dicono che le ideologie sono parti integranti del sistema e auspicano una società futura in cui la gente sia libera di obbedire esclusivamente agli istinti. –
- Dio solo sa cosa accadrebbe della civiltà se facessimo le cose solo perché sono istintive. -
La conversazione terminò con queste parole, ma io non mi sentivo affatto tranquillo. Qualcosa mi diceva che c'era un significato in tutto quanto mi stava accadendo, qualcosa di profondamente viscerale che non riuscivo ad afferrare. Ripensai al sogno, rabbrividii e decisi di andare subito dal dottor Salus.
Da sei mesi a quella parte, ogni lunedì e venerdì continuavo a recarmi nel quartiere dai viali tranquilli dov’era lo studio del mio psichiatra. Ci andavo quasi sempre in autobus e scendevo un paio d'isolati prima dello studio medico per godermi un po' il paesaggio. Infatti, era una zona tutta diversa dal resto della città, sembrava quasi appartenere ad un altro mondo: signorile, verdeggiante, poco frequentata da veicoli nelle vie secondarie, abbastanza spaziosa nei grandi viali e controviali perché il traffico vi scorresse senza congestione né frastuono. Il marciapiede non seguiva più i muri di vetro o di cemento dei grattacieli, ma cancelli, e di lì, erano siepi, aiuole, vialetti di ghiaia, che circondavano edifici tra il palazzo e la villa, dalle architetture splendidamente ornate. Quel giorno avvertivo, però, un sentimento diverso, perché non trovavo più in quel paesaggio elementi che riuscissero a tranquillizzarmi come prima, e non riuscivo a decifrare quella sensazione. Non che credessi ciecamente al sogno, ma per uno che ha vissuto un incubo decine e decine di volte, ogni esperienza quotidiana viene ad assumere il carattere di una vera e propria premonizione.
Ero un po' spaventato, dunque, quando entrai nella sala d’attesa dello studio medico. Tanto più quando la ragazza dietro la scrivania mi dedicò quello sguardo di compassione che hanno per i pazienti tutte le segretarie di medici psichiatrici. Oltre a ciò, io mi trovavo in uno stato di grande agitazione, in conseguenza della notte d'incubo che avevo passato. Insomma, dovetti impietosire a tal punto quella bella figliola che m’introdusse nello studio del dottor Salus senza neppure consultare il registro degli appuntamenti. Non appena mi vide, Salus mi accolse, come al solito, con un'espansività esagerata. Mi fece stendere sul lettino di cuoio, prese una sedia e si sedette accanto a me.
- Allora, che cosa mi racconti? - Come se non lo avesse immaginato.
- Ho fatto di nuovo quel sogno, la scorsa notte - Dissi io.
- Il solito? -
- Peggio -
- In che senso? –
- Preferirei non dovertelo dire. -
Ci fu un momento di silenzio. Probabilmente, Salus stava scegliendo con cura le parole che aveva da dire. Ogni psichiatra è costituzionalmente dotato di un vocabolario che lo rende capace di affrontare le situazioni verbali più scabrose. Alla fine disse: - Mi hai già parlato della paura che provi per questa massa di escrementi che schizza fuori dalla tazza del tuo water e t'invade la casa, ma non mi hai mai spiegato la ragione della tua paura. –
. È tutto così incomprensibile. –
- Questo lo devi lasciare giudicare a me. –
Lo guardai: le sue mascelle quadrate, la fronte spaziosa, i capelli corti e ben acconciati, la dentatura perfetta. Tutto sommato, era un viso che ispirava fiducia, lo trovavo rassicurante.
- D’accordo, hai ragione. - Dissi, poi non aggiunsi altro.
- Allora? - Fece lui, invitandomi a proseguire.
- Il fatto è che il sogno mi appare ogni volta più reale. Si aggiunge sempre qualche nuovo elemento. - M'interruppi di nuovo, poi ripresi di colpo a parlare. - Adesso scappo in strada, e quella… quella… si, insomma, quella cosa m'insegue. E poi, i marciapiedi si aprono, io sto per venire inghiottito e, allora, mi sveglio di colpo. Però, per un po' di tempo, mi sembra ancora di percepire un lezzo gelido di putredine, di marcio, di… Come se, dopotutto, non si trattasse solo di un sogno. –
Mi girai, perché mi era sembrato di avvertire uno strano odore attorno al dottore. Forse era frutto della suggestione. O forse, in quel momento, ero davvero più sensibile agli odori che non il solito? Salus non parve notare il fatto che lo stessi annusando. Calmissimo, si accese una sigaretta aromatizzata. Poi, mi soffio il fumo aromatizzato in viso e disse: - Non dovresti allarmarti. –
- Non dovrei allarmarmi? E che cosa dovrei fare, secondo te? riderci su? -
Una macchia grande quanto un francobollo apparve sui calzoni, tra le gambe del dottore. Si fece più scura, più grande. Salus accavallò le gambe con noncuranza. Mi fissò e parlò con tono efficiente, distaccato.
- Vedi, è assolutamente normale che questo tuo mondo di sogno ti appaia sempre più concreto, perché esso non è altro che la proiezione onirica dei tuoi istinti primitivi. –
Annuii, pur non essendo ben sicuro d'aver capito.
- Ora, il tuo rifiuto inconscio a riconoscere questi istinti come manifestazioni decisamente primitive dell'uomo, alimenta la tua visione, arricchendola, così, di sempre nuovi particolari. Probabilmente, la prossima volta ti accadrà di sprofondare in quella… quella… ma si, mi hai capito. –
- Che cosa possiamo fare? - Chiesi, spaventato.
- Devi assolutamente rimuovere la tua convinzione e riconoscere che questo mondo è regolato da istinti primitivi, asociali, che non possono in nessun caso soddisfare i tuoi bisogni psichici di uomo moderno. –
- Vorrei tanto riuscirci. - dissi io, - Il guaio è che da quando faccio il sogno mi sento attratto da tutte quelle manifestazioni… primitive, diciamo. No, non proprio attratto, credo. Voglio dire, che non mi sembrano così riprovevoli. –
- Ma niente affatto. - Disse Salus, - è solo che all'origine del tuo sogno ci sono questi istinti, che una parte di te finisce irrimediabilmente per considerare ragionevoli e sufficienti. Le azioni di un uomo si basano sulle sue sensazioni, il suo comportamento si deve adeguare all’evoluzione del mondo. È pressoché suicida mantenere inalterato il comportamento nei confronti di un mondo che cambia. Ad esempio, come si potrebbe pretendere da un aborigeno della Nuova Zelanda - con le sue tradizioni, i suoi costumi - di vivere nell'ambito della nostra società? Quasi certamente ne sarebbe ucciso. -
- Ho capito. – dissi, - quell'aborigeno sarei io? -
- Non proprio. Vedi, tu sei perfettamente integrato nella società; hai un lavoro, una moglie, vivi dignitosamente. Ma, evidentemente, c’è una parte di te che lotta per riacquistare gli archetipi primitivi della razza umana. Hai detto che non ti senti di condannare nemmeno le più basse manifestazioni istintuali, no? Eppure, al tempo stesso, la tua educazione ti spinge a provare vergogna, panico, per questa tua tendenza. Probabilmente, abbandoneresti il tuo archetipo se riuscissi a convincerti intimamente che la società attuale è il prodotto della selezione e dell'evoluzione, del progresso. –
- Si proprio così. –
-Ma, renditene conto, non è facile. - disse Salus, - il benessere fruito all'interno del sistema è evidente se analizzato in rapporto ad una lunga sequenza di storia, ma non facilmente dimostrabile a qualcuno che ne ha disposto fin della nascita. –
Ci pensai un attimo, poi dissi: - Senti, dottore, io non sono come quei tizi del FREE-LOVE, vero? -
-No, certo. Tu sei ragionevole, razionale. La tua stessa paura di una manifestazione inconscia così indiretta come il sogno, dimostra che hai ancora una coscienza civile. –
- E allora aiutami. Convincimi, ipnotizzami. Fai quello che vuoi ma aiutami. –
- Non è la mia materia, veramente. - Disse Salus, - spiegazioni del genere richiederebbero un sociologo. –
- Ma si tratta solo di ribadire dei concetti. - Insistetti.
-D’accordo, ci proverò. - Il dottor Salus si concentrò per un istante, raccogliendo le idee. Poi disse: - Credo che la nostra sopravvivenza nel mondo dipenda dalla società, per cui dobbiamo accettare le sue leggi e le sue norme di comportamento. - Annuii.
- Dunque, noi sappiamo che lo scopo della società è quello di domare le tendenze distruttive mediante la regolamentazione, la deviazione del furore distruttivo sui nemici esterni all’ambito sociale, la fusione degli istinti e la sublimazione dell'individuo alle esigenze della cultura, in quanto l'istinto di aggressione degli uomini tenderebbe a disgregare la società stessa se i legami del sistema non la tenessero unita. Evidentemente, in questo modo, la società frena, in parte, nei propri membri lo sviluppo dell’io, ma sappiamo che le masse possono essere indotte a rinunciare ai loro istinti più bassi soltanto dall’autorità o da ciò che si chiama ideologia. -
Ci pensai un attimo, poi osservai: -Ma non è la repressione degli istinti che moltiplica il potenziale aggressivo e rende, così, inevitabili l'autorità e il dominio? -
Il dottore tossicchiò e disse: - Ti avevo detto che non sono un sociologo. Comunque, ritengo che sia accettato da tutti il fatto che la nostra realtà esige la repressione dei sentimenti. Gli uomini, ormai, dipendono da organizzazioni economiche e sociali… - Continuò a biascicare parole come se recitasse una poesia. Senza dubbio, quel discorso se l'era preparato da lungo tempo, ma io non mi sentivo affatto di condividere le sue opinioni. Anche se avrei dovuto farlo, per sentirmi normale. Ciò che diceva avrei potuto dirlo anch'io, ma non sarebbe stata la stessa cosa, perché da quando avevo cominciato a fare il sogno, più niente mi sembrava uguale a prima, tutto era diventato così incomprensibile, e alienante, e disumanizzato; la città e la gente che ci viveva, il mio lavoro, i contatti interpersonali, persino il mio rapporto con Claudia. Mi spaventava pensare che quello non fosse un mondo vero, ma solo un edificio di artifizi eretto da chissà chi. Infatti, se quel che affermava Salus era esatto, ciò significava che, per il resto della mia vita, avrei continuato a sognare quel sogno, a sudare e a rabbrividire nella notte, fina a perdere la ragione. E a un tratto, riscuotendomi dalle mie considerazioni, colsi la voce di Salus a mezzo di una frase: - … suo compito principale il ritenere queste manifestazioni sospette di asocialità, l'impedirne la realizzazione con le leggi e… -
Mi tappai mentalmente le orecchie, girai la testa sul lettino e lo guardai bene in viso. E per la prima volta, mi parve diverso. O meglio; alieno alla mia natura. Un duro colpo nella mia presunta qualità di animale sociale. Ero sconvolto fin nel profondo dell'anima. Negli ultimi sei mesi, c'erano state molte sedute durante le quali io lo avevo ascoltato, gli avevo parlato, e sapevo che non avevamo nulla in comune. E ora, lo sentivo così lontano semplicemente perché qualcosa aveva riportato alla luce del subconscio i miei istinti primordiali. Dunque, ero io che mi stavo trasformando? Quell'interrogativo era talmente allarmante che quando Salus mi pose una mano sulla spalla per richiamarmi, saltai su dal lettino come una molla. Mi rizzai a sedere e lo guardai.
- La visita è finita. - Annunciò lui. Si alzò in piedi e, allora, un lezzo tremendo mi investì. Gettai un’occhiata spaventata in giro per la stanza, poi abbassai lo sguardo e rabbrividii. Mi alzai di scatto e gli urlai: - Guardati tra i piedi, maiale! –
C'era qualcosa fra i suoi piedi e dei frammenti gli cadevano dai pantaloni. - E che cos'è? - Chiese sgomento.
- Stai--- stai defecando nei calzoni. - Gli dissi.
- Non è vero. - Rispose furibondo, - non… non sto defecando, non sento nulla. –
L’infermiera irruppe in quel momento nello studio. Era tutta impiastricciata di una fanghiglia verdognola e sembrava terrorizzata.
- Dottore, dottore! Nel gabinetto… c'è tutta quella… quella roba che esce fuori! Cosa succede? -
Salus non rispose. Lei guardò il mucchietto tra i suoi piedi senza dir nulla.
- Non so cosa sia - disse Salus con aria afflitta, - ma non c’è da preoccuparsi. –
Io non dissi niente. Mi sentivo stanco ed eccitato al tempo stesso. Sospettavo bene quello che stava per accadere, avendovi assistito tante volte in sogno. E anche Salus dovette sospettarlo.
Ero proprio in attesa di un segnale, quando la strada mi chiamo! Senza dir nulla, uscii dallo studio, feci i gradini due ella volta e attraversai di corsa il giardino. Arrivato alla cancellata mi fermai e rimasi in ascolto. Il richiamo veniva dalla strada, sotto la strada. Ciò voleva dire qualcosa: stavo diventando pazzo, o era questo uno dei segreti dell'esistenza? Mi ricordai che da quando facevo il sogno, avevo già creduto di sorprendere nelle cose inanimate una specie d’aria di complicità, come se sapessero. Era diretto a me quel richiamo? Sentii con disappunto che non avevo alcun mezzo per comprenderne il significato. Avevo già appreso sull'esistenza tutto quello che dovevo sapere. Tutti i miei diritti, e i doveri. E, tuttavia, qualcosa era là sotto, in attesa, sembrava una presenza. Era là, sotto la strada, una carne che palpitava e si schiudeva, una cosa ripugnante, tante esistenze mancate e ostinatamente represse, una sostanza scomoda e che tuttavia esisteva, con tutto il peso della sua abbondanza. Era viscida, meschina, fetida e imbarazzata di sé stessa. Quella coscienza sotterranea lottava per afferrarmi.
Non potevo più ignorarla né rifiutarla. Essa esisteva, era lì, sotto i miei piedi. Anzi, mio Dio, contro i miei piedi!
Ch'io la stessi sognando, quella fetida presenza? In realtà, non avevo avuto coscienza di un'esplosione. Ma, d’un tratto, era lì, la merda, sommergendo il giardino, zampillando verso il cielo dai crepacci apertisi lungo la strada. Si adagiava molle e silenziosa, impiastricciando tutto, densissima, una mostarda. Ed io c'ero dentro; io, con tutta la città. Avevo paura, ma soprattutto ero nauseato, trovavo che era una cosa così schifosa, così fuori posto, e l'odiavo quell'ignobile marmellata, pur sapendo che era parte di me. Quanta ce n'era! Mi arrivava già fino alla caviglia, continuava a sgorgare dei crepacci, dai tombini rigurgitanti, e anche nelle case, dalle tazze e dagli acquai, tutto riempiva col suo abbraccio gelatinoso e ne vedevo in quantità sempre più grande, ben oltre il giardino del dottor Salus, oltre i lindi villini metricamente allineati, oltre la zona verde, verso il cuore industriale della città. Era in tutti i posti che riuscivo a vedere e si allargava. Avrei dovuto saperlo, accadeva anche nel sogno, e ora, il sogno era diventato il mondo, il mondo nudo e crudo che si mostrava a un tratto, che veniva finalmente alla superficie dilagando nella città, che soffocava sotto quel grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove venissero tutti quegli escrementi, né come mai esisteva un mondo così putrido. Non aveva proprio senso chiederselo. Quel mondo, adesso, era presente dappertutto, sopra e sotto. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c'era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che mi spaventava, ora lo capivo: senza dubbio, non c’era alcuna ragione perché esistesse, quel fetore strisciante; ma non era possibile che non esistesse, finché esisteva l'uomo. Quella cosa non era venuta prima della vita, non era una memoria di razza, ma era l’esistenza stessa, un suo aspetto inalienabile; invisibile, ma latente. E adesso, prorompeva alla superficie. Pensai: - Dio mio, aiutaci. - E mi misi a correre per sbarazzarmi di quella porcheria appiccicosa e puzzolente. Ma nessun luogo, ormai, poteva offrirmi rifugio da quella marea putrescente. E ce n'era tanta, tonnellate e tonnellate di esistenze, indefinitamente. Continuava a scaturire dal profondo delle strade, attraverso tutta la nostra bella città.
Il seguito della vicenda è noto. Da oltre un anno cerchiamo di dare alla città il suo aspetto di una volta.
Squadre di spalatori lavorano incessantemente, giorno e notte. Ma come siamo lontani. Il paesaggio cittadino è irriconoscibile, ricoperto da un altissimo strato di una fanghiglia di muco acido impastato ad escrementi. E la deiezione terrestre seguita a fuoriuscire dal sottosuolo, e per le strade tutto è grasso e fetido da far venire la nausea.
E adesso, molta gente ha ribrezzo della città. Non sopporta più di vivere prigioniera della fanghiglia e degli odori.
Odori più pesanti dell’aria.
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