Sotterranei
di Gilberto Coletto
Le cinque; fuori era ancora buio. Alle cinque e mezza apparve la luce dell’alba, e i passeri come pazzi di gioia cinguettavano tutti insieme sui tetti e sugli alberi del grande parco dell'ospedale. Nel condominio cominciò il fischio modulato dei rubinetti di coloro che partivano per le lunghe vacanze d'agosto. Renzo si alzò ad abbassare completamente tutte le tapparelle dell’appartamento per restare finalmente ad oziare nell'oscurità assoluta: Già da tempo non sopportava più la sua immagine.
Evitava gli specchi, e, quando si radeva, cercava di non guardarsi negli occhi. Tante volte era stato tentato di prendere un rasoio e procurarsi uno sfregio sulla faccia per trovarsi mutato, diverso. Era stanco di coesistere con sé stesso, con quell'uomo meschino, insignificante, timoroso. La vita era così priva di prove di eroismo, o a lui apparivano talmente sofisticate, nascoste nelle pieghe dello svolgimento dell'esistenza quotidiana, che non sapeva riconoscerle. Nessun avvenimento che sapesse affrontare e fronteggiare e riportarlo alla chiarezza di un principio essenziale. Tutto era così vago, confuso, dubbio, che l'onore ed il coraggio restavano inespressi di fronte si mille dei minimi incidenti giornalieri. Si sentiva in balia di un caso indifferente, o, peggio, crudele. Ormai non si aspettava altro che una vita intera di mattine così squallide e scontate.
Il terzo giorno si decise a rispondere al telefono: era Paolo: - Renzo, dove ti eri cacciato! Stasera recita la compagnia di Steineri; veniamo a prenderti verso le otto. –
Acconsentì un po' irritato e un po' grato a questa irruzione nella sua solitudine.
Era un teatro nella zona dei Navigli. Una vecchia sala sbarrata ad ogni finestra, salvata dalla distruzione di una guerra passata, addossata contro altissimi muri ciechi, imbiancati a calce.
La recita era di un umorismo patetico e truce. Salvo due o tre gruppi di persone qua e là, le sedie in platea erano quasi tutte vuote. Paolo si piegò verso Renzo Grossi e, urtandolo. col gomito, lo avvertì:
-Adesso ci sarà l'intervento finale di Claudio Steineri. -
Sul palcoscenico l'attore si dirigeva verso il centro della scena con addosso panni che non definivano alcuna epoca.
- Il mio nome proprio è un anonimo. Non sono stato niente. Non so chi fossero i miei genitori. Forse mia madre aveva lunghe collane d'ambra d'altri tempi e vestiti bianchi che cadevano a toccare il collo dei piedi.
Nessuno, proprio nessuno; soltanto una nullità. Un parente secondario, alla lontana, che non si era mai incontrato, che nessuno ha mai invitato, a cui nessuno ha mai pensato se non con sentimento di stizzosa pena. Anche oggi sono qui di mia iniziativa. Starò qui in un angolo a vedere danzare le coppie.
Nessuno si è mai accorto di me. Io abito all'ultimo pianerottolo dove c'è più buio. Come un ragno che vive nell’oscurità di una stretta tubatura d'acqua. Le mie vacanze le ho passate in corridoi d’albergo… -
E così lo spettacolo finiva tra parole inquietanti, mentre i personaggi, distribuiti sul palco, abbandonavano la scena, sciamando impettiti e frettolosi; la loro contrarietà si mutava in indifferenza per il monologo che continuava, sommerso a poco a poco dai loro mormorii che sempre di più, assumevano l'enfasi di discussioni accese.
Applaudendo al chiudersi della tela stinta del sipario, Paolo e Teresa si alzarono per dirigersi verso il retroscena a complimentarsi con l'amico attore. Renzo, immerso ancora nel disorientamento in cui l'avevano condotto le ultime battute, si trovò d'un tratto solo nella sala scura; dai camerini giungevano fruscii e trapestii e attraverso la porta dell’ingresso rimasta aperta, i rumori degli ultimi tram che strisciavano via nella notte. Decise di riunirsi ai suoi amici. Dietro le quinte tutto era spoglio, sfatto, vecchio; larghe tele dipinte pendevano flosce come mostri smunti e tristi che cercassero di schermirsi; i costumi, che dalla sala apparivano così sfarzosi, dai colori smaglianti, erano appesi nei camerini sformati, sfilacciati, lisi.
Mentre Renzo esitava sui primi gradini di una scaletta ripida, non sapendo da quale parte dirigersi poiché tutti sembravano scomparsi, notò uno scarafaggio sul corrimano della ringhiera sulla quale aveva appoggiato la mano. Avanzava aggrappato con le zampine al bordo convesso del legno, saggiando l'aria con le antenne in movimento. Renzo tolse istintivamente la mano. Nello stesso istante l'insetto perse la presa e cadde. Col piede, Renzo, fu tentato di schiacciarlo, ma non considerò la ripugnanza un motivo sufficiente a giustificare quell’azione crudele, e desistette.
Attirato da un tenue chiarore e forse dai bisbigli che provenivano dal fondo di quella scala, provò a scendere.
Le rampe si susseguivano e Renzo notò che le pareti non erano più costruite in calcestruzzo, ma ricavate nella roccia e nell'argilla. Alla base di quei gradini si trovò in un’ampia galleria rischiarata da lampade elettriche, ma deboli e distanziate di molto, collegate tra loro da fili attorcigliati e allentati.
Da una porta senza uscio si irradiava una luce più intensa. Era il locale di un’osteria semi vuota, tranne due uomini taciturni che starano seduti ad un tavolino di pietra e una donna appoggiata al bancone pure di pietra grigia. Rideva aspramente e in silenzio: il silenzio dei sogni. La sua presenza fu 'avvertita senza attenzione. E i due al tavolo voltarono la testa riprendendo a fronteggiarsi muti.
Uscì di nuovo e s'incammino adagio e con una certa apprensione ma spinto dalla curiosità, nella grigia, morbida e fresca oscurità di quella galleria. Cercò di familiarizzare con l'ambiente sotterraneo che lo circondava. Strizzava gli occhi per cercare di vedere il più lontano che poteva verso il fondo interminabile.
Pensava con stupore che sotto Milano si potesse estendere quella rete di gallerie senza che nessuno, o quasi, sapesse. Aveva ormai superato vari incroci e quando decise di ritornare all’uscita, capì che solo un puro caso l'avrebbe condotto sulla strada giusta. Alle volte da altissime grate scorgeva l’azzurro della notte. Incrociò alcune persone che si muovevano lente, comprese in loro stesse, assenti, come invase dallo stesso buio nel quale si confondevano mentre si allontanavano. A loro non volle rivolgersi perché gli sembravano come lui smarrite.
Provò un altro corridoio finché si trovò a camminare rasente una parete oltre la quale sentiva scorrere l'acqua.
Un'apertura tonda immetteva sulle sponde di un canale maleodorante i cui flutti neri trasportavano ogni rifiuto e avanzo della vita. Tenendosi sullo stretto marciapiede della grande tubatura della fogna, Renzo seguì la corrente. Sentiva i passi di una corsa. Si fermò per cercare di capire se si allontanavano verso l’interno o si stessero avvicinando. Restò ad ascoltare quella cadenza secca, come schiaffi nell'acqua, scrutando il buio finché vicinissima gli apparve la faccia bianca che veniva verso di lui. Ansimava, priva di espressione. Ed era la fatica, l’ansia racchiusa in quella maschera rigida che lo spaventava. Si addossò al maro umido per lasciare passare l'uomo trafelato che andava chissà dove.
Bracci di gallerie sfociavano in un vasto campo dalla volta altissima contro la quale si addensavano vapori grigi a formare un cielo opaco ed opprimente. Renzo Grossi si avventurò in quel prato notturno disseminato di rovine dell'età classica. Uno strano vento che sapeva di muschio e di salmastro, convogliando dai sotterranei. si placava tra gli innumerevoli marmi rovesciati e semisepolti. Una erba grigia tentava di crescere dall'argilla, senza nessuna forza. C'erano fiori scuri bruno amaranto dai petali accartocciati a formare delle sfere ruvide che mandavano un vago odore di canfora.
Si trovò a camminare rasente le fondamenta massicce di un antico tempio, sulle quali era stata costruita, in epoca recente, la chiesa che si elevava in superficie. Sentì provenire dalla lontananza il coro di una funzione sacra, vibrante, fermo su una stessa nota, lugubre.
In uno slargo di un quadrivio c’era anche un teatro dalle cortine nere, le colonne luminescenti, i parapetti dei palchetti dipinti a intrecci floreali della moda veneziana. I passaggi tra le poltrone erano invasi da detriti.
Tutto era sfatto, cadente. Non c’era anima viva. Ma qualcuno, dalla buca dell'orchestra, mandava delle note di violino tese senza vibrazioni, tra lunghi angosciosi intervalli. Gli specchi calavano rugginosi sui pavimenti; da oltre il vetro sembrava trasparisse il freddo del vuoto.
Salì una scaletta, spinse una porta di ferro dai cardini saldati dalla ruggine, oltrepassò una cantina spaziosa ingombra di scaffali sfasciati e si trovò all’aperto sotto l’androne di un antico palazzo. Sorgeva livida l’alba di una giornata nuvolosa.
Quando fu a casa pensò a quella scoperta incredibile.
Si prese il volto tra le mani e subito le allontanò. Aveva avvertito il suo teschio, sotto la pelle.
Per qualche giorno cercò di sviare il richiamo che gli arrivava insistente dal mondo che aveva scoperto: buio, silenzioso, ma nello stesso tempo accogliente.
Decise infine di recarsi dalle parti di piazza Vetra e rintracciare quel portico per ritornare là sotto.
In fondo a quelle scale viscide si udiva indistinto (poteva essere il suono di un vento antico, imbrigliato in quei corridoi) il brusio del mondo superiore, incomprensibile, anche se uno, preso da nostalgia, avesse voluto ascoltare. Aleggiava una luce grigia, densa come arrivasse fino lì dagli sbocchi lontani nella pianura, o filtrasse dalle porte nere ricavate negli angoli dei portici di certe dimore signorili del centro: una luce da soffitta, tenue, polverosa, malata, che sta sempre per spegnersi.
E quasi ogni giorno, e sempre più a lungo si perdeva a vagare in quel mondo di diseredati, l'al di là di coloro che rifiutano il destino, degli aspiranti a suicidi mai avverati.
Poteva capitare di ritrovare cose che si erano perdute da anni: una donna trovò una vecchia spilla che si ricordò d'aver perso quando si trasferì in corso Lodi, dopo il suo matrimonio, un uomo trovò il suo vecchio cane.
Molte volte a Grossi pareva di riconoscere persone morte; che avrebbero almeno dovuto essere morte, dal tempo ormai che non aveva più saputo niente di loro. Un giorno scorse un tram abbandonato; la luce proveniva da una griglia altissima - dal fantasma di orientamento che gli era rimasto, doveva trovarsi sotto i vicoli dalle parti di Brera - una di quelle carrozze verdi di cui erano composti una volta i tram a più convogli. Seduto, incastrato in un sedile, c’era uno scheletro ancora vestito. Anche lo scheletro sembrava assorto e stanco, in un’attesa che si protraeva fino alla disgregazione. Renzo non parve spaventarsi. Se non fosse stato per quell’aria così carnevalesca, avrebbe potuto stare un po' con lui. E magari parlargli insieme.
Un giorno, seduto a uno dei tavolini di quella cantina semivuota vide il suo vecchio professore di tedesco.
La sua barba era grigia, lunga di parecchi giorni, lo sguardo era assorto oltre il bicchiere di vino che aveva, ancora pieno, davanti. Le sue grosse braccia dilatavano le maniche di un golf macchiato. Renzo Grossi gli chiese il permesso di sedersi vicino. L'uomo senza riconoscerlo fece un cenno d'assenso.
- … Come dietro la superficie illuminata di una foglia sapere un veleno tenue con cui dissetarsi a morsi. Ognuno di noi è una bara ambulante di un amore morto. C’era il figlio di un macellaio di via Garibaldi che ce l'aveva in faccia. Sotto la pelle della faccia abbarbicata alle ossa. E quando lo assaliva il dolore, e lo scuoteva da renderlo folle, lo legavano al letto e gli mettevano una fetta di carne fresca sulla guancia, la sinistra. E tu vedevi che in meno di un’ora la carne si asciugava, si assottigliava fino a restare un sottile cartone secco. La bestia gliela mangiava in un momento. E lui ricominciava a urlare perché la bestia riacquistava vigore e gli apriva le ossa. Finché la pelle della faccia si lacerò e rimase a. brandelli sulla carcassa del volto spaccato.
Ho anch'io due bestie gemelle nello stomaco. Sono come le bocche aperte di due pesci feroci. Se gli dai nutrimento ti divorano tra gli spasimi, come dei serpenti che ti rodono. Se non mangi deperisci con loro. Vivono la tua stessa vita. –
Renzo riuscì a staccarsi a fatica dall'incantesimo orrendo che contenevano quelle parole, e arretrò mentre gli occhi febbricitanti del professore lo segui vane fissandolo.
Quando riprese il lavoro, a Claudia, una sua collega carina, non sfuggi un certo suo cambiamento. - Ti si vedono gli occhi come si gatti - gli disse - cosa ti è successo? - Grossi rimase imbarazzato. Girò via la testa e uscì dall’ufficio.
Quella sera nella sua camera volle fare la prova. Spense la luce e si posò davanti allo specchio. Due punti gialli apparvero nel velluto del vetro. Si gettò sul letto. Sapeva che stava accadendo qualcosa.
"Vorrei essere solo una bestia stanca, libero di abbandonarmi a una posa rilassata qualunque, e fissare l'aria finché non viene il sonno.
Sento il mio pensiero seguire sempre più di malavoglia il mio corpo."
Entrò nei corridoi dello scantinato di uno stabilimento abbandonato, che si snodavano sotto la terra. I corridoi si diramavano in gallerie e in cunicoli. Grosse tubazioni dalle coibentazioni marce e sbrindellate correvano parallele lungo il muro, le une sulle altre. In vasti saloni innumerevoli pilastri di cemento erano da supporto ai pavimenti soprastanti. Sugli screpolati basamenti, pompe enormi erano diventate un cumulo di ruggine, come una pira dopo l'incendio. Rottami; lunghi recinti di rete squarciata, serbatoi arrugginiti ed ammaccati. Grossi si fermò sul bordo di una buca rotonda dentro la quale finiva un rivolo di liquido nero. Guardò le venature che l’olio denso disegnava nella schiuma.
In un luogo così tetro e desolato non veniva alla mente nessun pensiero, ne altro desiderio, come la mente di un cieco che brancola in un mondo senza ricordi.
Un resto di impalcatura franò in un angolo lontano, lentamente come la trattenessero fili di ragnatele. Cadde con un rumore sordo sollevando la coltre di polvere fine del suolo.
Si sentiva in pace in quell'abbandono, in quella miseria; e sempre più di frequente e più a lungo si fermava a trascorrervi il pomeriggio del sabato e della domenica.
Seduto in qualche angolo dove avesse una spira di luce fumosa da osservare, una tela stracciata che oscillava, gente appartata che fumava taciturna, il profilo di una carcassa dai lineamenti stranamente conosciuti.
Tre vecchi operai vestiti di tute sporche di unto giocavano silenziosamente a carte su tronconi di travi cadute.
Una volta successe che si addormentò e al risveglio si trovò la faccia attraversata da fili di ragnatela. Si pulì da quei fili fitti e resistenti come nylon. A notare la loro consistenza il ragno doveva essere grosso, ma era difficile capire dove si era fermato nei disegni che formava la penombra sull'asperità della parete.
Ritornava da quelle profondità, dove suonano i tubi dei metanodotti interrati, sempre più strano, più selvaggio, risaliva più stanco.
Ogni lunedì mattina appariva in ufficio con un aspetto sempre più terreo e spento. Sempre di più si isolava dai colleghi, taciturno; non partecipava ai loro assembramenti per paura che scoprissero qualcosa di strano in lui. Ogni gesto gli veniva, pesante, estraneo, insensato.
Era passato parecchio tempo dall'incontro con il suo professore di tedesco. Ne rintracciò l'abitazione: dalle lettere stipate nella cassetta della posta (avvisi pubblicitari, vendite per corrispondenza, bandi di concorsi letterari) dovevano essere molti giorni che non usciva di casa. Quando suonò, all'uscio non venne nessuno. Tra le inferriate di una finestrina che dava sul pianerottolo, cercò di guardare all'interno, ma immobili tende incerate coprivano il vetro. Lo trovò disteso nel letto; un cavalletto di ossa. La statura d’uomo che era stato si confondeva tra le coperte raggomitolate, rinsecchito, immerso nel fetore del suo vomito. Renzo si avvicinò e nel bianco-cenere del viso orribilmente deformato, in fondo a due nere orbite, risaltavano gli occhi spalancati da chissà quanti giorni, dalle pupille venate di rosso, infuocati.
- Sssst… la sento. La tengo d'occhio ogni istante. Tutti i suoi movimenti. Dagli ultimi morsi d'agonia. –
La voce che usciva bassa, ansimante, veniva coperta dalle grida dei bambini che giocavano di sotto, nella strada tranquilla. Per udire, Renzo dovette avvicinarsi molto alla bocca sanguinolenta, dalla cui cavità rigurgitava una bava filamentosa, dentro la quale palpitavano grumi vivi della bestia che tentavano di risalire, palpitando rabbiosi, quel rivolo di materia per rientrare nel corpo.
- Ha affondato i suoi duri tentacoli come radici per tutto il corpo. Li ho sentiti avanzare, distendersi, penetrare e indurirsi ad ogni ansito. Li ho sentiti succhiarmi il sangue, ossigenarsi del mio respiro, alimentarsi del mio cibo. Ogni volta che mangiavo lei si avventava a consumarmi le energie che acquistavo. Dacché non mangio più anche lei sta morendo. È come la fine del figlio del macellaio. Ecco ora si è chetata. Ho chiamato ma nessuno è venuto… È un essere intelligente. Ha lasciato integro il cuore, aggirandolo con i suoi tentacoli; ora sta arrivando al cervello; la sento frugare tra i miei ricordi… Per cibarsi di me senza farmi morire. Perché sa che allora sarà finita anche per lei. –
Emise dei singhiozzi strozzati da urla flebili.
- Toglietemi questi vermi che mi mangiano! –
Ebbe dei sussulti, perdendo sbocchi di sangue sieroso; non parlò più. Il corpo si allentò in una posa innaturale che non aveva più niente di simmetrico.
In Renzo non c'era alcuna traccia di disgusto: soltanto terrore. Sfogliò le pagine dell'elenco telefonico. Formò il numero di un’agenzia qualunque di pompe funebri.
Diede l'indirizzo della casa, poi se ne andò lasciando socchiusa la porta.
Prese per corridoi che scendevano in leggera pendenza sempre più sotto, verso piani di gallerie sempre più profondi e più angusti e freddi e mefitici, fino a sentirsi pervaso da una pace perversa che gli infondeva la coscienza di potersi smarrire in luoghi dove solo lui aveva la certezza di esistere senza nessuna rivalità o competizione con altri uomini coi quali, in superfice, era costretto a dividere i brandelli dell'affermazione, dell'amore, della gloria.
Ogni volta che riemergeva dal buio di quelle profondità lo prendeva il terrore che il cielo gli potesse crollare addosso e schiacciarlo. Tra quelle pareti di roccia si era sentito protetto… nascosto dallo sfacelo, dall'emarginazione, nella vicinanza esasperante e totale con l’unico sé stesso. "Occupo un posto di vita che nessuno mi contende."
L’ultima volta che Claudia lo incontrò (riferì poi in ufficio) era seduto su una panchina del parco del castello Sforzesco. Gli si avvicinò sorpresa con l’idea di domandargli spiegazioni per la sua assenza dall'ufficio.
Gli si era seduta vicino, un po' turbata dal suo aspetto, e gli aveva rivolto solo poche parole. L'uomo nel quale la ragazza credeva di aver riconosciuto Renzo Grossi si girò verso di lei e la guardò. Gli occhi arrossati gli si accesero con violenza progressiva. Spalancò la bocca e proruppe in una risata sfrenata, cupa, un singulto incontrollato come se provenisse dalle profondità fuori dal corpo, di un'anima vuota.
Gli operai che lavoravano a fianco degli escavatori, nella costruzione della linea "5" della metropolitana, al crollo dl un blocco di arenaria, videro per un attimo nella cavità portata alla luce qualcosa di orrendo: un essere indefinibile, sulla testa i capelli erano radi e vivi, carnosi come grossi e lunghi tentacoli atti a tastare, le, mani, che riparavano il volto, callose dalle unghie prominenti e dure da formare artigli. E qualcuno poi specificò come il mostro apparisse vecchio, "molto vecchio". E forse voleva dire stanco.
E niente c'era di umano negli urli che si ripercuotevano spegnendosi nei cunicoli sotto la terra.
[ Indietro ]
The Dark Side Copyright © di IntercoM Science Fiction Station - (12 letture) |