Amanti robot
di Nicoletta Vallorani
Amanti transistorizzate, la figura femminile nel cinema di s.f.
Ultima scena di "Forbidden Planet", un film piuttosto vecchio, ma sicuramente noto ai fans del cinema di fantascienza: l'eroe fugge dal pianeta che sta per esplodere, portando la donna da lui amata (chiaramente la figlia di un geniale uomo di scienza), ripromettendosi di sposarla e di risarcirla con una serena vita coniugale dell'affetto paterno perduto.
Facciano un salto di parecchi anni ed andiamo alla sequenza conclusiva di "Blade runner", il film più recente di Ridley Scott: anche qui c’è un eroe che ha concluso con successo la sua "quest" contro i malvagi, c'è una donna bellissima e ormai completamente sola ed una fuga di entrambi (in astronave, ovviamente) verso una ipotetica vita insieme.
Dunque, a parte l'indiscutibile perfezionamento dei mezzi tecnici adoperati in questa ultima pellicola, sembra che ben poco sia cambiato nel modo d'intendere e di articolare la figura femminile protagonista di storie di S.F. in ambito cinematografico. La donna, ancora sensuale, indifesa e remissiva, rimane il dono più desiderabile, il premio che l'eroe deve meritare rischiando la sua stessa vita. In termini concreti, da questo punto di vista, "Blade runner" non fa che riproporre i clichés di "Forbidden Planet": e in mezzo, tra l'uno e l'altro" film ci sono stati gli anni eroici del femminismo (americano e non), le lotte contro la discriminazione dei sessi, le marce e i sit-in per un più equo trattamento della donna nell' ambito delle diverse strutture sociali. Se ne deve concludere che tutto questo non è riuscito a modificare neanche un po' il ruolo tradizionalmente subalterno delle figure femminili nella fantascienza: il che è sostanzialmente vero se si considera il cinema come manifestazione macroscopica ed accessibile ad un pubblico molto ampio di quel prodotto finora relativamente poco roto che è costituito, appunto, dalle storie basate su ipotesi "futurologiche".
L'unico metodo che consenta di entrare più concretamente nel merito della questione consiste evidentemente in un'effettiva comparazione tra la tipologia classica dei personaggi di S.F. e l’interpretazione che ne dà Ridley Scott. Cominciamo dall'eroe: si tratta di un detective deluso dalla vita e accuratamente impegnato, all'inizio del film, a confondersi tra la folla di una metropoli babelica, situata in un ipotetico futuro iperindustrializzato. Coinvolto suo malgrado in una missione estremamente pericolosa, egli non si lascia sfuggire l'occasione per coprirsi di gloria. Il che è attribuibile solo in misura molto limitata alle circostanze fortuite in cui viene a trovarsi: voglio dire, il favore della sorte è un privilegio che spetta a chi, come lui, è dotato di forza, intelligenza, astuzia, intuito. È l'attuazione pratica di un fondamentale principio tipico della saggezza popolare, secondo cui "La fortuna aiuta gli audaci". Dunque, sembra che ci siano tutte le componenti di quella che J. Russ, autorevole esponente della New Wave fantascientifica ed agguerrita sostenitrice di una necessaria rivalutazione della donna in questo campo, aveva chiamato "He-man ethic": questa specie di decalogo del "perfetto eroe", esposto in un articolo intitolato: "The Image of Women in Science Fiction", prevedeva appunto che ogni protagonista maschile di narrativa di S.F. fosse dotato di una dose non comune di coraggio, di una onestà cristallina, di qualità intellettive di indubbio rilievo e di competenza indiscutibile in quasi ogni campo del sapere. Dimenticavo un particolare essenziale: l'eroe deve anche possedere un fascino irresistibile.
A questo livello, direi che non è per niente casuale la scelta di Harrison Ford come protagonista di "Blade runner": non bello, ma indubbiamente caratterizzato dall'attrattiva innegabile, e tipicamente americana, del "duro" che ha vissuto esperienze di ogni tipo e ne ha ricavato il diritto di essere collocato su un piedistallo. Niente di più simile all'Humphrey Bogart di Casablanca, che sicuramente ha conquistato molte più donne di qualsiasi stallone di Hollywood. Tra l'altro, persino la presentazione dei due personaggi è quasi identica: entrambi si stagliano su uno sfondo fumoso e sovraffollato, languidamente e pensierosamente appoggiati al bancone di un bar. Ma torniamo agli sviluppi tematici di "Blade runner": al mostro detective viene affidato il carpito di trovare ed eliminare alcuni automi di un modello perfezionatissimo (Nexus-6) che soro stati dotati di una sensibilità quasi umana e che si soro ribellati ai loro stessi costruttori. La difficoltà della missione consiste nel fatto che i replicanti (così vengono definiti questi robots) sono in realtà, a livello di forza fisica ed astuzia, molto superiori all'uomo.
Alla fine risultano persino commoventi nella loro ostinata protesta contro dei creatori non divini ma molto banalmente umani, che hanno voluto fermarli rendendoli mortali. Bellissimo e struggente è il discorso dell'ultimo sopravvissuto, il cui ultimo rantolo ha il sapore di una maledizione contro chi ha voluto arrogarsi il diritto di assegnargli un destino.
Al di là del sentimentalismo di facile presa sul pubblico che emerge in questa interpretazione del personaggio del "cattivo", il coinvolgimento emotivo deliberatamente provocato nello spettatore ha uno scopo ben preciso, che è quello di rendere alla fine più accettabile e persino eticamente lodevole la decisione di fuggire con una donna che altri non è (pensate un po'!) se non una replicante, persino più perfetta dei suoi fratelli in quanto a lei non è stato assegnato un limitato periodo di esistenza.
Dunque, veniamo al punto fondamentale: quali sono le caratteristiche della figura femminile che viene messa accanto all'eroe. È già di per sé qualificante il fatto che ella venga caratterizzata come automa; dunque, "creatura" dell'uomo in senso letterale, in quanto costruita secondo un criterio di conformità a moduli fisici e caratteriali standard, anche se portati al livello estremo della perfezione. Lo stato di subordinazione che ella manifesta diventa, di conseguenza, l'attuazione della necessaria gratitudine che ogni "essere vivente" deve provare nei confronti del suo creatore. È matematicamente escluso che ella possa pensare anche solo per un attimo di rifiutare l’amore-possesso del protagonista. Dunque la sua principale caratteristica è l'assoluta mancanza di un'autonomia decisionale: quello che avverrà di lei dipende esclusivamente da ciò che riterrà opportuno fare il suo amante-padrone.
Il fatto che la protagonista femminile sia un robot implica anche un'altra considerazione di un certo interesse: oltre a rafforzare il biblico "complesso del secondo posto" della donna nata da una costola d'Adamo, questo procedimento costruttivo accentua drammaticamente la differenza tra i sessi. Il femminile è l'alieno, l'altro da sé, l'androide che, per quanto verosimile, sarà sempre al di là della soglia dell'umano.
Nonostante questa penosa esclusione dal cerchio dell'umanità, sia essa maschile che femminile, la protagonista di "Blade runner" riassume in sé tutti gli elementi tipologici di una donna "normale": è molto bella (come si diceva), ha un notevole grado di classe, è sottomessa quanto basta e sembra possegga anche una sensibilità. Ha persino un crollo emotivo, con relativa crisi isterica, quando scopre di essere un androide: naturalmente, l'eroe interviene a farle recuperare la calma usando le proverbiali maniere forti. Come tutte le liti fra marito e moglie, anche questa finisce a letto: una soluzione indubbiamente niente affatto innovativa, ma accessibile, a livello di comprensione, anche alla casalinga più bieca.
E questo sia detto senza implicare alcun giudizio di valore sul livello culturale delle casalinghe: piuttosto in questo caso è in gioco un condizionamento sociale che finisce per servirsi di ogni mezzo; dall'educazione domestica al libro rosa e al cinema, allo scopo di svendere una determinata immagine di donna tagliata su misura per un'etica maschilista.
Sono discorsi vecchi. Quello che stupisce, semmai, è che idee di questo tipo facciano ancora cassetta, oltretutto appoggiate da quella parte di pubblico femminile che non ha ancora capito quanto sia umiliante uno stereotipo vecchio di secoli e che non riesce a impedirsi di provare uno struggente senso di pietà quando scopre che la protagonista di "Blade runner", come automa, è stata privata del privilegio di essere madre.
A questo puto entra in gioco il discorso spinoso del valore della maternità nella narrativa e nel cinema di fantascienza. Per molti versi, l'etica imperante è stata quella biblica, secondo cui l'atto di mettere al mondo un figlio assume le coordinate di una missione di cui deve beneficiare l'umanità nel suo complesso. Niente da dire sulla validità dell'esperienza in quanto tale, ma appare un po' discutibile l'uso di questa "predilezione biologica" "allo scopo di relegare la donna ad una cerchia esclusivamente domestica. Sta di fatto che il condizionamento educativo che normalmente subisce una donna sembra proprio finalizzato all'acquisizione di un ruolo di questo tipo. È probabilmente la difficoltà a recuperare un'autentica capacità decisionale che consenta di scegliere una maternità invece di subirla è ancora molto grossa, se l'immagine di una donna sterile suscita una così marcata reazione empatizzante da parte di chi ha la discutibile fortuna di non esserlo.
Forse per questo in "Blade runner", nel caso della protagonista, il discorso è lasciato in sospeso: come se lo spettatore, o meglio, la spettatrice potesse ipotizzare (e questi sono i vantaggi della science fiction) una specie di rigenerazione ecologica dell'umanità, del tipo di quella con cui si conclude "Zardoz", di Boorman.
Non è mia intenzione, sia ben chiaro, essere disfattista riguardo alla capacità della donna media (e lo siamo tutte, chi più chi meno) di acquisire coscienza di sé. Piuttosto ritengo che nel campo della fantascienza più che in altri essa non sia ancora riuscita a liberarsi della zavorra rappresentata dalla tradizione (anche se ormai sono parecchie le valide scrittrici che stanno cercando di farlo).
Così si spiega, a mio parere, il fatto che "Blade runner" non sia stato affatto sentito come un film problematico. E si spiega anche lo sproporzionato successo di una pellicola come " E. T." (di Spielberg), che è tutta una elegia della maternità. Non voglio essere troppo radicale e tagliare tutto con l’accetta: la tenerezza e la dolcezza sono una gran bella cosa, purché non si paghino con la delega delle proprie scelte.
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