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Autunno


di Marco Perello


Si fermò di fronte al fiume. Appoggiato al pomello della sella, guardò a lungo le acque calme e torbide, segno del temporale appena passato, che aveva riempito di melma il fondo.

L'uomo dai capelli color rame lunghissimi sentiva sul viso il residuo della fresca brezza: nel naso odore pungente di pioggia e foglie marce.

Sull'altra sponda una fila di alberi lunghi e sottili. Cercò con gli occhi a destra e a sinistra un punto qualsiasi per scendere dall'argine e attraversare il fiume, ma non vide nulla. C'era sfinimento nel corpo sottile del vagabondo; voleva riposo, pace, oblio.


Lenti di binocolo scrutavano il fiume. Immobile dietro un ceppo, la donna dai riccioli biondi bloccò lo sguardo verso il centro della sua visuale. Fermo sopra l'argine scosceso c'era un uomo a cavallo. Aveva lunghi capelli, il corpo esile coperto da uno strano vestito di pelle.

Lo vide spostarsi sulla destra, indeciso, e guardarsi attorno. Giada appoggiò il binocolo sull'erba, e sospirò profondamente all'aria fresca. Il vento e gli uccelli dicevano con voce chiara all'orecchio di chi ascoltava che l'autunno è quella venatura di giallo sulle foglie che forse all'inizio neppure si nota, e il primo rondone che fugge, l'orso che si rifugia negli incavi degli alberi secolari. L'autunno è il primo capello bianco, quando non hai più certezze: e quando ti domandi qualcosa a cui non sai rispondere, e accorgersi di aspettare la risposta senza aver mai fatto domande.

Accese il registratore.

"Non è la prima volta che arriva al fiume qualcuno: poi torna indietro perché questo pasto è tabù. Qualsiasi persona che capita qui sa benissimo che non può, e quindi non attraverserà. Tutti l'hanno avvertito, gli hanno spiegato, l'hanno persino minacciato. Magari arriva perché vuole sfidare sé stesso, o vedere se il posto è talmente terribile a vedersi. Qualunque sia il motivo, ritornano al loro lavoro, al villaggio. E non attraversano mai.

Oggi, nella tarda mattinata, è venuto lui. So che troverà il modo di passare, e lo aspetto."

Si alzò e raccolse le sue case. I rondoni gli sussurravano parole: una risposta ad una domanda che non aveva fatto.


IL sole era alto quando a Morgen sembrò di scorgere una contorta scaletta di terra battuta immersa nell'erba. Quella scaletta scendeva ripida fino al fiume, dove l'acqua aveva quasi perso il suo colore marroncino.

Sapeva benissimo perché sprecava sudore per attraversare. Il suo cuore non conosceva riposo, vittima di una maledizione antica.

Morgen scese da solo il pendio, facendo ben attenzione a non cascare. Arrivò ad un passo dall'acqua. Quello che accadde dopo, nonostante fosse abituato ai prodigi del suo bracciale di turchese, lo sconvolse nel profondo, come sempre.

Il bracciale. Lo prese: aveva la consistenza a lui ben nota, ed il freddo terribile che scaturiva al contatto con la mano era il solito. Decise di non prolungare oltre quella tortura, e con lo stomaco a pezzi gettò il fardello gelato nel fiume. A tutta prima non cambiò nulla, ma l'uomo sapeva.

Sempre più violentemente l'acqua cominciò a ribollire freneticamente, prima solo nel punto in cui era cascato il bracciale, poi per tutta la larghezza del letto fluviale.

Con un risucchio costante l'acqua si ritirò e rimase sospesa a formare un corridoio che giungeva all'altra sponda.

Il bracciale era sul fondo, brillante di gelo feroce. Morgen risalì la scaletta, aiutò il cavallo a scendere per poi avviarsi verso l'argine opposto. Ripido e proibito. Fermandosi a raccogliere il bracciale, l'uomo pensò a voce alla: "Azzurro! Che tu sia maledetto ancora una volta. Tu ti chiami Azzurro, ma rosso di sangue è il tuo passato. Spero di poterti rinnegare molto presto." Rimettendolo al polso, Azzurro perse tutto il gelo, e la lucentezza dei turchesi che aveva incastonati sembrò quasi sbiadire.


Al di là del fiume c'era disagio e pericolo. Appena gli zoccoli di Mahr toccarono il suolo della terra sconosciuta, Morgen sentì un presagio infilato nell'erba, strisciante sui tronchi degli alberi sottili che a migliaia popolavano il bosco che già l'uomo aveva veduto, prima di attraversare.

Sentì le rondini. Non voleva mangiare né riposare: era suo compito trovare la donna fatale. Lo desiderava quasi con disperazione, ora che aveva qualche certezza che il posto fosse quello.

Davanti a Morgen si apriva un largo sentiero, dove spilloni di luce foravano l'atmosfera innaturale. Cavallo e cavaliere si mossero: li accolse odore di muschio. Un piacevole odore che rincuorò l'errante per un attimo.

E se fosse davvero giunto alla meta?

Una sorda angoscia gli piombo addosso. Mille ricordi affioravano sul sentiero. Il terriccio semi-bagnato volava in aria.

Le rondini erano ancora su nel cielo, anche se lui non le vedeva. Mahr, il cavallo, annusava l'aria senza capire: un'aria pesante. Poi un fulmine colpì il terreno sotto gli zoccoli e Morgen venne sbattuto giù malamente, dolorante e stupito.


Aprì gli occhi, poi si scosse. Era sdraiato. Voltò la testa all'intorno per capire, poi si sedette: non era legato. Non un alito turbava quel silenzio, reso più cupo dal giorno ormai finito.

Non c'era luna in cielo.

Rimase, scosso e sovrappensiero, a tastare il terreno con le mani. Vide attorno a sé un pianoro brullo delimitato da alberi, tronchi fitti, in cerchio tutti alla medesima distanza e dovunque lui guardasse. E Morgen era il centro.

"Voltati" la voce della donna gli arrivò alle spalle e l'uomo si girò senza alzarsi. La vide per la prima volta e la riconobbe.

Non poteva essere che lei, la donna degli incubi di Morgen, quella che cercava, l'unica. La guardò intensamente, e non si conoscevano.

Eppure si dovevano per forza incontrare, prima o poi.


Giada dai riccioli biondi gli si sedette accanto. Lo guardava in viso con occhi brillanti, riflettendo su cosa dire a quell'uomo tanto strano. Aveva l'impressione che lui sapesse già cosa doveva accadere, e accettasse tutto con rassegnazione.

"Io so cosa ti turba. È per questo che sono qui. Da sempre aspetto te, e per me il "sempre" non ha significato perché per me i l tempo stesso non ha significato. Tu hai attraversato il fiume che nessuno attraversò mai: in questa terra dove io vivo da tempo immemorabile."

I due si guardarono: un'occhiata lunga secoli. Morgen non aveva nulla da dire; per la prima volta in vita sua un lungo tremito lo percorse, ma non si mosse. Giada ascoltava il rumore del mondo attorno. Continuò a parlare pacatamente.

"Io vengo da lontano, da un posto che tu non potresti mai raggiungere, provengo da una di quelle stelle che incollate alle notti più luminose ti hanno fatto compagnia tante volte. È un posto molto diverso. L'unico modo per arrivare qui, per la mia razza, è di sognare. Nel sogno noi cavalchiamo infiniti mondi fino a raggiungere il posto che desideriamo. Poi ne siamo legati fino a quando la nostra notte non trascorre; ma una nostra notte trascorre lentamente, anche secoli."

In quella, Giada fermò il flusso di parole che uscivano dalla bocca per consentire a Morgen di abituarsi alla follia del racconto.

L'uomo scosse violentemente la testa e puntò un dito. Negli occhi dimostrava eccitazione, curiosità, timore, ma non spavento. Gli davano risposte che non aveva mai veramente desiderato, per domande che si era posto per tutta la vita. Scopriva in un attimo che non avrebbe voluto sentire il resto. Ma parlò, e Giada lo lasciò fare.

"Tu non sei divina. E non è magia quella che porta la tua razza a vagare il cielo dilatando le leggi del tempo. Io so che in un tempo molto lontano gli uomini avevano potere assoluto sulle cose e parlavano col cielo, e non era magia. Io so, ho letto ... i libri, durante il mio peregrinare. So che voi eravate amici dell'uomo ma poi ... tutto venne distrutto."

Giada sorrise: "Questo molto prima che tu nascessi. Ora gli uomini procreano sulle macerie dei padri. Ma verranno giorni diversi. Tu ed io non ci saremo, però. Noi, incontrandoci, abbiamo percorso l'ultimo passo del nostro cammino. Se non comprendi, capirai in seguito." Come spinto da una furia, Morgen gridò. E all'eco di quello che diceva rispondevano i rondoni. E gli alberi fremevano.

"Una mutazione strana avvolse il mio essere, dalla nascita! Tutte le donne mi devono amare appena i miei occhi si posano su di loro! Che ironia essere salvato da te!" Si calmò, ansimava visibilmente. "Mi dissero di cercare la terra dove si diceva che abitasse una donna straniera, che non si sarebbe innamorata. Così la maledizione mi avrebbe abbandonato. Mio padre mi diede Azzurro, il bracciale che agisce al comando della mente e che per stoltezza usai alcune volte per fare del male. Mi diedero Mahr, il cavallo fedele che tu hai spaventato col fulmine del tuo bastone luccicante."

"Sono io la donna che cercavi." Giada si alzò.

"La tua ricerca è finita, il mio scopo terminato!" Lacrime sgorgarono dagli occhi di entrambi. La donna fuggì via, verso gli alberi. Morgen corse forsennatamente, col fiato nello stomaco, verso la boscaglia e ci si buttò dentro. Non c'erano sentieri di sorta: Morgen slaccio dal polso Azzurro, e lo gettò davanti a sé.

Un lampo devastante abbagliò per un attimo il cielo, e si sentì odore di bruciato. Poi, di fronte a Morgen si era formata una strada da cui s'intravedeva, al fondo, della luce. Con gran raccapriccio l'uomo cercò Azzurro e non lo trovò. Senza perdere altro tempo si inerpicò per la strada in salita, mentre la sua mente capì: Azzurro aveva compiuto l'ultimo miracolo. La maledizione era scomparsa. Corse fino alla cima e si bloccò. Sopra di lui il cielo era uguale a sempre. Ora davanti c'era uno strapiombo: sotto il fiume. Oltre la foschia uniforme.

Una folata di vento freddo lo raggiunse. Era davvero giunto l'Autunno. Rabbrividì. Non aveva più nulla, e d'ora in poi tutti avrebbero attraversato il fiume senza paura.

La maledizione era scomparsa; lui non possedeva nulla. Guardò il cielo, poi il fiume. Sospirò. Doveva convincersi che nulla era cambiato. Ora avrebbe potuto confondersi con la gente. Avere una vita e magari una casa. mentre piangeva, pensava che dopotutto era solo tornato l'autunno, forse per sempre.






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