Il compagno di paure (un testamento lovecraftiano)
di Gilberto Coletto
"Comunque, io credo che l'immaginazione umana non abbia inventato nulla che non sia vero, in questo mondo o negli altri ... "
da Aurelia di Gérard de Nerval
Seguendo René Daumal nella definizione: "Comme la magie, la póesie est noire ou blanche, selon qu'elle sert le sous-humain ou le sur-humain," possiamo del pari ritenere una letteratura nera e una letteratura bianca senza che una distinzione prevarichi l'una o l'altra.
Ci sono scritture, tipiche in Sade, Lautréamont, Kafka, Dostoevskij, Lovecraft, che sconfinano dalla pratica letteraria, dalla ordinaria letteratura. Esse non corrono sul tracciato delle precedenti culture o esperienze, ma procedono verso la soddisfazione della mente, non badando ai gusti e alle mode ma unicamente ad un irresistibile impulso a liberare incubi ricorrenti: derivano cioè da un più o meno consapevole delirio.
Il Lombroso, famoso antropologo criminale, a pag. 186 del libro "L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, giurisprudenza e alle discipline carcerarie" (1879) nomina con note di infamia letterati illustri: "Meno favorevolmente (che negli scienziati) si presenta la criminalità nei letterati ed artisti. In molti di questi le passioni, prevalendo assai più, perché entrarono fra i potenti fattori dell'estro, sono meno frenate dai criteri del vero e dalle severe deduzioni della logica che negli scienziati. E quindi dobbiamo annoverare fra i delinquenti Bonfadio, Rousseau, Aretino, Ceresa, Brunetto Latini, Franco e forse Foscolo e Byron".
L’arte deve essere molto prossima alla perversione per potervisi abbandonare con furente passione, e nell'eccesso raggiungere il capolavoro.
Assolve lo scrittore da questo verdetto cinico il drammaturgo Ibsen, con una osservazione riportata in "Spicilège" da Marcel Schwob, sensibile critico, medievalista e narratore di prose poetiche di candida ambiguità spirituale: "Vivere è combattere contro gli esseri fantastici che nascono nelle camere segrete del nostro cuore e del nostro cervello; essere poeta è mantenere giudizio su sé stessi."
Così la perversità di Ecornifleur, un personaggio di Jules Renard, non arriva a spingere i suoi fantasmi fino nella vita, ma nello stesso tempo non sa contenersi dal crearli nell'arte. La rabbia animalesca, l'intellettuale la placa nel descriverla in pensieri.
La paura è una delle emozioni più presenti nel regno animale. Come la crudeltà per Sade, essa sviluppa una tensione che invade la coscienza e rivolge su di essa una forma di masochismo spirituale.
Il messaggio che lascia uno scrittore non avrebbe significato se nel ritrarre la realtà non facesse risaltare di essa l'angoscia o la beffa.
Howard Philips Lovecraft cercava una porta sull'immortalità dello spirito, una fuga dall'evidente concettuale inalienabile della realtà per crearsi un universo vago ma infinito: e questo sbocco lo trovava nel terrore, nell'orrendo raffigurato e nello sconosciuto superiore. La paura è un brivido che sveglia la coscienza, la sublima; ma essa è più penetrante se accompagnata dall'angoscia. L'angoscia è un terrore molto più spirituale che ha già compiuto il suo avviluppamento a differenza della paura, che invece incombe al presente ed è evitabile.
La fine del Romanticismo spiritualità alimentata da credenze e fantasie medievali, segna il declino della figura del Satana della teologia cristiana responsabile e detentore del Male. Di questa estromissione, già evidente in Sade, è artefice il crescente scetticismo dell'uomo moderno, e saranno gli scrittori vittoriani a porre il loco vacante del Male unicamente nell'animo umano. Parlando di Lovecraft, lo scrittore e suo amico Fritz Leiber intuisce come egli abbia afferrato questo campo libero di orrore deviandolo nei suoi mostri cosmici o sotterranei.
Questa fioritura, in America, del genere letterario del mistero e dell'orrido rappresenta uno dei pochi aspetti che accomunano il Decadentismo europeo con quello d'oltre Atlantico.
In The hound abbiamo una spiegazione, benché artefatta dalle esigenze narrative, data dal protagonista-autore: "Stanchi dei luoghi comuni di un mondo prosaico, ove persistono le gioie delle romanticherie e delle avventure presso ammuffiscono, (...) avevamo seguito entusiasti ogni movimento estetico e intellettuale che prometteva sollievo dalla noia devastante. Gli enigmi dei simbolisti e le estasi dei Preraffaelliti furono tutti nostri a suo tempo, ma ogni nuovo stato d'animo perdette troppo presto la novità e il fascino del divertimento. Solo la tetra filosofia dei decadenti poté aiutarci, e quella la trovammo efficace solo aumentando gradualmente la profondità e la magia delle nostre penetrazioni. Baudelaire e Huysmans finirono per non darci più emozioni, finché da ultimo rimasero per noi solo i diretti stimoli di esperienze e avventure personali innaturali."
In The shadow out of time, dove l'onniscienza della Grande Razza sfiora la desolata crudeltà del Grande Inquisitore dostoevskiano, descrivendo la frenetica odissea del professor Peaslee in quel notturno terrore tra le rovine della ciclopica città sotterranea sconvolta dai cataclismi, e ancora abitata da un immane orrore, Lovecraft incasella una frase che all'improvviso ti adagia nell'atmosfera privata e rarefatta di gusto decadente: "Avrei trovato ancora la casa dell’insegnante di calligrafia?"
L'esistenza quotidiana nell'America alla fine della Grande Guerra aveva già l'aspetto, con cinquant’anni di anticipo rispetto all'Europa, della routine automatica che porta all'annullamento della coscienza e della capacità di riconoscersi muniti di libero arbitrio. La richiesta di qualcosa di forte da leggere che aiutasse ad evadere dalla piatta uniformità richiamava autori del genere nero, come Cornell Woolrich (1903-1968) o poliziesco come Dashiell Hammett (1894-1961) impegnandoli a sfornare emozioni insolite e scioccanti. L'argomento dell’orrore era il più immediato ma non tutti lo sapevano trattare o ne avevano la temerarietà o ne contenevano i germi angosciosi.
Insieme con Robert William Chambers (1865-1933), Clark Ashton Smith (1893-1961) e Robert Howard (1906-1936), Lovecraft dominerà nel campo del fantastico americano a cavallo degli anni ‘30. Benché non possieda l’infernale dono della poesia che incalza come per incanto dal candore e dalla crudeltà di C. A. Smith, Lovecraft è dotato di una intensa immedesimazione che trasmette al lettore invasandolo dei fantasmi della propria immaginazione con un magistrale impianto narrativo, anche se alle volte prolisso.
Lovecraft gettava tutta la sua qualità di poeta e le sue risorse di scrittore a supporto di una filosofia di scarso valore ma di sicuro effetto emozionale sia per lo scrittore che per il lettore. I suoi terrori sono più visionari, più elaborati e in certo modo più ingenui rispetto ai terrori che provengono da noi stessi o da leggende che hanno radici nella storia dell’uomo e della Terra dei racconti di Machen e di Blackwood.
La sua presa di coscienza letteraria fu precoce, ma aveva letto troppo per non capire che ciò che avrebbe scritto sarebbe stato superfluo. È difficile pensare a quante giornate di noia e di ozio Lovecraft (anche per aggirare quella constatazione) deve avere passato per arrivare all’esasperazione che lo porta all’esterno del reale, ai margini di follie cerebrali.
E diventare bestiali (cruda e insulsa materia) è una trasformazione lenta che avviene in noi giorno per giorno (quasi una preparazione al dissolvimento finale); chi vuole sfuggire a questo destino cerca di rifugiarsi in sé stesso, senza tuttavia trovare scampo se non in una diversa mostruosità.
Questo passaggio doloroso dalla realtà al soprannaturale sognato o illusorio lo troviamo descritto nell’attacco del racconto Aurelia di Gérard de Nerval: "Il Sogno è una seconda vita. Non ho potuto varcare le porte d’avorio o di corno che ci separano dal mondo invisibile senza rabbrividire. I primi istanti del sonno (questa parola noi possiamo sostituirla con fantasia o ispirazione) sono l’immagine della morte: un opaco terrore s’impossessa del nostro pensiero, né è possibile determinare l’istante preciso in cui l’Io, sotto altra forma, continua l’opera dell’esistenza. È come un tenebroso sotterraneo che a poco a poco si rischiara, e dove dall’ombra e dalla notte si liberano le pallide sembianze gravemente immobili che popolano la dimora del limbo.
Poi il quadro prende forma, un chiarore nuovo illumina e fa muovere quelle apparizioni bizzarre, si schiude per noi il mondo degli Spiriti.
Swedenborg chiamava queste visioni Memorabilia, e più spesso che al sonno le doveva alla fantasticheria. L’asino d'oro di Apuleio, la Divina commedia di Dante sono modelli poetici di simili studi sull’anima. Sul loro esempio cercherò di trascrivere le impressioni di una lunga malattia che si è integralmente svolta nei misteri del mio spirito; e proprio non so perché adopero questo termine "malattia", dal momento che, per quanto mi concerne, mai mi sono sentito bene come allora.
A volte, le mie forze e la mia attività mi sembravano raddoppiate; mi pareva di sapere tutto, capire tutto; e l'immaginazione mi arrecava delizie infinite ... "
Adramandoni è il titolo di una raccolta di sei poemi che Oscar Milosz, poeta delicato e ombroso fino alla rarefazione visionaria, annuncia in un passaggio dell'Epistola a Storge con queste parole:
"Nello stato attuale della nostra tenerezza, noi moltiplichiamo e suddividiamo all’infinito, e ci abbandoniamo al torrente furioso del ritmo, e niente ci soddisfa. Ma noi moriremo, Storge, ed entreremo in quello stato benedetto in cui moltiplicazione, divisione e ritmo eternamente insoddisfatti trovano il numero supremo assoluto, e il fine immutabile, perfetto di ogni poema. È il secondo amore, Storge, è l'Eliseo di Maestro Goethe, è l'Empireo del grande Alighieri, è l'Adramandoni del buon Swedenborg, è l'Esperia dello sventurato Hölderlin."
Lovecraft di fronte a questi nomi può sembrare una figura modesta, ma rappresenta un vate della nostra epoca, e la riverenza a cui siamo sollecitati non ci impedisce di includere in questo giardino del "secondo amore", come il gioco del Ciclo di Gondal delle sorelle Anne ed Emily Brontë, i Miti di Cthulhu, il mosaico narrativo più famoso della letteratura fantastica moderna. Perché l'uomo ha bisogno di una fede attendibile che travalichi ogni conoscenza che la possa smascherare.
Quando essa non c'è i miti possono sostituirla, o la poesia nel "buco nero" del suo ermetismo in espansione.
In The Thing on the door - step, il narratore si esprime così di Edward Pickman Derby:
"Era il ragazzo dalla fantasia più straordinaria che io abbia conosciuto: a sette anni, scriveva versi cupi, immaginosi, un tantino 'malsani', non estranei alla sua vezzeggiata segregazione, alla sua istruzione privata e particolare. Tutto questo aveva alimentato in lui una strana vita segreta in cui l’immaginazione costituiva l'unica strada alla libertà."
L'educazione e la maturazione priva di freni o impedimenti di Randolph Carter, che Lovecraft descrive in The silver key, può essere benissimo la sua: " … Coltivò deliberatamente l'illusione e si dilettò nello studio del bizzarro e dell'eccentrico come antidoto del convenzionale (…) addentrandosi nell'arcano della coscienza che pochi hanno esplorato. E ciò gli divenne motivo di turbamento, e questo più lo stimolava a dedicarvisi." O come racconta il protagonista di The tomb: "Come ho detto mi sono estraniato dal mondo esteriore; ma non ho detto che vi sia rimasto da solo. Forse nessuna creatura umana lo fa; in mancanza dell'amicizia dei vivi, l’uomo si attacca inevitabilmente alla compagnia di cose non vive, o che comunque non esistono più".
Ma la chiara coscienza di essere un estraneo, fuori dalla norma, Lovecraft non la accetta solo per sé ma la estende come caratteristica dell'umanità. Non esiste nessun appiglio esterno all'uomo, come la religione, la scienza, l'ordine militare che lo possa salvare dal suo naufragio di essere sperduto nel Tempo e nell'inesistenza. Egli trasferisce questa impotenza e solitudine in qualcosa di mostruoso che incarna l'ignoranza e l'incompletezza rispetto a esseri superiori (le creature di Lovecraft non hanno mai niente di divino).
C'è sempre qualcosa di penoso, di predestinato nei mostri dl Lovecraft (mostro: di cosa oscura e malformata), ed è ricorrente in lui questa paura di guardarsi, di riconoscersi in un essere spaventosamente infimo: " … era come se in quel momento l'individuo potesse guardare di fronte a sé il proprio corpo … " "Mi sentivo oppresso da un senso di insolita esiguità … Non facevo che guardarmi la figura, vagamente inquieto per la forma umana che possedevo".
"Per un poco la preoccupazione principale durante i sogni fu di evitare di guardarmi, e ricordo come fui grato per la mancanza totale di grandi specchi nelle misteriose stanze (…) Poi la morbosa tentazione di guardarmi si fece sempre maggiore, finché una notte non resistetti ... "
(The shadow out of time).
In Lovecraft non esiste alcun disegno globale superiore ma nei suoi scritti palesa la deformità del caso, una mescolanza di tempo e intelligenza di sconvolgimenti di mondi e razze di esistenze contemporanee in balìa di un caos cosmico sì intelligente ma la cui intelligenza non può che vomitare mostri e aberrazioni senza scopo.
Un estraniamento che raggiunge ormai l'alienazione letteraria ma anche rispecchia il progressivo regredire della coscienza dell'uomo moderno che non riconosce il suo agire e il suo scopo.
L'esclusione dal mondo degli adulti, emarginazione che Lovecraft patirà sempre, oltre che trasformarsi nei mostri sia come intima immagine che come oggetto di vendetta infantile con cui spaventare l'umanità, sfocia nell'altra idealità essenziale in Lovecraft: il rimpianto dell’infanzia con i suoi sogni, la sua spensieratezza che è fonte creativa di meraviglie, la volontà di ritornare nelle sue favolose altre dimensioni.
In quell'incredibile creazione narrativa The silver key, che è anche la sua più appassionata confessione, leggiamo: "La bellezza calma e durevole è propria solo dei sogni, e il mondo ha rinunziato a questo conforto quando nella sua adorazione del reale ha scartato i misteri dell'infanzia e dell'innocenza". E in conclusione di questo brano che è il più bello della sua prosa lirica: "Vi sono intrecci di tempo e di spazio, di visioni e di realtà che solo un sognatore può intuire; è per questo che so di Carter ritengo che egli abbia semplicemente trovato una strada per attraversare questi labirinti. Se tornerà mai indietro oppure no non sono in grado di dirlo. Egli voleva la terra dei sogni che aveva smarrito e si struggeva per i giorni della sua fanciullezza".
Ed è facile così capire come questa perdita del maestoso, dell’ignoto si allacci al malvagio, al pauroso della realtà. Si rifletta come nelle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie le assurdità infantili per un grande diventino, ad una rilettura fredda, ripugnanti perversioni. Un bambino si sente sicuro solo nelle paure che lui si è creato.
Da Celephais possiamo riportare, adattandolo all'autore: "Egli non si curò di come la gente attorno a lui si comportava, perché preferì sognare e scrivere dei suoi sogni (…) Più si ritraeva dal mondo circostante, più i suoi sogni si facevano meravigliosi, e sarebbe stato assai futile tentare di descriverli sulla carta." H. P. L. non era moderno né pensava alla maniera di altri scrittori. Mentre costoro si sforzavano di togliere alla vita le sue vesti ricamate di mito per mostrare nella cruda bruttezza quella immonda cosa che è la realtà, H.P.L. inseguì solo la bellezza.
Quando verità ed esperienza non riuscirono a rivelarla, egli la cercò nella fantasia e nelle illusioni, e la scoprì proprio sulle soglie di casa fra i confusi ricordi di favole e sogni dell'infanzia.
Non sono molte le persone che sanno quali meraviglie si dischiudono per loro nei racconti e nelle immagini della giovinezza. Quando da fanciulli ascoltiamo e sogniamo, noi formuliamo soltanto pensieri per metà incompleti, e quando da adulti tentiamo di ricordare, siamo ottusi e prosaici perché avvelenati dalla vita.
Tuttavia alcuni si destano di notte con strane visioni di colline e giardini incantati, di fontane che cantano al sole, di scogliere dorate che sovrastano mari tormentati, di pianure che si estendono fino a sonnolenti città di bronzo, di confuse compagnie di eroi che cavalcano bianchi cavalli bardati lungo bordi di fitte foreste. Comprendono allora di aver rivolto il loro sguardo indietro, oltre le porte d’avorio, in quel mondo di meraviglie che ci apparteneva prima che diventassimo seri e infelici."
C’è una certa condotta comune nell’attività letteraria di Edgar Allan Poe e di Lovecraft, e fu la necessità di scrivere spinti dal continuo assillo dell’estro inventivo ma soprattutto dal bisogno di sostentamento. Entrambi soffrirono di questo sfruttamento da parte degli editori al quale si sottoposero per ricevere una immediata anche se modesta retribuzione. Entrambi erano degli irregolari: ma in Poe l'irrequietezza e l'indisciplina erano manifestazioni dell'irruenza del genio, in Lovecraft, all'opposto, la sua solitudine, la sua riservatezza, la sua costanza mostravano la volontà del letterato dalla fantasia morbosa.
La sconvolgente forza poetica di Poe, la sua lucidità di analisi, le sue infallibili argomentazioni restano degli ideali a cui Lovecraft ha sempre guardato.
Il pensiero di Lovecraft spazia dalle ere più oscure prima della storia al futuro più deteriorato quasi al limite dell’energia cosmica; egli è un grande narratore di atmosfere e di ambienti, e, benché i suoi racconti non offrano allegorie (non hanno intenti morali), richiamano l’inquietudine dell’uomo creata dal contrasto tra la conoscenza e l‘istinto, dall’accoppiamento mostruoso che è il binomio spirito/corpo. Estraneità, sogni dell’infanzia e fantasia cosmica: questi i tre sviluppi letterari da cui sorge il terrore lovecraftiano e il suo espediente: l'ignoto, che non può essere che mostruoso e malvagio perché si tiene nascosto (sconosciuto).
Lovecraft annuncia più incisivamente e con più determinazione di ogni altro scrittore moderno l'aspetto di isolamento e di sogno della letteratura futura. Senza rinnegare le precedenti testimonianze letterarie, egli indica l'unica via di scampo dal trattato erudito o dal cronachismo e cioè la soglia aperta del fantastico. Saremo sempre meno capaci di accettare l'arte e sempre meno propensi a volere indulgere sui problemi minimi e sciatti del quotidiano.
A qualunque estremo arrivi la letteratura non è che un'inezia.
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