Vito Benicio Zingales e il Truccatore dei morti: intervista all’autore
Data: Mercoledì 11 marzo 2009
Argomento: Interviste


a cura di Iannozzi Giuseppe




1. Prima di parlare di “Il truccatore dei morti”, tuo secondo romanzo, vorrei che ti presentassi spiegando, se non proprio nel dettaglio, chi sei e come sei approdato al mondo delle lettere. In pratica: chi è Vito Benicio Zingales?

Un uomo semplice, ma inquieto, fatto di vita e di sogni che se non sono bambini parlano di miracoli di seconda mano. nella “tempesta delle lettere” mi hanno sbattuto, col tacito assenso di papà giornalista, Giacomo Giardina, Rosa Balistreri, Nino Muccioli e i maestri Cutino e Giambecchina, giganti della cultura siciliana e miei “zii d’infanzia”.

2. I tuoi precedenti romanzi sono stati “Là, oltre i campi di Sfaax” (2002) e “Cosa di Noi. I ragazzi di Sala Paradiso (2003)”: in merito a “Cosa di Noi”, a suo tempo ebbi modo di dire che “non è romanzo che metta in campo vinti o vincitori, eroi per caso o miti inventati, è piuttosto un sapiente coacervo di identità umane che fanno orgia negli abusati significati che si potrebbero attribuire ai concetti di ‘bene’ e ‘male’. Questi finiscono col perdere valore, perché i confini dei loro significati si intrecciano, si superano, si inghiottono nella loro stessa quiddità.” Il ritmo incalzante del romanzo, lo stile funambolico del linguaggio sospeso fra italiano e gergo di strada, mi conquistarono. Oggi con “Il Truccatore dei morti” rimango di nuovo conquistato. Com’è nato questo tuo nuovo lavoro, per quale impellente necessità umana letteraria sociale?

“Cosa di Noi” è uno scatto veloce, in bianco e nero, che cattura l’immagine perversamente vivida e a colori della “Cosa Nostra” a Palermo. Il truccatore nasce dall’essenza di un sospetto, forse dall’ipotesi da un mio multiplo che ormai da tempo, fra terre inesplorate, governa dinamiche ignote e tenacemente ambivalenti.

3. Il linguaggio adoprato in “Il truccatore dei morti” è molto poetico: difficile per me, ma credo per chiunque, definirlo a pieno titolo semplicemente un romanzo: mettiamo i puntini sulle “i”, è un romanzo ma è soprattutto, a mio avviso, una lunga prosa poetica dove la pazzia del protagonista viene tradotta in una miriade di frammenti. E in ognuno di essi c’è la vita le aspirazioni la rabbia la solitudine di un ragazzino che si scopre uomo, che capisce d’essere unico e per questo destinato alla solitudine più completa, nonché all’incomprensione.

Con la forma tutta tesa a legittimare l’essenzialità dei paradossi, tra frammenti di presunta follia, ho voluto minare il terreno su cui solitamente scorrono concetti come potenza ed onnipotenza, logica ed estetica. Ho voluto creare una sorta di itinerario del dubbio fra la fisicità delle parole e il trascendente dell’idea per cercare di spingere “l’occhio” del lettore aldilà di ciò che resta alla mera parvenza dei sensi. Il sentimento di rivalsa che prova Silvio Bambino si sovrappone al senso di colpa che il mondo prova dopo aver giustiziato il preferito tra i “fondamentali”: l’innocenza.

4. Silvio, Silviuccio, Pigliastrano: che rapporto ha con i suoi genitori?
E con i suoi compagni?

Come le narici di uno sciacallo sui resti del proprio padre: non l’artefice, ma l’individuo Alfa.

5. Silviuccio viene mostrato al lettore come una sorta di moderno freak: non si capisce mai se sia un idiota completo o l’espressione ultima del Male, della pazzia à la Charles Manson. Grazie al tuo linguaggio altamente poetico, Silvio ci viene mostrato tanto per le sue fragilità quanto per la sua crudeltà, per una crudeltà che ha in sé nuances lovecraftiane, ancestrali, cosmiche. E’ d’obbligo a questo punto da parte mia chiederti quali sono stati gli autori che ti hanno maggiormente influenzato e per quali motivi.

Non ci crederai, Turgenev, Lermontov, Bulgakov e “naturalmente” Dostoijevski mi hanno severamente formato. L’esistenza narrata da ciò che ha “sentito” la vita fra alchemici tragitti e poli opposti, ha indotto il mio sguardo a vibrare oltre la presunta soglia del male e al di là d’ogni accadimento perfettamente calibrato da quello che per opinione diffusa viene definito “bene”. Ho il convincimento che aldilà della “pendola a piombo” resti inesplorato un “pozzo parallelo”. Silvio, probabilmente, vive fra queste pareti emergendone quando sente d’essere tempo cosmico, mimetizzandosi in “quella” penombra quando sente di dover precedere il cosmo ed insieme le superiori dinamiche del tempo.

6. Leggendo “Il truccatore dei morti” non ho potuto fare a meno di pensare a “Il signore delle mosche” di William Golding. Forse sbagliando ma sono del parere che entrambi descriviate la fine dell’innocenza: il giovane Silvio, seppur vessato dai suoi coetanei, non ci appare mai come un innocente, o come un figlio di Dio. Silvio è un angelo caduto ed è felice della sua condizione, non intende riconquistare alcun paradiso perduto. Per Silvio Buonanotte l’importante è essere il Dio della sua armata di mosche. Che mi puoi dire a tal riguardo?

Silvio impara dalle “muscidae”, ma allo stesso tempo ne è l’artefice. Che sia convinto d’essere una divinità poco importa, l’essenziale per lui è vivere da Dio, lontano dal quel regno di ombre prive di affanno e di vita,lontano da tutto quel genere umano che per oblio indotto ha da tempo smarrito il senso del proprio evento. Per le mosche, Silvio è l’Augusto che vibra di vita a partire da quella che è insieme crasi deistica e rimedio all’angoscia del divenire: la morte…

7. Silvio, come in un sogno abbondante di allucinazioni, vive per vendicarsi di chi lo deride, di chi gli nega un po’ d’amore. Alla fine ricusa ogni gesto d’affetto, ma è lui a decidere che l’amore non è cosa che fa per lui e così riversa tutte le sue attenzioni sulle mosche. Che cosa rappresentano, nella cultura popolare e non, questi insetti appartenenti all’ordine dei Ditteri, sottordine Brachycera?
E: nel tuo romanzo, che valore hanno?

Più di quanto possano argomentare il più sapiente fra gli etologi e il più erudito fra gli etnologi, seccamente: loro, le mosche, sanno!

8. Dicendo un luogo comune, “Il truccatore dei morti” è un romanzo nero (un noir) esplicito che non fa concessioni al pietismo né a una pietas umana o cristiana. Quale profonda necessità ti ha spinto a usare un linguaggio esplicito, sempre poetico, sempre allucinato, un po’ à la Arthur Rimbaud?

La necessità è esplosa per “colpa” di un incubo. Addormentandomi con Nietzsche e la sua “genealogia della morale” fra le braccia della mente, chissà chi ha agitato “me” nel sonno, per riuscire forse ad afferrare la tesi più controversa ed universalmente più dibattuta, l’autoinganno della morte e l’inganno di ciò che la vita specula solo con i sensi. “Il truccatore” è da lì che giunge, da quelle ragioni spirituali oltre la metafisica del dubbio.

9. “Il truccatore dei morti” so che fa parte di un progetto più ampio. E’ così?

Il truccatore dei morti è la prima pare di una trilogia. “Glass City” e “Inservibili resti” sono rispettivamente la seconda e la parte conclusiva del viaggio. Ed è solo alle ultime battute che Silvio svelerà al lettore la sue vera identità. Si spera pubblicare gli “atti” successivi entro la primavera del prossimo anno.

10. Il tuo lavoro ha degli intenti pedagogici sociali politici?

Per carità, fra le pagine esalta soltanto la riflessione sull’idea imperfettamente elaborata della morte e ragionevolmente accettata del “voler vivere a tutti i costi”. Forse in dissolvenza tra narrato e cifre, è un verticale teleologico. Forse…

11. So che ci sono altri progetti in corso, a livello cinematografico anche. Puoi accennarcene, svelarci qualche particolare?

Dopo “Protocollo Narcon” e “Il rigattiere del cielo” (romanzi ancora inediti), “Nerodentrozero” è la mia ultima fatica inedita… e tanto per non smentirmi è anch’essa una trilogia. “Nerodentrozero” è storia di sbirri demoni e violenza, di notti nerissime, di “38” special, di mafia, puttane e cazzotti. Sia della prima parte, “Da mezzanotte a zero” che della seconda “sangue nero petrolio”, sono stati stesi trattamento, soggetto e sceneggiatura, a cui, divertendomi, ho collaborato. Se gira bene “Sangue nero petrolio” dovrebbe andare in “sala” entro quest’anno. Mi piace dirti che sulla mia strada il Karma ha messo tre talenti straordinari: Hella Wenders, Luca Lucchesi e Irma Vecchio. Per il Truccatore dei morti è di questi giorni il “Sì” di Armando Siciliano per la realizzazione di un “Book Trailer”, un Dvd da allegare al libro e da presentare in anteprima assoluta alla Fiera Internazionale del Libro di Torino. Il Book Trailer avrà il taglio filmico del cortometraggio e il libro potrà essere spogliato anche attraverso le immagini.

12. Promuovi liberamente “Il truccatore dei morti”. Invita il pubblico a leggerti. Spiegagli perché devono leggere Vito Benicio Zingales. Dì loro senza mezze misure cosa hai da offrire.

Perdendovi la lettura de “Il truccatore dei morti” non so cosa effettivamente potreste perdervi, ma (e scuserete la presunzione) so cosa ci guadagnerete nel leggerlo: la parte laconicamente amara, ma più vera di un sorriso…

Grazie infinite, caro Vito.
E’ stato un vero onore avere la possibilità di intervistarti.
Sono più che mai certo che “Il truccatore dei morti” non mancherà di entusiasmare quanti avranno il coraggio di guardare in faccia la nevrotica realtà in cui noi tutti ci troviamo immersi, volenti o nolenti.


Da “Il Truccatore dei morti”

Io non sono bravo con gli uomini vivi. All’obitorio trucco i “cadaveri morti”. A casa mia non parlavo ai miei “vegeti defunti”. Tra le strade al quartiere mi confondevo con entrambe le categorie.
L’unica cosa che possedevo erano il mio corpo, Dio colle mosche e la mia stanza.
Fingevo di guardarmi. Allungavo lo spazio fra tetto e pavimento ed in uno scarto di cielo, posto al centro di quella menzogna, mettevo il mio corpo.
E non mi parlavo. Quando mio padre esplorava mamma, io facevo finta di me. Non so quanto durasse la cosa. Né da quale Dio o altro fantastico convincimento venissi risucchiato. Mi dimenticavo di me.
Non ricordo in che giorno accadde il miracolo, ma da quando incominciai ad essere incline all’uso della vita, dopo aver dichiarato ufficialmente morto mio padre, presi a riconsiderare la vita stessa che, proprio da quel giorno, credevo abbondare più che mai nel mio corpo. Ne ripresi la vigoria e, incoraggiandomi, invitai Dio ad eseguire il Suo lavoro, se mai ne avesse avuto voglia, intorno le più “qualificate” spoglie di mio padre, ma lontano dal mio corpo.
Abito nella vita di questa casa da quarant’anni. Scendo e salgo 66 scalini al giorno. Do la luce alle sue rampe quattro volte al giorno. Penetro le sclerotiche serrature due volte al dì. La osservo sbiadire alle spalle una volta a notte. Per quarant’anni… escluso le domeniche. La strada su cui sorge l’edificio ha larghi marciapiedi, otto lampioni in un senso e sette nell’altro, una linea sbiadita sulla pece escoriata fra dondolanti mezzerie, sei contenitori in ferro tre per lato, una cabina ENEL sul lato est dell’unico crocevia, quattro tombini fognari e un sottile palo che alla fine della strada, per chi la percorre in direzione mare, indica STOP. La strada appartiene a tutti. Chi ne detiene il diritto assoluto, però sono i cani. Agli uomini è vietato defecare sul marciapiedi. Gli uomini, indifferentemente maschi e femmine, invece, sono autorizzati a farsi di “38”. Il lardoso assaggia il catrame col suo cane, lo storpio esce dal suo buco col bastone, la puttana smontante rientra a casa e lo sbirro montante schizza via con il revolver affibbiato alle palle.
Gli sbirri delle volanti, come sempre a quell’ora, fanno il giro del medesimo isolato, come se non avessero altro cazzo da fare. Dall’altra parte, invece, e alla solita ora, indisturbato mano lesta fotte prossimo ed autoradio, come se da tutti fosse invitato a farlo.
Lo spaccio di eroina e marijuana incomincia due ore dopo il buio. I lampioni illuminano la strada già nel tardo pomeriggio. La prima canna viene fumata dopo cena dal primo degli stronzi della banda all’angolo. La luna incomincia a rincoglionirsi non appena Dio sbraita che di quello scempio in strada non sarebbe lui l’artefice.
Dalla mattina a mezzanotte guardo il mondo colle orecchie. Abito questo mondo da lontano. Dal terzo piano. Conosco ciò che basta per sopravvivere. Mi piace sapere che ci sono. Il giornalaio, ad esempio, mi saluta. Ne è evidente la sua discreta indifferenza.
Talvolta, esagerando, comunica più parole.
“’ngiorno, Buonanotte. Come va?”
“Vado a piedi!”
Mi stupisce l’idea che ho di me…
Non ho colleghi. Non ho un capo settore. Io dipendo dalla morte. Il mio turno è di 24 ore. Non ho nemici morti, né amici vivi e neppure in punto di morte. Indosso sempre i guanti e guardo ancora il mondo con le orecchie. Mio padre è ancora là, due stanze dopo in fondo alle tenebre del corridoio. Il suo catarro abita sempre casa. Abitualmente si porta a spasso con corpo e pelurie al seguito. E’ morto già da tempo, ma nessuno tra le mie conoscenze è andato lì a riscuoterne il dovuto.
Io l’ho lasciato fare. Avevo altro a cui pensare.

Da GLASS CITY

La scatola spalanca verso nord. Confina con la camera dello storpio e degenera in una sconfinata raucedine d’ombra. E’ quadrata con un bel blu alle pareti. Una lampada sostenuta da un filo inerme, cade a piombo dal tetto grigio. Ad eccezione di una cella frigo, 400 litri, e di un recipiente in ferro e zinco, la scatola non contiene nulla. E’fredda ed illimitata. Qua e là erompe un brusio di vita ed un qualche scorzame di luce.
Io e Silvio ne condividiamo i segreti ed il tempo. Il pavimento è liscio, di marmo bianco carrara, con sparute bucce nere. Dilaga nella sua medesima prospettiva a fronte di una solitudine perfettamente insulare. Si legittima nell’azione infaticabile dell’ombra, con parsimonia. Non trasuda, né rilascia echi. Da vent’anni ne uso spazi e splendidi livori. A Silvio ne ho concesso il maggiore degli arbitrii. A quello non gli è concesso d’immaginarne neppure la forma.
La scatola gli è proibita.
Non si mischia alle passioni od alle circostanze della storia, non ha alcunché da raccontare, perché nel suo utero non si manifesta quell’incerta eternità. La sua natura vive quando è la morte a farle visita.
“Cosa fai qui tutto solo?”
Era come sospeso. Appeso ad un’invisibile verticale. Si mosse piano verso quella bolla di ferro come se avesse una qualche capacità di giudizio.
“Ne osservo il senso. Mi sfugge la natura. Chi la regola? E chi la domina? E del dominio, chi ne è il controllore? E’ figlia di una norma? E a quale precetto si uniforma? E i suoi vincoli? E a quali restrizioni e a quali sanzioni si assoggetta?
Ma soprattutto: io sono vivo?”
Non mi scomposi. La scelleratezza della vita, talvolta, impone una qualche severità di giudizio anche a costo d’apparire crudele. Il genere umano quando perde di vista uno di quegli orizzonti che ne affrancano le tempra per i sogni che contiene, risulta incline a misurarsi con la profondità delle proprie tracce. E tra la vita e la morte nasce quell’insanabile conflitto che genera, tra i più stupidi, la modestia della rivolta: non a caso si ha paura di morire.
“Ciò che vedi è, esiste e resta. Dalla circostanza nasce e si evolve la dottrina. La legge ne è una conseguenza. Ma cos’è dunque la legge? E’ il più solido dei rimpianti, perché, credimi, è questa ad aver indotto l’innocenza a misurarsi con la colpa. Chi ne controlla il dominio è la morte che nella legge si sostanzia. Le sanzioni come i vincoli, adulterandone la natura, ne recuperano soltanto l’origine. Ciò posto, figlio mio, ne discende che nel tuo obitorio la legge si dissolve già dal suo inizio: nella nostra scatola non v’è legge alcuna che possa alterarne l’intima sostanza.
Lei come te… è. Viva… come te, bambino mio.”
So che comprese perché si allontanò dalla bolla preferendo alla modestia del conflitto, l’illusione, anche se convulsa, della propria esistenza.
Me ne compiacqui. Ero sua madre.

Da Inservibili Resti

Dacché è partito ho preso il suo posto. La vita e gli affari di Lui. Dalle otto di sera lavoro per i morti. Restauro cadaveri. Da vent’anni riappiccico pezzi mortali. Ho a che fare con resti. Da lì, solitamente mi giungono uno alla volta… smembrati, edulcorati. Mi tocca assemblarli. Altrimenti risulterebbero inservibili. Perfino alla morte. Gli lenisco lo scempio e ne vivifico le parti avariate. Li cucio e ne pompo le pupille, li tonifico o li detergo a seconda dei livori. Li svuoto, ove si rendesse necessario. Ne riempio i visceri, all’occorrenza. Comunque la si volesse discutere, la mia materia gli risulterà sempre conveniente. Una passata di rimmel ed uno strato di cerone ne allontana tanfi e rinunce. Per la ricomposizione dell’istinto risultano sufficienti una foto recente ed alcune sommarie notizie prima del commiato. Il resto è affar mio. Tocca alle mie mani… e li faccio che sognano. Mi piace renderli… vivi. Li scarto e li riordino poggiandone delicatamente i pezzi sul piatto della lastra. Li lavo e li sciacquo depurandone i guasti. Quando m’arrivano, zampillano ancora… di rabbia e di tutte quelle cose che per una banale o maledetta circostanza non sono riusciti ad afferrare. E’ questa la parte che compete alle mie mani. La mia non è un’arte di poco conto. Dalle zero sette esercito lo Stato, alla sera sono più di Dio.
Non è stato difficile. Per certe cose basta organizzarsi. Lui ora è da me. Abitiamo nel medesimo segreto. Siamo la perfezione del doppio contenuta nell’alito di una morale unica. E ci bastiamo. Ulteriori faccende che non siano legate alle nostre semplici necessità non godono del nostro interesse. Dio e colpa e altre simili magre vicende sono solo annotazioni irrilevanti. A margine. Traiettorie poco probanti, paradigmi indiziari che sollecitano solo lusinghevoli, ma illusorie e manchevoli eternità.
Mi chiese di confessarne il motivo. E io gli risposi che era venuto il tempo del comando. La questione avrebbe dovuto sbrigarla solo uno. Uno dei due. Non ricordo se a quel tempo ne avesse colto la necessità. Ma la fede, talvolta, si propaga piano. Chiese se mi era concesso farlo. Si convinse che era più giusto di quanto non avesse mai ragionato, ma ciò che intese gli derivò forse dal terrore. Si procurò il convincimento per placare la sua antica indole e la furia di Dio. Volle che della cosa gli chiarissi le differenze. Ammise d’aver paura e che il fatto di dover rendere ciò che risultava necessario al nostro futuro compimento gli procurava quel certo sgomento. Della questione forse non ne capì a fondo la logica. Chiese se fosse possibile speculare altre vie alternative alla perfezione e semmai al mondo vi fosse certezza morale più grande di quel delitto. In ultimo chiese da chi gli venisse accordato il permesso di piangere.
Venni in mio possesso del mio perfetto inverso alla fine di quel terzo giorno. Ero me. Più del doppio. Più di quanta morale avrebbe potuto contenere la vita di un uomo giusto. Mia madre ebbe coscienza di me. Finalmente dritto. In piedi, sbilanciato verso il sole. Di lato alle manopole della carrozzina.
L’indomani sarebbe stato il suo primo giorno di lavoro, suo di Lui: di Silvio Buonanotte, Il truccatore dei Morti. Io… ormai, ero Me.
Io e Lui governiamo un regno. Siamo fratelli. Imprescindibili. Parti di un corpo e metà di un tutto.
Attraverso l’interzona non appena il buio comincia ad annerire l’accadere tra vicoli, comparse e passanti. Mi piace andare a piedi. Fare due passi prima che incontri la morte mi riempie di pace. Il tragitto è il sempre solito di sempre. Sono un tipo abitudinario io. Mi piace che le cose stiano sempre al loro posto. Non amo le novità. Talvolta recano svantaggi e poco igienici contrattempi. Sono uno preciso a cui piace fare le cose per bene. Scelgo da me il tiro, la logica e gli effetti che ne derivano. Le conseguenze mi piace addomesticarle anziché ferinamente subirle. La mia natura è complessa; semplice invece è il mio orientarmi tra le cose. Mi eccita tutto ciò che è miserabile; siffatta materia si lascia meglio argomentare dal ricatto. Mi piace convincere e non obbligare. Ci sono cose che s’intendono dopo la morte, ma se ci si ricrede solo dopo essere stesi e silenti non mi riguarda affatto. La pietà deriva da un fallo: la morte ne esalta il proprio apodittico fallimento. A chi resta compete la colpa, ma non il giudizio.
Una volta chiesi ad un abitante dell’interzona perché avesse così tanto desiderato la morte. Fu lesto a rispondermi. Di quello, ricordo, mi giunse prima il torso. Dopo 36 ore, impacchettati arrivarono gli altri resti.
“Non fa più male… sbaglio?”
Mi lasciò intendere che in morte può essere afferrato ciò che in vita può essere solo supposto. Cercai d’indovinarne il fallo. Ma quello disputò su bellezza e perfezione. Argomentò che non esiste forma più perfetta della morte e che gli accadimenti della vita mostrano meno di quanto non possa la morte con un solo atto. Ho creduto che volesse dirmi che nonostante la vita, l’idea della bellezza in ogni uomo svanisce non appena perisce quel tenue impulso che della bellezza ne è il fondamentale alimento: l’innocenza.
Lui voleva dire, invece, la bellezza della vita in quell’accadere che è prima dell’esistenza: nel virulento espellersi della nascita e nel perfetto accogliersi della morte. Non si può capire la vita inseguendone solo il riflesso. Commisurata al suo succedere è la morte che in quel processo si determina.
Ecco di cos’altro vive la morte.
Mi alzai, lasciando alla carrozzina la sua gelida coscienza. Abbandonai le emozioni del momento al primo rapido inseguirsi della brezza. Avvertivo la disfatta più di quell’alba illune. Andai alla balaustra. Cominciai ad osservare l’interzona. Sterminata e disseminata da fluorescenze pallide e da taglienti guglie di ruderi. Dal mio osservatorio il mare era ancora troppo lontano per percepirne il senso dell’acqua.
Tra noi era quel poco di fetida luce sgocciolante dalla lampada, ma la distanza che si opponeva era pari al doppio della potenza del fallimento vissuto. Sentivo di dover agire. Avrebbe potuto essere la colpa, invece venne dalla coscienza. Immaginavo il suo affanno. Era come se tendesse la vita e ne spalancasse lo sfintere dentro. Accadeva da piccoli quando la violenza del vecchio detonava sulla pelle di uno, ma per la collera che a quello causava l’altro. Identici… anche nel preferire il dolore all’orgoglio. Talvolta il terrore dilagava senza logica, ma a scatenarsi in noi non era la paura. Suppongo che fosse fede. Invece la vita avrebbe voluto schiantarci dentro il suo seme migliore. Così a generarsi non era conflitto. “Chi” mediava per noi sapeva ben temperare tra ragionevole disperazione ed eccepibile speranza.
Così alla fine l’uno venne attratto dalle debolezze dell’altro. Se la perfezione mostrava un certo interesse per la brutalità, l’immoralità della questione si legava alla coscienza dei due per attribuirgliene all’uno il peso della colpa e all’altro il senso predatorio del potere. Forse avrebbero dovuto dimostrare alla coscienza e alla brutalità insieme di essere solo casualmente parte di quella combinazione assurda. Eludersi a vicenda per la paura di immaginarsi mostri e legarsi morbosamente per celare alla coscienza il danno della colpa risultò… mortale.
Lui adesso era alle mie spalle. Sentii le molle della carrozzina afflosciarsi sul suo peso.
“Ci sono giorni… in cui mi sento sprofondare… Mi perdo tra le vertigini di un abisso senza fondo. Risalire verso la luce è la maggiore tra le incertezze. Mi cattura l’oblio… e l’ignoto afferra dalla mia pelle la mia identità. Fratello: Io ho paura. Cos’è che mi agisce? A quale vincolo soggiace la mia esistenza? E chi è il tiranno che regola il mio affanno? Ma soprattutto: di chi è la voce che “poi” mi tiene a galla”?
“Ascoltami: fratello mio, tu possiedi già la grazia. Devi soltanto avere fede: una si rammenterà dell’altra. Da lì riformulerà l’immensità!”.







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