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Il noir italiano 1


di Alfredo Ronci


Intendiamoci subito, questa rassegna non vuole assolutamente ripercorrere le tappe fondamentali del poliziesco italiano. Vuole invece gettare uno sguardo sull'ultima generazione di scrittori che più o meno consapevolmente ha costruito una geografia nazionale e ideale del noir, I più faziosi diranno che non si può discettare su un argomento se non si tengono nella dovuta considerazione le radici del fenomeno. Giusto, per non mancare di rispetto a questi e metterci l'anima in pace diciamo che: a) per gli anni '30-40 sono sufficienti le avventure del commissario De Vincenzi, della Squadra mobile della Questura di Milano, dovute alla penna di Augusto De Angelis, antifascista ucciso nel '44 dai fascisti.

B) Per gli anni '50 vale la pena citare Franco Enna, divenuto poi sceneggiatore di film, e soprattutto le parodie hard-boiled di Carlo Manzoni, scrittore a metà strada tra James Hadley Chase e Fred Buscaglione. C) Per gli anni '60 un nome solo, e anche doc, Giorgio Scerbanenco. La scelta è vasta e varia, e ultimamente la nostra editoria sembra essersi interessata di nuovo a lui. D) Assolutamente da non perdere gli anni '70 e '80 perché vedono la nascita di alcuni tra i più talentosi narratori noir italiani. Innanzi tutto la coppia luciferina Fruttero & Lucentini. Due titoli su tutto a testimonianza della loro immensa grandezza e della loro straordinaria capacità narrativa: La donna della Domenica e A che punto è la notte. E poi l'esordio di un'esperta nel campo, Laura Grimaldi, di cui vanno letti assolutamente II sospetto e La colpa, mentre tralascerei il terzo volume di questa trilogia della disperazione: La paura, troppo compresso nella sua struttura psicologica. Su tutti poi l'ombra protettiva del grande Leonardo Sciascia, un anticipatore assoluto del noir come denuncia politica.

Dunque siamo già agli anni '90. Ma è chiaro che non si può alzare uno steccato e dimenticare quello che gli sta dietro. Senza per questo riabilitare i faziosi, diciamo che l'esplosione del genere poliziesco in Italia (perché di questo si tratta) la si deve anche alla buona volontà di qualche beneintenzionato che negli anni '80 ha gettato le sementi per una futura crescita del genere.

Normalmente quando si vuole lanciare un movimento letterario ci si affida alle antologie.

Anche l'Italia, stranamente, ha adottato questo sistema, anche se con poca convinzione e spesso con pochi mezzi. La poca convinzione non deriva dalla pigrizia dei nostri editori, ma da un fenomeno che, a detta dei più, è unicamente italiano: il mercato nazionale recepisce la cultura poliziesca, ma si affida unicamente a quella straniera. Ci sono le solite eccezioni che confermano la regola: i romanzi di Fruttero e Lucentini e di Sciascia appunto e l'evento commerciale de Il nome della rosa. Poi? Il buio.

Un discorso questo che potrebbe allargarsi anche alla fantascienza. In Italia non esiste una letteratura fantascientifica perché:

1 - La matrice profondamente ideologica della cultura italiana ha relegato in un angolino un genere che per molti è da considerarsi di destra per via di una estrema banalizzazione che vuole l'immaginazione compagna del qualunquismo.

2 - Gli scrittori italiani di genere, spesso e volentieri, scimmiottano modelli importati.

3 - La matrice profondamente massificante della cultura italiana ha relegato in un angolino un genere che per molti è da considerarsi reazionario per via di una estrema banalizzazione che vuole l'evasione compagna dei fascismi.

Se è esistito un genere letterario per antonomasia reazionario questo è stato quello poliziesco. Cos'era quella smania giustizialista di consegnare i colpevoli di efferati delitti alle autorità se non il desiderio conscio e inconscio delle società borghesi di costruirsi un mondo come se fosse una bella faccia: via gli emarginati, che come le rughe, devastano la bellezza del quotidiano?

Per fortuna il noir contemporaneo ha preso altre strade, anche se lo sfrenato desiderio di consegnare i responsabili rimane sempre dietro l'angolo. Il noir contemporaneo abbandona i luoghi solitari, e spesso astratti, dei protagonisti - investigatori, per scendere in strada e osservare ciò che accade nelle metropoli invivibili.

Annosa questione: già negli anni quaranta Chandler aveva condannato il giallo di scuola inglese (Agatha Christie e C.) mettendo invece sull'altare della fiction più realista Dashell Hammett che ha tirato fuori il delitto dal vaso di cristallo e l'ha buttato in mezzo alla strada.

Dunque un pieno ribaltamento del genere che in Italia si è estrinsecato, lo abbiamo detto in precedenza, anche attraverso le pubblicazioni di antologie ad hoc.


Le antologie

Ha cominciato, e non poteva essere diversamente, la Mondadori: nel 1990 pubblica Nero italiano. 27 racconti metropolitani. Il titolo non potrebbe essere più eloquente: la connotazione noir prende decisamente il sopravvento su quella abusata e demodé di giallo, legato quasi da un vincolo sanguigno alla risoluzione di un meccanismo a sorpresa. Definendo poi i racconti metropolitani si accentua una tendenza che all'estero aveva dato già ampiamente i suoi frutti e che rappresenta l'unico sbocco possibile per una letteratura che vuole essere on the road, perché solo le strade delle metropoli esprimono con forza e partecipazione gli scenari di violenza e emarginazione a cui siamo sottoposti quotidianamente.

Il parco-scrittori dell'antologia è ben omogeneo: si va dagli autori già affermati come Pino Cacucci (che, oltretutto, aveva esordito con una raccolta di racconti Outland rock sapientemente sopravvalutata) e Marco Bacci, a personaggi indissolubilmente legati all'ambiente come Laura Grimaldi e Marco Tropea (fondatori di InternoGiallo), a giovani in crescente maturità espressiva come Carlo Lucarelli, Giancarlo De Cataldo e Gaetano Cappelli, a esordienti messi lì per riempire un po' di spazio (ad eccezione del nostro Fabio Lombardi che con Giudice sulla strada presenta uno dei racconti più riusciti dell'intera operazione).

Il risultato non è esaltante, ma per la prima volta, dopo anni di stasi, si avvia un processo che per fortuna ora, ai giorni nostri, naviga con sicurezza verso lidi decisamente più maturi.

Processo a cui ha dato una spinta non indifferente la città di Bologna con la creazione del Gruppo 13. Cos'è in realtà questo gruppo? Una manciata di scrittori ed amici che, senza pretendere d'individuare tematiche precise e senza volere assolutamente sancire la nascita di una scuola narrativa (l), tenta di esaudire le proprie aspirazioni in ambito letterario, e più specificatamente, in ambiente noir.

Un gruppo, anche questo composito con alcuni nomi già affermati (sempre Cacucci, oltre al vecchio Loriano Machiavelli, l'inventore del commissario Sarti), nomi in via di definizione come Fois (di cui parleremo più dettagliatamente in avanti), Lorenzo Marzaduri (idem come prima) e una furbastra delle ultime generazioni come Daniela Comastri Montanari (vincitrice del premio Tedeschi nel 1990), che nel 1991 dà alle stampe, grazie all'interessamento della casa editrice Metrolibri (diventata poi Granata Press e ultimamente Granata libri) l'antologia I delitti del Gruppo 13.

L'ingegno italico poi produce altro. Grazie alla fervente attività di un letterato-saggista come Fabio Giovannini, nasce a Roma il Gruppo Neo noir. Gruppo, quest'altro, che "vista l'esistenza, misconosciuta ma vitalissima, di una sterminata produzione letteraria "sommersa", incapace per scelta e per necessita di arrivare al contatto con il pubblico tramite canali tradizionali dell'editoria, e vista la sclerosi totale di questi stessi "canali" la cui incapacità di cogliere il nuovo va di pari passo al processo di concentrazione dei capitali dell'industria culturale" (2) decide di dar via ad una Banca degli inediti, su base informatica, che, raccogliendo testi di genere, offre l'opportunità a chiunque (Piccolo editore, lettore, fanzine ecc.) di poterne usufruire.

Questa Banca degli inediti ha già prodotto dei risultati: tre antologie. La prima, del 1994, Neo noir, 16 storie e un sogno, a cura di Il Minotauro - Milano; la seconda Giorni violenti, racconti e visioni neo noir a cura di Data News, 1995; l'ultima, in ordine di tempo, Neo noir, deliziosi raccontini col Morto a cura di Stampa Alternativa, 1995.

Ma quel neo che in qualche modo marchia e contraddistingue il movimento (che movimento non vuol essere) in che cosa consiste? Ce lo dice lo stesso ideatore, Fabio Giovannini: "1) Innanzitutto, per le narrazioni neo-noir l'assassino è la figura centrale. In questo, uno dei riferimenti principali può essere individuato in alcuni aspetti del cinema di Dario Argento. Il neo-noir guarda il mondo "dal punto di vista di Caino". 2) Il neo-noir "riscrive" i generi: il giallo, il noir, la spy story, l'horror e in fine il cyber. E usa per questo fine un approccio multimediale, che intreccia letteratura, cinema, fumetto, ipertestualità, ecc. 3) Il neo-noir si installa nella sovrapposizione tra cronaca nera e immaginario. Il punto di partenza, quindi, è nel reale, ma per oltrepassarlo con le armi della fantasia: si tratta di un'interzona transrealista. 4) Il neo-noir privilegia le situazioni estreme, ma sapendo che queste possono presentarsi anche nella normalità quotidiana dei rapporti interpersonali segnati dalla violenza.

Non è mai rassicurante, e perciò rifugge dal "perbenismo" che certi giallisti di successo perorano."

È chiaro che il movimenta di Giovannini ha individuato, nella realizzazione del progetto, punti di indiscutibile fascinazione: fuga dall’aggregazionismo borghese che porta al perbenismo, sovrapposizione tra cronaca nera e immaginario (sembra di ascoltare Giuseppe Lippi che, arrancando disperatamente alla ricerca di un fantastico all'italiana, spera di incappare in storie sobrie e realistiche, in cui il fantastico arrivasse DOPO, come una sorpresa e un'esplosione, quasi a tradimento) necessaria lavoro perché si possa poi distinguere la letteratura dalla piatta aprofessionalità della carta stampata, esaltazione dell'estremismo inteso soprattutto come rivalutazione del mondo sommerso ed emarginato.

Gli intendimenti sono buoni ma c'è il rischio (e le tre antologie confermano i nostri turbamenti) che il neo noir cammini sospeso su di un filo immaginario dove da una parte sopravvivono ancora le devianze nere alla Freaks (ricordate il film di Tod Brawning?) dall'altra le mostruosità, pur esse emarginate, della catodicità berlusconiana.

I tre volumi presentano quasi sempre gli stessi autori, con qualche pizzico di glamour un po' fashion (vedi la presenza di Asia Argento e Tinto Brass), e una tendenza appunto all'estremizzazione che alla fine, dopo la lettura omnia, risulta un tantino forzosa e volutamente trend.

Anche Milano (dopo Bologna e Roma) ci mette il proprio zampino e la fa grazie alla dinamicità di un personaggio a metà strada tra la figura di un bohemien e l'appariscenza di una star televisiva alla Sgarbi: Andrea G. Pinketts. Nom de plume questo che si rifà al personaggio di un giallista americano (a 'sto punto mi verrebbe da scrivere noirista) di classe e talento straordinari, Stuart Kaminski.

L'uomo (buffo e un tantino sopra le righe... la potete vedere spesso bazzicare il palcoscenico del Maurizio Costanzo Show) ha fondato a Milano appunto la Scuola dei duri che non ha altri intendimenti che quelli fotocopianti di riprodurre in salsa italica le avventure hard-boiled di tanta fiction americana. Proprietario di tre romanzi (di cui parleremo più avanti) per niente ovvi, anzi, ha messo su una squadra per lo più giovane con qualche riciclato della Prima Repubblica (Gaetano Cappelli), una copiona di Patricia Highsmith (Barbara Garlaschelli, recentemente approdata alla Marcos y Marcos e di cui leggerete la recensione del suo libro nella nostra rubrica) linusiani di vecchio pelo (Carlo Oliva) ed esperti dalla cultura enciclopedica (Lorenzo Viganò, autore insieme a Alessandro Riva di uno straordinario Un delitto al giorno, sorta di agenda delittuosa dei peggiori misfatti dell'umanità).

Il risultato è anche qui eterogeneo, con qualche stimolo appetitoso, ma l'approccio è meno cerebrale e la riuscita tutto sommato più brillante.

Chiuderei questa passerella dedicata alle antologie con l'ultima trovata pubblicitaria della Mondadori, uscita per le feste di Natale '95: Inverno Giallo '96. Sorta di vademecum giallastro che riunisce per l'occasione un po' tutti, ma che non aggiunge assolutamente nulla alle valutazioni complessive del fenomeno noir.


Sogno americano

Sogno americano, o meglio ancora, sogno di chi vuol fare l'americano (come nella vecchia canzone...). Gioco spesso spudoratamente dichiarato che offre eccessi e debolezze. Eccessi dovuti più che altro ad una sorta di sfrenato narcisismo che trasporta la penna versa un'adorazione per sé stessi e fine a sé stessa, e debolezze per una condizione psicologica d’inferiorità e di dipendenza da modelli importati. Ma non sempre i risultati sono brutte fotocopie, anzi.

Andrea G. Pinketts (di cui abbiamo fatto già cenno in precedenza) ha stile e sentimenti nordamericani (il suo nome d'arte racconta abbastanza). Il suo esordio avviene nel 1991 con Lazzaro vieni fuori (Metropolis), ma è con Il vizio dell'agnello e soprattutto Il senso della frase (ambedue Feltrinelli) che affiora una capacità decisamente affabulatoria.

Se Il vizio dell'agnello, congegnato come un pastiche bizzarro e surreale (due novantenni di sconvolgente bellezza si rivolgono a Lazzaro Sant'Andrea perché la loro bambina Brankia, dopo aver vinto un premio di bontà, è diventata una carogna pazzesca che si diverte ad avvelenare i piccioni in piazza Duomo a Milano) mostrava in nuce tutte le potenzialità slapstick dell'autore, è con Il senso della frase che la maturità letteraria s'esprime con forza ed ingegnosità fuori della norma.

Qui i modelli anglo-americani sono ancora più marcati e la connotazione hard-boiled è affinata e sbattuta in faccia. È ancora Milano a fare da sfondo ad una storia torbida ed orribile. Una Milano coi suoi bugiardi patologici, i babbo natale armati di revolver, i paralitici massacrati e le puttane in cerea di una verità psicanalitica.

Pinketts gioca sporco, resuscita non solo le scazzottate old America, ma anche le parodie muscolar-poliziesche di Carlo Manzoni e dà vita ad un personaggio, ancora Lazzaro Sant'Andrea, (nomen omen perché il protagonista è alla ricerca di una probabile resurrezione) che, perso tra lucciole fascinosamente bugiarde ed introvabili ed atmosfere decisamente splatter (con cedimenti ambiguo-sentimentali, come la corte gentile che l'investigatore subisce da parte di un poliziotto), ripropone una weltanschauung d'annata che quasi sempre paga bene.

Animanera, (Baldini & Castoldi) l'esordio narrativo di Daniele Brolli (fanzinaro di lunga data ora assurto a fasti editoriali), è un esempio perfetto di come si possa costruire una storia nerissima e nello stesso tempo un puzzle letterario pieno di rimandi. Quella località balneare della Romagna non identificata (ma è Rimini però, certo meno malinconica di quella tondelliana), attraversata da killer prezzolati che pretendono di girare un video a spese delle vittime e palcoscenico per un rapimento messo a segno da balordi, è affollata di universi letterari e cinematografici. C'è il mondo parametafisico di Dick, quello allarmante di Ballard, quello seriale di Thomas Harris e quello horror di Cronenberg e del Demme de Il silenzio degli innocenti.

Animanera è l'io sconfitto e devastato dei protagonisti, il subconscio stevensoniano che non ha bisogno di trasformazioni per emergere, ha solo bisogno dell'occasione, come l'uomo ladro.

Animanera è l'omaggio sentito e un pochino imbarazzante ad una scuola letteraria di un esordiente che a stento tiene a bada la penna e i sentimenti più terrorizzanti. Non sappiamo se per strafottenza, per desiderio di stupire o perché davvero il mondo è così sanguinante e statunitense.

Non si capisce invece per quale oscuro motivo Monica Vodarich, nativa di Cervia e appassionata di King e Cook (bel biglietto di presentazione!) abbia voluto ambientare la storia di Una trappola per Peggy (La Tartaruga) nelle metropoli americane. Passi l'amore puro per la Highsmith (e allora? Tanto meglio... o tanto peggio! La Highsmith non scavava forse più nel fondo umano che in quello urbano?), passi l'amore per Sanders (autore rossastramente gocciolante), ma non può passare né lo sfruttato archetipo cinematografico della fuga come metafora dell'insana ricerca del nulla (Kalifornia no? Il mondo nuovo no?), né la serialità (ancora!) omicida come metafora del nichilismo ideologico.

La storia di Peggy e di suo figlio, disperatamente contesi da un uomo improvvisamente costretto all'omicidio e da un killer seriale, non risparmiando nemmeno tematiche razziali che la Vodarich inzuppa con un condimento tra il sentimentale e l'indovina chi viene a cena, affoga in una banalità senza rimedio, ricalcando schemi che definire abusati è puro eufemismo.

L'esordio del bolognese Lorenzo Marzaduri (Rito mortale – 1989 - TransEuropa) shakera con poca convinzione figure e stili dell'immaginario fiction collettivo. Cristoforo Convertino, il personaggio chiave della storia, se da una parte assomiglia alle figure più hard del mistery americano, dall'altra, con un'innata propensione alla facile macelleria, mischia Barker a Marlowe. Il setting poi, la provincia bolognese, annaspa in una nebbiolina (nebbia padana no?) degna compagna di un sentimentalismo generazionale (cocktail dunque brumoso e malinconico) che l'autore fatica a condensare, incerto se approdare sui lidi del noir sanguigno e deciso o su quelli del conformismo giovanile.

Marzaduri dunque non può che forzare la mano, stirando all'eccesso sia il provincialismo di fondo (la moda del video-sesso fatto in casa è portata all'esasperazione in una sorta di catena di montaggio della perversione) che il finale che, grandguignolesco come non mai, supera di gran lunga gli stessi modelli di riferimento (non sempre gli americani sono off limits!).

Decisamente più convincente (anzi, mi spingo a ritenerlo, insieme al Pinketts, uno dei pochi, veri, scrittori noir del nostro paese) Massimo Carlotto. Ha esordito net 1994 con Il fuggiasco (E/O), ma è con il recentissimo La verità dell'alligatore (sempre E/O) che ci regala una storia coi fiocchi, nerissima e, caso piuttosto raro sulle spiagge italiche, politica.

La scuola di riferimento è piuttosto chiara. C'è addirittura un passo del libro che chiarisce ogni dubbio. L'avvocato Foscarini nel parlare a Marco, il protagonista-investigatore soprannominato l'Alligatore, così si esprime: Ogni volta che la vedo mi si rovina la giornata. La sua sola presenza mi irrita. Quando poi apre bocca vengo assalita dal desiderio di tirarle qualcosa in testa. Arrogante e ridicolo! Sembra uscito da un film poliziesco degli anni quaranta.

Eloquente no? In questo caso però possiamo per un attimo tralasciare i rimandi (ce ne sarebbe un altro per la verità, che mi preme sottolineare, per altro stravolto: Mandrake e Lotar. Mandrake è appunto l'Alligatore e Lotar Beniamino Rossini, malavitoso milanese, abile con le mani, con le armi, ma al contrario del suo cartoon's father di fine cervello) e addentrarci in una vicenda raccontata lucidamente e destabilizzante. I due protagonisti intuiscono molto presto che gli omicidi di due donne imputati a un povero tossico sono in realtà maturati nei corrotti ambienti di una certa borghesia di provincia (la città questa volta è Padova) che traffica con le Armi, con la Magistratura e con la Politica.

Lo stile e il contenuto di La verità dell'Alligatore sono briosi e, per certi versi, ossessivamente contemporanei. Le passioni sfrenate del protagonista per il blues e per il Calvados non gli risparmiano però incontri spudoratamente di tendenza (nemmeno fosse la pagina degli spettacoli de La Repubblica) con la musica di Cesaria Evora o i crimini destabilizzanti dell'hackerismo di grido: Luther Blisset.

Siamo di certo davanti ad un festival di brillanti suggestioni, ad una reale presa di coscienza di un mondo in perenne e sconvolgente movimento, ad una letteratura che pur citandosi woodyallenamente addosso, si ricrea da sola offrendo soluzioni per niente scontate.

Concluderei la passerella del sogno americano con due autori diversissimi tra loro che pur con buone intenzioni, non riescono a scrollarsi di dosso cliché di appartenenza che ne soffocano immediatamente la scrittura: Carlo Lucarelli e Barbara Garlaschelli.

Carlo Lucarelli è il tipico scrittore che le ha provate tutte. Ha iniziato a scrivere soggetti per una serie di fumetti con protagonista il sovrintendente Coliandro (divenuti poi romanzi a cominciare da Falange Armata - Granata Press) ha scritto una trilogia gialla ambientata curiosamente nel periodo fascista (per la precisione Carta bianca - Sellerio 1990, L'estate torbida - Sellerio 1991; e infine Indagine non autorizzata, premio Tedeschi 1993, vicenda di bassa consistenza tra didascalia e umorismo involontario) e Lupo mannaro, storia seriale che inserisce il Lucarelli nel gruppo degli imitatori furbi di mercato che inaugura la collana del noir italiano pubblicata dalla casa editrice romana Theoria.

La vicenda è quella di un serial killer che ammazza una ventina di prostitute, nell'aria emiliana, firmando i suoi misfatti con una serie di morsi ai corpi già privi di vita delle sue vittime. Raccontata così sembrerebbe molto lineare, in realtà c'è molta carne al fuoco, troppo ostentato mestiere (che il più delle volte invece di essere onesto artigianato è becera presunzione), troppa sicurezza, troppi cliché (il commissario nevrotico, l'elemento femminile perturbante-appagante, l'omicidio che così com'è realizzato fa moda, l'onnipresenza massmediologica) a discapito davvero dell'unico canale per costruire un buon intreccio, quindi un buon noir: la denuncia sociale.

Lucarelli si limita a ripetere una lezioncina piuttosto pedissequamente, ma se con i precedenti romanzi, pur così forzatamente didascalici, aveva avuto almeno il merito d'inserirsi in un contesto ben preciso, con Lupo mannaro, così metropolitanamente kitch e così americaneggiante, perde il filo del discorso e della coerenza.

Paradossalmente siamo in terra neutra e il ruffiano riferimento a Berlusconi (il primo serial killer dell'Italia berlusconiana!) non è che un riferimento temporale e non un sacrosanto diritto ad incazzarsi. Peccato anche per questo.

Barbara Garlaschelli con O ridere o morire (Marcos y Marcos), attraverso raccontini che durano per lo più lo spazio di un respiro, vuole raccontarci l'Italia contemporanea, quell'Italia che attraverso la televisione e i messaggi bombardanti dei media in generale, assomiglia sempre di più ad un caravanserraglio, piuttosto che ad un paese che tenta disperatamente di guadagnarsi un assetto politico e sociale stabili.

I suoi personaggi sono in realtà dei mostri (come lo erano quelli di Catastrofi più o meno naturali di Patricia Highsmith e quelli dell'opera da grande di quel feroce nichilista di Roal Dahl), e fin qui niente di male, ma proprio perché così assetati del proprio riscatto, brutalmente irreali.

E le situazioni assomigliano ad un carosello insensato di cattiverie fuori luogo e fuori tempo.

Bambini crudeli, sapientoni insopportabili, suocere perverse, amici inverosimili, intellettuali usciti di testa, bruttine poco stagionate ma terribilmente decise, tuttologhe irrefrenabili, tutti a commettere delitti bestiali, come se l'alternativa alla depressione e all'isolamento fosse solo una sana e perversa voglia di sangue.

Come ha detto la nostra Eleonora del Poggio nelle pagine delle recensioni, simili quadretti sono semplicemente specchi per le allodole. Banali schetches televisivi. Adatti per una performance teatrale della Premiata Ditta.


Nostalgie generazionali

Qui entriamo in un campo minato: laddove il noir prende sentieri malinconici e irrimediabilmente generazionali, le storie sembrano assomigliare più ad un diario mainstream che ad un contesto puramente poliziesco.

Cercheremo di chiarirci e di differenziare, onestamente, i vari autori.

Mi preme iniziare con uno scrittore che ha offerto, soprattutto in una occasione, elementi sufficienti per considerarlo alla stregua dei migliori: Remo Guerrini. Il romanzo che offre un impareggiabile clima soffuso di tenere rimembranze e nello stesso tempo un robusto intreccio noir è L'estate nera (Mondadori -1992). Un'estate, quella del 1962, che chi ha più di quarant'anni non fa fatica a ricordare: muore Marylin Monroe, arrivano i Rolling Stones, c'è l'affaire Cuba, s'inaugura il primo governo di centro-sinistra guidato da Fanfani, il Milan vince lo scudetto, l'Italia del calcio è sbattuta fuori dal Cile. In questo contesto nasce la storia di un gruppo di bambini che, tra canzoni di Mina, Connie Francis, Salomon Burke, Edoardo Vianello e via discorrendo, tra i primi e convincenti spot di carosello e il crescere delle manie merceologiche, è spettatore-protagonista di un misfatto che febbrilmente ed inaspettatamente, si ripresenterà quasi trent'anni dopo.

La bellezza del romanzo sta nella felicità del ritratto psicologico dei bambini-adulti, nella ricostruzione maniacale di un periodo che non è soltanto storico, ma antecedente a tutti e nel conseguente smantellamento di ogni costruzione illusoria.

L'estate nera è dunque come tante storie del giovane King, un rito di passaggio. E nell'invenzione di un atto crudele e condannabile, una richiesta d'aiuto, un grido di dolore.

Peccato che Guerrini non si sia ripetuto. Nel 1994 pubblica Schermo nero (Mondadori). Bastarda vicenda con un serial killer (ma dai!), un'avvocatessa che si fà infinocchiare da messaggi telematici, una bambina che aspira a diventare un'Ambra Angiolini ancora più squallida, una madre scema che non vuole più saperne del figlio che rinuncia a fare l'eroe, e facezie di altro tipo. Insomma, siamo di fronte ad una hit parade delle sconcezze massmediologiche. Ed è un peccato, perché Remo Guerrini conosce benissimo i congegni narrativi, usa un linguaggio fluido e appropriato ed è uno dei pochi scrittori italiani che potrebbero reggere il confronto col mercato straniero. Con Schermo nero si dibatte tra incertezze alla Chi l'ha visto? e impennate alla Telefono Giallo. Sempre televisione è, mai letteratura.

Sul versante più strettamente nostalgico-generazionale si agitano due noir di due esordienti: Il calciatore di Massimiliano Governi (Baldini & Castoldi) e Dove finisce il sentiero di Giampiero Rigosi (Theoria). Decisamente più stimolante il primo, giocato com'è su un robusto impianto metaforico, più struggente, ma paradossalmente meno coinvolgente il secondo.

Massimiliano Governi è riuscito ad imbastire, con un'idea semplice e anch'essa cinematografica, un noir sfizioso che è insieme una mappa dei desideri collettivi e crocevia di caotici rimpianti. Scartato all'età di dodici anni dalla squadra dei giovanissimi della Lazio in occasione di un importante e decisivo incontro contro l'Almas, dopo due decadi da quel personalissimo Hiroshima day, il protagonista del romanzo decide di chiudere il conto con le proprie amarezze eliminando il responsabile di quel tragico evento, il vecchio allenatore di calcio. Elemento rilevante di questa storia, la presenza di una vecchia cinquecento che simbolicamente assurge a contenitore dell'universo mnemonico dell'autore, (... È un tale casino qui dentro. A parte i libri ci tengo album di figurine, album di foto, articoli, pagelle, agende scolastiche, psicofarmaci, cassette musicali, dischi accartocciati, tascabili; tutto. Del resto una volta ci ho anche vissuto per quasi sette mesi, fisso.) e complice del piano criminoso.

Parlavamo di desideri collettivi. Cos'è questa volontà demiurgica d'inventarsi un nemico se non l'essenza stessa della volontà di sopravvivere? Nel romanzo, accanto alla musica, Who, Elvis Costello, Police, Springsteen, Steve Wonder, che è riferimento obbligatorio e generazionale, vi è un continuo rimando ai grandi assassini che hanno costruito una sorta di storia sui generis: Charles Manson, Ali Agca, Mark David Chapman, Carlos Monzon e non ultimo O.J. Simpson.

La giustificazione degli altrui delitti è la molla per i propri.

Non siamo però di fronte ad un'istituzionalizzazione della violenza, ma alla sua riconoscibilità, quando la Storia stessa non offre quasi mai giustificazioni.

Il calciatore è dunque un romanzo di formazione, serio e doloroso e amaramente grottesco dove la rabbia, a stento contenuta per tanti anni, esplode alla fine come inevitabile debolezza del vivere.

Dove finisce il sentiero di Giampiero Rigosi è invece un esordio sì godibile, ma spesso ingenuo e privo di scosse brutali. Stupisce anche il modo con cui lo si vuole presentare... Sul tono di un blues metallico e duro, una storia che sembra uscita da un film di Tarantino e invece è italianissima.

D'accordissimo sul fatto che è italianissima (la prima parte dedicata alle imprese dei due giovani protagonisti ai tempi della scuola è tanto tenera da strappare qualche sorriso a mezza bocca) ma dio solo lo sa cosa c'entri Tarantino. La vicenda, un ragazzo come tanti altri si fa coinvolgere da un amico in una serie di avventure pazze e pericolose con inevitabile e drammatica conclusione, semmai può ricordare le scorribande di Kalifornia e Il mondo nuovo (evidentemente punti di riferimento non casuali) e di Thelma e Louise. Dove la fuga è estremo tentativo di riagguantare un'esistenza o perdita definitiva delle speranze e delle illusioni.

Rigosi ripropone modelli consolidati, azione e ribellione come prototipi giovanili, abbellendoli (è il caso di dirlo!) di considerazioni encomiabili sull'amicizia e sulla capacità d'amare. Tutto qua. Insomma un romanzetto di tranquillo mestiere dove però la disperazione e il dramma sociale rimangono in un angolo.

Fughe da fermo dell'ennesimo esordiente Edoardo Nesi (Bompiani-Panta), sembra voler giocare la carta dell'equilibrio, o se vogliamo essere piuttosto prosaici, del colpo al cerchio e una alla botte.

Federico, innamoratissimo di un'indifferente Cristina, per combattere il tedio ed una propensione piuttosto qualunquistica ad essere contro il sistema tutto, organizza con alcuni amici un attentato in una cittadina toscana. Per rimediare l'esplosivo contatta una vecchia organizzazione anarchica in quel di Forte dei Marmi, rivelando nello stesso tempo una parentela piuttosto vaga con Prima Linea. Fare i terroristi era sempre stato un grande sogno per noi tre, il sogno più grande. Terroristi di un terrorismo dimostrativo e plateale.

E plateale lo sarà davvero perché il piano criminoso sarà l'ennesimo, inutile espediente, di dare un senso ad un'impotenza quasi inconfessabile.

Nesi con la sua prima opera, per altro godibile e ironicamente sincera, aggiunge un altro tassello a quel puzzle colorato che è la letteratura giovanile italiana. Un valente critico (Paul Virilio) ha parlato in proposito di dromoscopia, cioè del vedere correndo. Il carattere peculiare della nostra società e delle comunicazioni danno alla scrittura un ritmo veloce ed un montaggio sincopato spesso a discapito delle tradizionali strutture portatrici di significato. Ma è davvero così? Oppure queste storie giovanili, questo appassionato zapping letterario, lontano da qualsivoglia esercizio di stile, non sono davvero il disvelamento bello e buono del nostro sentire?

È pur vero che Fughe da fermo soffre di quel particolare malanno generazionale che, pur registrando cambiamenti e verità, inanella una serie di luoghi comuni e luoghi dell'immaginario che sembra un burocratico bollo su misura. il rock, specificatamente i Doors, U2 e l'heavy metal, la letteratura non stanziale, Malcom Lawry, Paul Bowles e aggiungiamo noi William Burroughs e Bruce Chatwin, e lo sport (il calcio) come colonna vertebrale del crescere. Comunque un esordio non disprezzabile, anzi, un buon punto d'avvio per ulteriori, malinconiche, escursioni.

D'impatto ecologico-antiecologico Colpo di lama di Mauro Covacich (Neri Pozza). Lo scrittore triestino ha esordito nel 1993 con Storie di pazzi e normali (Theoria), ma solo con questo ultimo romanzo sembra aver intrapreso una strada lucida e decisa. In una Pordenone attuale e sanguigna, tra centri sociali volenterosi e grandi dichiarazioni d'intenti di un'amministrazione impegnata a metter su un impianto di riciclaggio di rifiuti, si dipana la storia del giovane dottor Fabbretto, spregiudicata ed ossessiva, struggente e malinconica. La lunga lettera che il protagonista invia al questore della città per svelare l'autore di un delitto, in realtà è un pretesto per dar voce ad un fallimento esistenziale, fallimento diviso tra un amore impossibile e imprendibile per Alessandra ed il raffronto con Lama, ex detenuto, ostinato e cocciuto ribelle.

Covacich racconta gli episodi con tempismo e sufficiente mestiere, accostando sentimentalismi, mai languidi e sommessi, e violenze spesso inevitabili, ma discutibili. Ne esce un noir gradevole, a volte impietoso che sbandiera ai quattro venti le disillusioni generazionali. Con un finale a sorpresa che lascia inevitabilmente l'amaro in bocca.

Bambine di Eraldo Baldini (Theoria), pur costruito con una tecnica standard, è un noir tirato per i capelli. Presentato dallo stesso Carlo Lucarelli come la storia della solitudine di una generazione che vive in un contesto umano diabolicamente ambiguo, che offre molto, forse troppo, ma a patto che lo si consumi in fretta, è in realtà anche un rimestare, a volte piuttosto noioso, dell'immaginario sentimentale. In una Ravenna attraversata in lungo e in largo, un delinquente ha già rapito due bambine e sta per mettere in atto altre terribili azioni. Un giornalista, Carlo Bertelli, si mette sulle sue tracce e nello stesso tempo vive ore d'angosce per una bambina, a cui è legato affettivamente perché figlia di un suo amico prematuramente scomparso, che è oggetto delle attenzioni del maniaco. Tutto qui.

Sapientemente, o forse no, Eraldo Baldini lascia in sospeso la vicenda più morbosa (le morti delle bambine), ma non riesce a scaricarsi di dosso quella sensazione perpetua di fallimento e rimpianti che segna la trama del romanzo, che tuttavia scivola inesorabilmente verso una conclusione languida, irrealizzata, pacchianamente etica. In Bambine il delitto sembra non pagare a sufficienza (ma allora perché scrivere un noir?) e il tutto svilisce in un ammorbare di sensi.


Due tributi

In tutto questo bailamme di informazioni, permettetemi due tributi a due autori che, per classe, per capacità narrativa, per onestà intellettuale, per tempismo generazionale, sono una spanna al di sopra di tutti: Pino Cacucci e Marcello Fois.

Decisamente più conosciuto il primo, meno pubblico il secondo, ma non certo inferiore.

Su Pino Cacucci è già stato scritto abbastanza. Ha avuto un merito soprattutto, quello di coniugare autobiografismo e romanzo d'azione.

Spesso l'introspezione e il mestiere di vivere non si sposano con l'audacia e gli sconfinamenti avventurosi. Non si sposano con la fiction più collaudata.

Pino Cacucci è riuscito a costruire una sorta di diario dell'anima e delle gambe. Dove il perenne movimento verso geografie inusuali, non è soltanto necessità scenografica, ma necessità del cuore.

Le metropoli e le periferie italiane degli inizi (mi riferisco a Outland Rock, raccolta di racconti, come dicevamo nella prima parte del nostro studio, un tantino sopravvalutata), le strade polverose del Messico (Puerto Escondido e San Isidro futbol), le inaccessibilità boliviane (alcuni racconti dell'antologia Forfora) appartengono ad un'unica mappa, che non ha la circolarità di un mappamondo, ma quella irregolare, aspra, di un cuore appunto.

La prosa di Cacucci è anche un perenne girovagare di sentimenti e di disagi, che spesso sono la stessa cosa. La prosa di Cacucci è un palcoscenico dove si agitano scompostamente personaggi in cerca non di un’identità (magari!), ma di una semplice nozione del vivere quotidiano.

I suoi protagonisti sono dei perdenti, ma a differenza della maggior parte della prosa contemporanea, non appartengono elitariamente ad una generazione, ma attraversano tutte le generazioni. Il poliziotto che perseguita il ragazzo ne Il passaporto (Outland Rock) sembra possedere la stessa capacità autolesionista e nichilista della vittima e, per esempio, del commissario Schiassi di Puerto Escondido. Sono perdenti non perché coltivano amori sbagliati, non perché coltivano sentimenti sbagliati, non perché coltivano ideologie estreme, ma perché il mondo sembra non contenerli a sufficienza.

I racconti di Cacucci sono i disperati resoconti esistenziali di uomini soli, insofferenti alle gerarchie, ai potentati, alle imposizioni (anche quando essi stessi. sono parte del sistema). Ribelli, ancor più che per principio, per attitudine, per intuito. Cos'era Julius Bonnot (protagonista del bel romanzo In ogni caso nessun rimorso) ex operaio in un altoforno di Lione, poi capo di una banda di rapinatori politici nella Francia della Bella Epoque, se non il precursore di tutta una serie di sfigati anarcoidi che segnano le pagine di tutta l'opera dello scrittore bolognese?

A volte però, la necessità di rendere tutto esistenzialmente nebbioso, porta Cacucci a calcare la mano e il risultato è una sostanza un po' appiattita ed istituzionalizzata. Così è successo per Forfora. Il libro è diviso sostanzialmente in due parti. La prima piuttosto ironica e dissacrante (in Natiche bolognesi l'unico indizio di un delitto è un bel culo emiliano), a metà strada tra le rocambolesche avventure di un Taibo II (di cui Cacucci è peraltro estremo ammiratore e traduttore) e gli smorfieschi disimpegni di un Didier Daeninckx. La seconda, che vuole essere più noir, pecca di presunzione. La mappa geografica dei suoi polizieschi, proprio perché così vasta, finisce col perdersi ed arenarsi tra i soliti deserti sudamericani. Questa spazialità che allarga di molto la visione della realtà poi alla fine restringe sensibilmente le potenzialità di denuncia. E allora le problematiche sociali si perdono spesso in un balletto di rimandi a volte blochiani (Sorelle) a volte hollywoodiani (Insurgentes) senza lasciare tracce. Anche se poi Forfora, il racconto che dà il titolo alla antologia, è un bell'atto di accusa contro la pena di morte.

Proprio questa ossessiva, metaforica, fuga verso il nulla ha prodotto, purtroppo, degli epigoni: Le zanzare di Zanzibar di Giancarlo Narciso. Narciso è figlio di Cacucci. Ne eredita le stesse passioni, la stessa voglia di volare, ma i mezzi a disposizione spesso non gli consentono altro che un disperato tentativo di decollo. Le zanzare di Zanzibar assomiglia a Fino alla fine del mondo, il film visionario di Wenders, dove le immagini corrono insieme ai protagonisti, sempre in preda ad emozioni viscerali (prodotte sia dal cuore che dall'uso di droghe: coca, mescal, peyote) e ad inadattabilità geografiche. E anche il substrato politico di un Sudamerica ostaggio di delinquenti, parassiti, spacciatori e dittatori di transizione appoggiati dalle potenze occidentali è la solita solfa, condita con eleganza india.

L'altro tributo è rivolto a Marcello Fois. Lo scrittore nuorese esordisce nel 1992 con un libro fuori dagli ambienti noir: Picta. Una sorta di vademecum, piuttosto curioso, dell'arte vista da mille punti di vista e con mille diversi intenti.

Racconti che sono ritratti di pittori alle prese col lavoro, i sogni, i pensieri e via dicendo. L'antologia vinse, in quell'anno, il Premio Calvino.

Ma è con i due romanzi successivi che Fois si colloca, e a buon diritto, in cima ad un'ipotetica classifica dei migliori noiristi di casa nostra. Sempre nel 1992 pubblica, per Metro Libri, Ferro recente. Tutto inizia con un orrendo, inspiegabile, delitto commesso lungo una strada della Sardegna. Da qui un complicato intreccio di vicende che sembra legare le esistenze di uomini e donne apparentemente lontani fra loro.

Storia che possiede la nostalgia politica degli anni roventi, ma nello stesso tempo la forza lucida perché da questa si possa ripartire verso lidi diversi.

Storia che mescola terrorismo, (anni '80 e '90), secessionismo (Sardegna libera) ed elementi di puro contorno, ma assolutamente necessari per un noir contemporaneo: prostituzione, ricatti, omosessualità ed altro. Una vicenda strutturata in modo da consumare i dubbi per strada, costruendo alla fine un mosaico che lascia solo il tempo di trattenere un poco il respiro. Lucida ambientazione regionale e in più l'avvertibile dramma di una generazione che sopravvive solo quando è imbottita di cinismo.

Meglio morti (Granata Press) del 1994 abbandona il setting terroristico per raccontarci invece una vicenda di violenze quotidiane. Durante una battuta di caccia viene ritrovato il corpo senza vita di una bambina. Altre bambine mancano all' appello. C'è qualcosa di macabro e ancestrale che lega queste scomparse?

Il romanzo è una presa di coscienza della condizione femminile. L'orrore e la violenza fisica non sta in una bambina di dodici anni che perde la verginità (anzi, lì il corpo dato è, evento davvero inusuale, un gesto d'amore), ma nel fatto che la stessa subisca un aborto procurato da una mammana che è simbolo di una sessualità marcia. L'orrore e la violenza non stanno nelle percosse quotidiane, ma nella tipologia culturale che vuole la donna sottomessa psicologicamente, per l'eternità, al maschio (bella la figura di Lina Piredda che, per amore, sconta da innocente una pena di trent'anni).

E così in Meglio morti l'elemento che sembra più politico (i soliti intrallazzi per ottenere appalti in Comune) è paradossalmente il meno socialmente coinvolgente. Ci sono ben altre tragedie in questo romanzo. Ben altre tangentopoli. Le tangentopoli del cuore e dei sentimenti, quando non basta nemmeno pagare per restituirsi innocenti.

Anche Fois ha fatto proseliti. Cesare Battisti pubblica nel 1993 Travestito da uomo. Romanzo su un terrorista italiano che dopo anni passati in esilio volontario in Messico, torna in Francia, a Parigi. Qui è arrestato per una soffiata e poi improvvisamente scarcerato.

Tra calvari giudiziari e sentimentali la trama s'insabbia su sentieri stanchi e consunti. Se per Fois il terrorismo era un momento storico da cui ripartire e ricostituirsi, per Battisti è un citarsi addosso tra dilemmi e considerazioni un po' muffe e storicamente sviscerate fino alla nausea.

Il sasso dentro di Ivan della Mea (InternoGiallo, 1990) è antecedente agli esordi di Fois, ma in qualche modo è riconducibile alle tematiche dello scrittore sardo. Romanzo pre-manipulite, sufficientemente ideologico nella prima fase, ingloriosamente buonista nella seconda. Romanzo di una Milano bella e disperata (... Milano è una città che di notte muore. Ogni notte muore un po' di più. Muore senza silenzio... muore senza silenzio e senza ombra... Milano si raggriccia nelle proprie miserie, sui propri dolori, sui propri peccati e, come Cristo nell'orto di Getsemani, trasuda tutta la sua pena, libera il suo maligno e non c'è Graal né sacro né profano che possa raccoglierne gli umori).

Romanzo di una Milano che produce cadaveri orrendamente mutilati e abbandonati nelle discariche e uomini con un profondo senso della giustizia. Romanzo di una Milano come vera e propria dark lady. Ma il finale smaccatamente ed ingenuamente hitchcockiano più che turbare, tuba. Almeno, tenta di tubare coi sentimenti troppo smaliziati dei lettori.

Quelli che hanno troppa puzza sotto il naso e non si fanno confondere dal tatticismo e dal mestiere di chi usa bene la penna; ma non sempre brillantemente la testa.


I furbi

È uno spazio curioso questo. Ma l'ho voluto inserire perché se da una parte le trame dei romanzi esaminati s'allontanano dai canovacci noir, dall'altro appartengono di diritto a strutture gialle che sono le progenitrici di tutto il poliziesco letterario.

Insomma, se il noir non può prescindere da tematiche sociali e politiche, gli autori di questa breve carrellata prescindono con dovizia, ma richiedono un'attenzione per una ricostruzione globale di tutto il movimento.

E perché furbi? Perché approfittano di un trend, per esempio, ricalcare gli schemi di un grosso successo commerciale, perché proseguono un filone che è ormai un classico di genere (i manoscritti segreti di uno Sherlock Holmes fanno sempre gola a tutti!), perché sagacemente sfruttano collocazioni storiche che stuzzicano l'interesse (vedi l'antica Roma).

Piero Meldini con L'avvocata delle vertigini appartiene al primo gruppo e compie un volo per niente vertiginoso. Noir apocalittico e vicenda di crittografie e profezie, manoscritti tarlati e vendette, dubbi teologici e certezze criminali, ma in fondo un tentativo piuttosto mal riuscito di scrivere un giallo alla stregua di un esercizio di stile. Il nome della rosa (perché Meldini ha il romanziere Eco nel cuore) è ben lontano sia per capacità affabulatorie che per capacità strutturali. Non bastano le dotte citazioni, sparse come riso, né le omeriche similitudini di cui l'autore ci omaggia come dolce companatico, per farne una lettura appassionata e appassionante.

L'avvocata delle vertigini (che non è colei che s'è indottorata in legge, ma colei che spinta dalla vocazione e da un accidente capitatole in cima ad un campanile è diventata santa e protettrice di coloro che soffrono di vertigini) è, lo confessiamo, un'occasione perduta. Tra le mani di un autore meno appesantito da balbettii intellettuali e da infiniti revivals il romanzo avrebbe lasciato tracce più marcate per future cavalcate a metà strada tra storia, mitologia, teologia e mistery.

Anche Dall'Angelo e Sorlini, vincitori del premio Tedeschi 1994 con Il libro di Baruc, hanno Eco nel cuore. Quattro giovani seminaristi, chiamati a confrontarsi dentro le mura di un monastero geloso custode dell'ortodossia, fanno una scoperta straordinaria che segnerà per sempre i loro destini. Un segreto che porterà la morte.

Morte che un prete e una giornalista, vent'anni dopo, decidono di chiarire proprio sulla base del libro di Baruc seppellito nel silenzio dei secoli.

Romanzetto tutto sommato piacevole. Dall'Angelo e Sorlini tagliano la strada all'eterogeneità dell'investigazione (Eco appunto, il giallo claustrofobico alla Ellery Queen, il giallo classico con finale a sorpresa di tutta la scuola inglese) offrendo un quadro totale convincente, ma fine a sé stesso. Un gioco letterario (al contrario di Meldini meno intellettuale, per questo più divertente) costruito come un gioco di società alla stregua di un Cluedo medievale.

Potremmo eleggere miss furba del decennio, Danila Comastri Montanari. La scrittrice bolognese s'è inventata un filone peplum (il termine ha il duplice significato di qualificare la sostanza e riallacciare le fila del discorso con un genere che soprattutto in Italia e soprattutto nel mondo del cinema aveva dato frutti insperati dal punto di vista del botteghino) sfruttando abilmente le nostalgie liceali e imperiali di una buona fetta del pubblico italiano che legge gialli. Nel 1990 vince il premio Alberto Tedeschi con un romanzo, Mors tua, ambientato nel primo secolo avanti Cristo. I personaggi sono essenzialmente due: Aurelio senatore romano acuto, colto, umanissimo ed ironico, e Castore, liberto greco, fantasioso, scansafatiche e malandrino.

Il leitmotiv di queste operazioni, sia che si tratti d'indagare su un caso d'aborto (!), sia che si tratti d'indagare sull'assassinio di una bellissima ragazza, è essenzialmente quello di condurre per mano il lettore attraverso un continente sconosciuto, un’antica Roma molto moderna, che rispecchia, in maniera piuttosto pacchiana, i problemi e i vizi dei nostri giorni.

Parlavamo di filone. Infatti dopo Mors tua è arrivato In corpore sano, Cave canem e dulcis in fundo (tanto per essere in tema) Morituri te salutant.

Siamo di fronte anche qui ad una sorta di gioco letterario sfizioso che ricorda i tentativi più esotici di Agatha Christie (citerei C'era una volta, storia ambientata nell'antico Egitto). Nient'altro, perché la materia nera, e questo è ovvio, non passa attraverso ricostruzioni storiche seppur brillanti ammantate di una sospetta similitudine coi tempi nostri.

Più solido ci pare invece il tentativo di Enrico Solito (gioco di parole voluto) di rielaborare le avventure di Sherlock Holmes. In Italia pare che esista un'associazione, detta Uno studio in Holmes, che si interessa di tutto quello che riguarda la celebre figura.

Enrico Solito, pediatra e neuropsichiatra infantile, fa parte di questo gruppo e l'amore per il personaggio di Conan Doyle l'ha portato a scrivere i tre racconti che fanno parte di Uno studio in Holmes (La biblioteca del Vascello - 1995).

Libriccino inconsueto e furbo. Si parte con una trovata letteraria di per sé poco originale: una lontana paziente del dottor Watson ha lasciato in eredità ad un dottore di Firenze, lo stesso Solito, una serie di carte contenenti alcune avventure mai pubblicate di Sherlock Holmes.

Trovata letteraria che, se vogliamo, è la cosa più debole dell'operazione, perché Uno studio in Holmes è in realtà una riuscitissima ricostruzione d'epoca, un sottilissimo gioco e la dimostrazione della validità universale di certi modelli fiction.

Solito ci trasporta di nuovo in quell'angolo di Londra che ha visto esercitare uno dei cervelli più fini della storia dell'umanità (e in cui noi avremmo voluto, almeno per un momento, mettere tutti il naso) con la stessa grazia, lo stesso fascino, la stessa positivistica visione della Storia del vero Conan Doyle. E a volte facciamo davvero fatica a credere che questo libriccino sia la solita invenzione letteraria di rimando. I tre raccontini poi finiscono con un'altra trovata: l'incontro tra lo stesso Sherlock Holmes e il suo creatore, in un finale che mischia anche Einstein (personaggio che indubbiamente affascina le platee più disparate) l'era atomica ed un ecologismo ante-litteram.

Insomma, per una volta tanto, una furbizia letteraria godibile. E ci si augura che ad un primo tentativo ne segua un altro altrettanto affascinante.

Bruno Ventavoli con Pornokiller (E/O - 1995) è a metà strada tra il noir contemporaneo ed una boutade frivola ed evanescente. A tratti addirittura irritante.

Un produttore di film a luci rosse bussa alla porta di un investigatore. Chiede che venga fatta luce su una serie di misteriosi delitti che hanno come vittime i suoi pornodivi.

"I maschi sono preziosi - spiega con chiarezza cartesiana - sono il fulcro del cinema porno. Di ragazze ne trovi quante ne vuoi, disposte a tutto, dopo che hanno fatto crollare il Muro dei comunisti. Mentre gli uomini con la vocazione sono pochi."

Romanzo insopportabile, soprattutto quando il Ventavoli si lascia andare ad un linguaggio a metà strada tra un Busi ubriaco e eterosessuale e una sit-comedy curata dai Vanzina.

Giallo in cui non c'è geografia (Torino aleggia diafana ed inconsistente), non c'è pathos (il finale è quanto di più banale ed insignificante si possa scrivere) e l'ironia, di cui apparentemente si dovrebbe far forza, sembra appartenere ad una scuola di scrittura creativa tenuta da Giobbe Covatta.

Ad essere sinceri il Ventavoli non è nemmeno tanto furbo (nello sfruttare la tendenza dell'omicida seriale): il pornokiller, colui che uccide a raffica i pornodivi, protagonista assoluto della vicenda, non sfrutta nemmeno la tentazione di una razionalizzazione della serialità. Uccide sì a ripetizione, ma fuori da ogni schema clinico. E questo, per un lettore che si vuole rispettare, è un tradimento bello e buono.


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