un articolo di Simone Buttazzi
COCAINE NIGHTS –
SUPER CANNES- MILLENNIUM PEOPLE, di JAMES GRAHAM BALLARD.
James Graham è
tornato a Londra. Le vacanze sono state lunghe e fruttuose: lo
spazio di due romanzi. Ha riacquistato le forze. L’energia
accumulata si percepisce fin dal titolo della sua ultima fatica, che
non ha paura di suonare epocale. Dopo la Spagna di Cocaine Nights
(1996) e la Costa Azzurra di Super Cannes (2000), il cerchio
si chiude con Millennium people (2003).
Una trilogia,
sembrerebbe. “Lo straniero” diretto da Goffredo Fofi, che recensisce
Millennium people nel numero 46, ha pochi dubbi in proposito.
C’è omogeneità di temi, ci sono analogie tra personaggi e
situazioni. C’è lo stesso stile un po’ invecchiato. E sembra esserci
un progetto di fondo. Tre libri per tracciare le coordinate di una
rivolta mai sentita prima. La rivolta della borghesia contro se
stessa.
Ballard, da
sempre, è un maestro nel fondere i generi con la saggistica. Con
questi tre titoli offre ancora una volta uno spaccato formidabile di
“presente visionario” (si veda il dossier Ballard su “Pulp”, marzo
2004). I suoi romanzi non sono necessariamente ambientati nel
periodo in cui vengono scritti, ma sanno sempre cogliere lo spirito
del tempo preconizzandone sviluppi, conseguenze, degenerazioni. Sono
romanzi che non rifiutano la classificazione di genere, anzi la
scelgono, la incoraggiano, ma che vanno oltre, danno al lettore
qualcosa di più. Ballard ama i generi. Negli anni ‘60 esordì come
scrittore di fantascienza, arrivando in Italia con Urania. Per lui,
di fatto, anche l’avanguardia è un genere, come dimostra la
struttura programmatica de La mostra delle atrocità (1970) -
visionario, sì, ma ordinatissimo e con note a piè di pagina - o
anche un testo come Crash (1973), con il suo spirito da
romanzo-scandalo accuratamente pianificato. Ballard è un grande
narratore classico capace di annusare l’aria, di descrivere un’epoca
senza essere didascalico e di guardare avanti con piglio da
scienziato sociale, mai profeta da strapazzo.
Come Maitland,
protagonista di Concrete Island (1974), il lettore di Ballard
viene fatto sbandare e precipita in un “non luogo” à la Marc
Augé. Un luogo, prima di tutto, di passaggio, spersonalizzante,
anonimo. Ma anche riconoscibile, familiare, circoscritto, non chiuso
ma impossibile da abbandonare. Chi ha visto L’angelo sterminatore
(1963) di Luis Buñuel capirà al volo: il film è ambientato in un
salotto borghese da cui, di punto in bianco, non è più possibile
uscire. È inconcepibile. È dogmatico. Ebbene, immaginiamo che
in questo non luogo circoscritto che è l’ambientazione del
romanzo-tipo ballardiano sia in atto una rivoluzione: “una piccola
rivoluzione, così discreta e perbene che non se n’era accorto quasi
nessuno” (Millennium people, pag. 7). Il protagonista - e il
lettore - la fruisce come un enigma, un rebus, un gioco di scacchi.
Privo, tuttavia, di soluzione e di vincitori. Questa rivoluzione
piccina picciò giunge al termine, o almeno esaurisce la sua forza.
Si torna alla normalità, ma con uno sguardo diverso. Ecco cos’è
Ballard. Una performance dada travestita da romanzo mass market, che
tende ad implodere senza trionfo. Lasciando qualche traccia: un
punto di vista inedito, talvolta “osceno” sul mondo che ci circonda.
Una chiave di lettura che esce da quel luogo circoscritto e ci
riguarda in prima persona. È questo il lascito delle sue pagine.
Estrella del
Mar, Super Cannes, Chelsea Marina. Qui Ballard colloca le sue ultime
tre storie claustrofobiche, i suoi gialli beffardi. Veri e propri
romanzi-specchio in cui ambienti, personaggi e accadimenti sono
pretesti per descrivere minuziosamente il qui, l’ora, e il noi.
In Cocaine
nights incontriamo Bobby Crawford, affarista col pallino della
“rivitalizzazione” dei luoghi di vacanza iberici. In Super
Cannes è il turno del dottor Wilder Penrose, psicologo d’alto
bordo estroso quanto basta - sembra il dottor Jacobi di Twin
Peaks - che ha una teoria tutta sua per guarire i ricchi
abitanti di una zona residenziale cannense dal torpore cronico e
dall’ “alcolismo da lavoro”. Infine, il pediatra Richard Gould, che
fa sua - o inventa di sana pianta? - la rivolta di un intero
quartiere londinese, Chelsea Marina.
Luoghi
circoscritti ma non chiusi, in cui la via fuga è disponibile ma
sembra che nessuno la voglia imboccare. Personaggi ricchi e annoiati
nei primi due libri: in vacanza nel primo, residenti di un ghetto
d’élite nel secondo. Nel terzo vediamo la borghesia, i proletari del
nuovo millennio, i prodotti avariati del Novecento e della sua lunga
ombra. Ballard prende i borghesi, li mette sul piede guerra e dà
loro in patto l’intera città di Londra.
Millennium
people è retto da un paradosso illuminante che riporta alla
memoria l’attrazione di Ballard per il dadaismo applicato alla
realtà, modello The atrocity exhibition. È chiaro fin dalle
prime righe: la borghesia si rivolta contro se stessa. La borghesia
applica pratiche terroristiche su stessa e sui luoghi “affettivi”
che ne rappresentano l’identità sociale e culturale. Il nemico sono
io e mi comporto di conseguenza: ecco cosa sembrano dire i borghesi
di Chelsea Marina. Vicolo cieco, certo. Arbitrario, certo. Ma può
un’idea essere più disturbante e al contempo più feconda di questa?
In tempi di scaricabarile, di paura a priori e di bianco versus
nero, quanto è coraggioso dire che la linea nemica non è altro che
uno specchio?
Si tratta di
un concetto che matura pian piano nei tre romanzi. Nei primi due ci
sono già avvisaglie, ma il focus è più micro. Il problema è la noia
e come combatterla. Solo nel terzo si scoprono gli altarini e
l’analisi si fa più profonda, più aspra: la rivolta a
trecentosessanta gradi sostituisce la ricerca del piacere - del
fun - portata avanti con metodi rivoltosi. L’illegalità
coltivata di nascosto viene soppiantata a favore di uno scontro
palese e senza quartiere. Ma i protagonisti di questa guerra non
aprono le ostilità se non contro se stessi. La voragine del senso si
è spalancata.
In Cocaine
nights (pag. 175) si azzarda che la politica è un passatempo per
una casta di professionisti, di fatto incapace di scuotere le
persone. Idem per la religione, che richiede “troppa immaginazione”.
Solo il crimine può davvero svegliare la gente. Una dose misurata di
comportamento trasgressivo è la panacea. Bobby Crawford, “animatore
criminale”, “importatore di malefatte” a Estrella del Mar diventa
una sorta di nuovo messia, uno “psicopatico elevato al ruolo di
santo”. Grazie a lui la trasgressione diventa un bene pubblico, e il
rimorso un “lusso” che non c’è più bisogno di concedersi. Potrà
suonare banale, o banalmente maligno, ma “Il crimine è l’unico
impulso che ci sprona svegliarci. Siamo affascinati da questo ‘altro
mondo’ dove tutto è possibile” (pag. 236). Psicologia spicciola?
Maledettismo da bancarella? In certi casi la narrazione perde
equilibrio e cade in questi tranelli, senza dubbio. Per poi
risollevarsi di colpo grazie ad un dettaglio, un elemento
apparentemente accessorio che torna a scrivere grandi note a margine
della contemporaneità. La storia, ci ricorda Ballard sempre per
bocca di Bobby Crawford, è piena di esempi che avvalorano il
rapporto diretto tra crimine, coscienza sociale e grado di civiltà.
In pratica, è la distinzione tra dionisiaco e apollineo, tra un caos
letale ma dinamico e una quiete agiata, noiosa, senza idee. Ballare
sceglie il caos, ma non gli concede mai una vittoria duratura. Non
per moralismo. Per essere realista.
A Super Cannes
il crimine, nella forma di violenze gratuite e deliberate, non è un
passatempo. È un programma terapeutico: si passa dal villaggio
vacanze allo studio psichiatrico d’alto bordo. La psicopatia non
è più un problema da estirpare, ma la cura contro la noia e
l’abbrutimento dell’anima. In questo consiste il progetto del
dottor Wilder Penrose. Un paradosso? Ballardiano, quindi ovvio. Ma
in Ballard tutto ciò che suona come un facile épater le bourgeois
ha sempre uno spessore inaspettato. A Super Cannes la follia è
incoraggiata ma comunque soppesata, centellinata. È “follia
controllata e supervisionata” (pag. 242). È l’antidoto adatto alla
decadenza in un’epoca il cui unico svago è il lavoro, cioè il
dovere. Inoltre: “Se fai a meno della morale, le decisioni
importanti diventano una questione di estetica” (pag. 246). La
sospensione della morale è in fin dei conti il presupposto di tutte
le trame ballardiane. Insieme, aggiungerei, alla sospensione della
logica razionale, o tradizionale. Non perché i suoi libri siano
surrealismo o fantascienza - due “ideologie” che Ballard apprezza
senza applicare alla lettera - ma perché è la ricerca del bello,
unita al riconoscimento della forza dell’assurdo, a dare omogeneità
all’opera ballardiana. La fascinazione per gli scontri
automobilistici in Crash, il dogma buñueliano dell’essere
prigionieri in un luogo aperto in Concrete Island, i rischi
del buon vicinato in High-Rise (1975), fino alle bombe della
borghesia contro se stessa in Millennium people. Idee forti,
aggressive. Folli. Dimostrabili solo per assurdo.
Infine, Millennium people.
Come Crawford
di Cocaine nights, Richard Gould è lo “psicopatico elevato al
ruolo di santo”, l’organizzatore. Che, come accade negli altri due
romanzi, elabora un progetto per poi abbandonarlo pian piano,
lasciandone l’esecuzione ai “burocrati del crimine” che lo vedranno
naufragare. Il protagonista, David Markham, è uno psicologo
assoldato dalla polizia per intrufolarsi a Chelsea Marina e capire
cosa sta succedendo. La molla che lo spinge a farlo è la morte
dell’ex moglie, stroncata dall’esplosione di una bomba al Termina 2
di Heathrow.
Ballard prende
la Londra contemporanea e la rade al suolo. Bentornato a casa. La
trama di Millennium people, pur seguendo la falsariga delle
altre due, è più sfacciata, più massimalista. Si tratta, in tutti e
tre i casi, di mystery postmoderni con colpi di scena
arbitrari e una suspense di plastica. Personaggi ricorrenti –
si vedano le analogie tra Bobby Crawford, il dottor Penrose, Richard
Gould e, perché no, il Vaughan di Crash – cadute di stile
oltre il livello di guardia e ritmo discontinuo. Ma tutto questo,
oltre ad essere riscattato, come abbiamo già sottolineato, dagli
spunti di riflessione che la trama suggerisce, può essere
giustificato da una prospettiva “di genere”. La scrittura di Ballard
si colloca, in maniera indiscutibile, negli standard della
letteratura di genere. È uno scrittore del “cosa” e non del “come”.
Lo stile non è sentito come una preoccupazione, e di fatto neanche
l’intreccio. I brividi vengono a quadro asciutto, quando ti
allontani dalla tela.
Londra,
dicevamo, viene sabotata. Rigorosamente a vanvera: una mostra felina
a Olympia, un negozio di videocassette, la statua di Peter Pan nei
giardini di Kensington, la Tate Modern, il National Film Theatre, la
tomba di Marx nel cimitero di Highgate. La BBC viene assediata, una
presentatrice assassinata. Un’accozzaglia disomogenea e ridicola di
fatti clamorosi e sciocchi, gravi e ininfluenti, i cui significati
“preferenziali” cozzano l’uno con l’altro. È l’assurdo che
“funziona” non perché sia coerente e programmatico, ma perché non si
riesce a riassumere sotto un’etichetta ad uso giornalistico. Il
bandolo della matassa è sfuggente. L’obiettivo dei rivoltosi di
Chelsea Marina è, ancora una volta, scuotere il torpore, minare alla
base la quiete mortuaria di un mondo occidentale ridotto ad un
centro commerciale, ad un parco a tema, ad un talk show di mezza
sera. Un mondo creato da loro a loro immagine e somiglianza. Come
recita uno dei capitoli, un’apocalisse da salotto. Contro il
salotto stesso. E contro l’apocalisse come “soluzione finale”,
perché così come la sollevazione s’innesca e si diffonde a macchia
d’olio, tutto decanta in breve tempo. E Richard Gould lo sa: “Non
succederà niente […] la tempesta si placherà, e tutto si esaurirà in
una pioggerella di show televisivi e di articoli di fondo sui
giornali. Siamo troppo perbene, e troppo frivoli” (pag. 252).
Mai profezia
fu più azzeccata. Il libro si chiude senza fuochi d’artificio, senza
colpi di scena. La parabola ha concluso la sua fase discendente.
Tutto si risolve in un ribasso nel valore degli immobili a Chelsea
Marina. Almeno in superficie. La consuetudine sembra ripristinata,
ma qualcosa rimane. Forse non è stato un fuoco di paglia. A pagina
259 sono i pensieri del protagonista a suggerircelo: “…stavo
pensando ad un’altra epoca, un breve periodo in cui Chelsea Marina
era un posto di grandi promesse, quando un giovane pediatra aveva
persuaso i residenti a creare una repubblica unica, una città senza
cartelli stradali, leggi senza punizioni, eventi senza significato,
un sole senza ombre”.
apparso su www.lankelot.com