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UNA RIVOLUZIONE IN TRE MOSSE

Inserito Martedì 14 dicembre 2004

Saggistica un articolo di Simone Buttazzi

COCAINE NIGHTS – SUPER CANNES- MILLENNIUM PEOPLE, di JAMES GRAHAM BALLARD.

James Graham è tornato a Londra. Le vacanze sono state lunghe e fruttuose: lo spazio di due romanzi. Ha riacquistato le forze. L’energia accumulata si percepisce fin dal titolo della sua ultima fatica, che non ha paura di suonare epocale. Dopo la Spagna di Cocaine Nights (1996) e la Costa Azzurra di Super Cannes (2000), il cerchio si chiude con Millennium people (2003).

Una trilogia, sembrerebbe. “Lo straniero” diretto da Goffredo Fofi, che recensisce Millennium people nel numero 46, ha pochi dubbi in proposito. C’è omogeneità di temi, ci sono analogie tra personaggi e situazioni. C’è lo stesso stile un po’ invecchiato. E sembra esserci un progetto di fondo. Tre libri per tracciare le coordinate di una rivolta mai sentita prima. La rivolta della borghesia contro se stessa.

Ballard, da sempre, è un maestro nel fondere i generi con la saggistica. Con questi tre titoli offre ancora una volta uno spaccato formidabile di “presente visionario” (si veda il dossier Ballard su “Pulp”, marzo 2004). I suoi romanzi non sono necessariamente ambientati nel periodo in cui vengono scritti, ma sanno sempre cogliere lo spirito del tempo preconizzandone sviluppi, conseguenze, degenerazioni. Sono romanzi che non rifiutano la classificazione di genere, anzi la scelgono, la incoraggiano, ma che vanno oltre, danno al lettore qualcosa di più. Ballard ama i generi. Negli anni ‘60 esordì come scrittore di fantascienza, arrivando in Italia con Urania. Per lui, di fatto, anche l’avanguardia è un genere, come dimostra la struttura programmatica de La mostra delle atrocità (1970) - visionario, sì, ma ordinatissimo e con note a piè di pagina - o anche un testo come Crash (1973), con il suo spirito da romanzo-scandalo accuratamente pianificato. Ballard è un grande narratore classico capace di annusare l’aria, di descrivere un’epoca senza essere didascalico e di guardare avanti con piglio da scienziato sociale, mai profeta da strapazzo.

Come Maitland, protagonista di Concrete Island (1974), il lettore di Ballard viene fatto sbandare e precipita in un “non luogo” à la Marc Augé. Un luogo, prima di tutto, di passaggio, spersonalizzante, anonimo. Ma anche riconoscibile, familiare, circoscritto, non chiuso ma impossibile da abbandonare. Chi ha visto L’angelo sterminatore (1963) di Luis Buñuel capirà al volo: il film è ambientato in un salotto borghese da cui, di punto in bianco, non è più possibile uscire. È inconcepibile. È dogmatico. Ebbene, immaginiamo che in questo non luogo circoscritto che è l’ambientazione del romanzo-tipo ballardiano sia in atto una rivoluzione: “una piccola rivoluzione, così discreta e perbene che non se n’era accorto quasi nessuno” (Millennium people, pag. 7). Il protagonista - e il lettore - la fruisce come un enigma, un rebus, un gioco di scacchi. Privo, tuttavia, di soluzione e di vincitori. Questa rivoluzione piccina picciò giunge al termine, o almeno esaurisce la sua forza. Si torna alla normalità, ma con uno sguardo diverso. Ecco cos’è Ballard. Una performance dada travestita da romanzo mass market, che tende ad implodere senza trionfo. Lasciando qualche traccia: un punto di vista inedito, talvolta “osceno” sul mondo che ci circonda. Una chiave di lettura che esce da quel luogo circoscritto e ci riguarda in prima persona. È questo il lascito delle sue pagine.

Estrella del Mar, Super Cannes, Chelsea Marina. Qui Ballard colloca le sue ultime tre storie claustrofobiche, i suoi gialli beffardi. Veri e propri romanzi-specchio in cui ambienti, personaggi e accadimenti sono pretesti per descrivere minuziosamente il qui, l’ora, e il noi.

In Cocaine nights incontriamo Bobby Crawford, affarista col pallino della “rivitalizzazione” dei luoghi di vacanza iberici.  In Super Cannes è il turno del dottor Wilder Penrose, psicologo d’alto bordo estroso quanto basta - sembra il dottor Jacobi di Twin Peaks - che ha una teoria tutta sua per guarire i ricchi abitanti di una zona residenziale cannense dal torpore cronico e dall’ “alcolismo da lavoro”. Infine, il pediatra Richard Gould, che fa sua - o inventa di sana pianta? - la rivolta di un intero quartiere londinese, Chelsea Marina.

Luoghi circoscritti ma non chiusi, in cui la via fuga è disponibile ma sembra che nessuno la voglia imboccare. Personaggi ricchi e annoiati nei primi due libri: in vacanza nel primo, residenti di un ghetto d’élite nel secondo. Nel terzo vediamo la borghesia, i proletari del nuovo millennio, i prodotti avariati del Novecento e della sua lunga ombra. Ballard prende i borghesi, li mette sul piede guerra e dà loro in patto l’intera città di Londra.

 Millennium people è retto da un paradosso illuminante che riporta alla memoria l’attrazione di Ballard per il dadaismo applicato alla realtà, modello The atrocity exhibition. È chiaro fin dalle prime righe: la borghesia si rivolta contro se stessa. La borghesia applica pratiche terroristiche su stessa e sui luoghi “affettivi” che ne rappresentano l’identità sociale e culturale. Il nemico sono io e mi comporto di conseguenza: ecco cosa sembrano dire i borghesi di Chelsea Marina. Vicolo cieco, certo. Arbitrario, certo. Ma può un’idea essere più disturbante e al contempo più feconda di questa? In tempi di scaricabarile, di paura a priori e di bianco versus nero, quanto è coraggioso dire che la linea nemica non è altro che uno specchio?

Si tratta di un concetto che matura pian piano nei tre romanzi. Nei primi due ci sono già avvisaglie, ma il focus è più micro. Il problema è la noia e come combatterla. Solo nel terzo si scoprono gli altarini e l’analisi si fa più profonda, più aspra: la rivolta a trecentosessanta gradi sostituisce la ricerca del piacere - del fun - portata avanti con metodi rivoltosi. L’illegalità coltivata di nascosto viene soppiantata a favore di uno scontro palese e senza quartiere. Ma i protagonisti di questa guerra non aprono le ostilità se non contro se stessi. La voragine del senso si è spalancata.

In Cocaine nights (pag. 175) si azzarda che la politica è un passatempo per una casta di professionisti, di fatto incapace di scuotere le persone. Idem per la religione, che richiede “troppa immaginazione”. Solo il crimine può davvero svegliare la gente. Una dose misurata di comportamento trasgressivo è la panacea. Bobby Crawford, “animatore criminale”, “importatore di malefatte” a Estrella del Mar diventa una sorta di nuovo messia, uno “psicopatico elevato al ruolo di santo”. Grazie a lui la trasgressione diventa un bene pubblico, e il rimorso un “lusso” che non c’è più bisogno di concedersi. Potrà suonare banale, o banalmente maligno, ma “Il crimine è l’unico impulso che ci sprona svegliarci. Siamo affascinati da questo ‘altro mondo’ dove tutto è possibile” (pag. 236). Psicologia spicciola? Maledettismo da bancarella? In certi casi la narrazione perde equilibrio e cade in questi tranelli, senza dubbio. Per poi risollevarsi di colpo grazie ad un dettaglio, un elemento apparentemente accessorio che torna a scrivere grandi note a margine della contemporaneità. La storia, ci ricorda Ballard sempre per bocca di Bobby Crawford, è piena di esempi che avvalorano il rapporto diretto tra crimine, coscienza sociale e grado di civiltà. In pratica, è la distinzione tra dionisiaco e apollineo, tra un caos letale ma dinamico e una quiete agiata, noiosa, senza idee. Ballare sceglie il caos, ma non gli concede mai una vittoria duratura. Non per moralismo. Per essere realista.

A Super Cannes il crimine, nella forma di violenze gratuite e deliberate, non è un passatempo. È un programma terapeutico: si passa dal villaggio vacanze allo studio psichiatrico d’alto bordo. La psicopatia non è più un problema da estirpare, ma la cura contro la noia e l’abbrutimento dell’anima. In questo consiste il progetto del dottor Wilder Penrose. Un paradosso? Ballardiano, quindi ovvio. Ma in Ballard tutto ciò che suona come un facile épater le bourgeois ha sempre uno spessore inaspettato. A Super Cannes la follia è incoraggiata ma comunque soppesata, centellinata. È “follia controllata e supervisionata” (pag. 242). È l’antidoto adatto alla decadenza in un’epoca il cui unico svago è il lavoro, cioè il dovere. Inoltre: “Se fai a meno della morale, le decisioni importanti diventano una questione di estetica” (pag. 246). La sospensione della morale è in fin dei conti il presupposto di tutte le trame ballardiane. Insieme, aggiungerei, alla sospensione della logica razionale, o tradizionale. Non perché i suoi libri siano surrealismo o fantascienza - due “ideologie” che Ballard apprezza senza applicare alla lettera - ma perché è la ricerca del bello, unita al riconoscimento della forza dell’assurdo, a dare omogeneità all’opera ballardiana. La fascinazione per gli scontri automobilistici in Crash, il dogma buñueliano dell’essere prigionieri in un luogo aperto in Concrete Island, i rischi del buon vicinato in High-Rise (1975), fino alle bombe della borghesia contro se stessa in Millennium people. Idee forti, aggressive. Folli. Dimostrabili solo per assurdo.

Infine, Millennium people. Come Crawford di Cocaine nights, Richard Gould è lo “psicopatico elevato al ruolo di santo”, l’organizzatore. Che, come accade negli altri due romanzi, elabora un progetto per poi abbandonarlo pian piano, lasciandone l’esecuzione ai “burocrati del crimine” che lo vedranno naufragare. Il protagonista, David Markham, è uno psicologo assoldato dalla polizia per intrufolarsi a Chelsea Marina e capire cosa sta succedendo. La molla che lo spinge a farlo è la morte dell’ex moglie, stroncata dall’esplosione di una bomba al Termina 2 di Heathrow.

Ballard prende la Londra contemporanea e la rade al suolo. Bentornato a casa. La trama di Millennium people, pur seguendo la falsariga delle altre due, è più sfacciata, più massimalista. Si tratta, in tutti e tre i casi, di mystery postmoderni con colpi di scena arbitrari e una suspense di plastica. Personaggi ricorrenti – si vedano le analogie tra Bobby Crawford, il dottor Penrose, Richard Gould e, perché no, il Vaughan di Crash – cadute di stile oltre il livello di guardia e ritmo discontinuo. Ma tutto questo, oltre ad essere riscattato, come abbiamo già sottolineato, dagli spunti di riflessione che la trama suggerisce, può essere giustificato da una prospettiva “di genere”. La scrittura di Ballard si colloca, in maniera indiscutibile, negli standard della letteratura di genere. È uno scrittore del “cosa” e non del “come”. Lo stile non è sentito come una preoccupazione, e di fatto neanche l’intreccio. I brividi vengono a quadro asciutto, quando ti allontani dalla tela.

Londra, dicevamo, viene sabotata. Rigorosamente a vanvera: una mostra felina a Olympia, un negozio di videocassette, la statua di Peter Pan nei giardini di Kensington, la Tate Modern, il National Film Theatre, la tomba di Marx nel cimitero di Highgate. La BBC viene assediata, una presentatrice assassinata. Un’accozzaglia disomogenea e ridicola di fatti clamorosi e sciocchi, gravi e ininfluenti, i cui significati “preferenziali” cozzano l’uno con l’altro. È l’assurdo che “funziona” non perché sia coerente e programmatico, ma perché non si riesce a riassumere sotto un’etichetta ad uso giornalistico. Il bandolo della matassa è sfuggente. L’obiettivo dei rivoltosi di Chelsea Marina è, ancora una volta, scuotere il torpore, minare alla base la quiete mortuaria di un mondo occidentale ridotto ad un centro commerciale, ad un parco a tema, ad un talk show di mezza sera. Un mondo creato da loro a loro immagine e somiglianza. Come recita uno dei capitoli, un’apocalisse da salotto. Contro il salotto stesso. E contro l’apocalisse come “soluzione finale”, perché così come la sollevazione s’innesca e si diffonde a macchia d’olio, tutto decanta in breve tempo. E Richard Gould lo sa: “Non succederà niente […] la tempesta si placherà, e tutto si esaurirà in una pioggerella di show televisivi e di articoli di fondo sui giornali. Siamo troppo perbene, e troppo frivoli” (pag. 252).

Mai profezia fu più azzeccata. Il libro si chiude senza fuochi d’artificio, senza colpi di scena. La parabola ha concluso la sua fase discendente. Tutto si risolve in un ribasso nel valore degli immobili a Chelsea Marina. Almeno in superficie. La consuetudine sembra ripristinata, ma qualcosa rimane. Forse non è stato un fuoco di paglia. A pagina 259 sono i pensieri del protagonista a suggerircelo: “…stavo pensando ad un’altra epoca, un breve periodo in cui Chelsea Marina era un posto di grandi promesse, quando un giovane pediatra aveva persuaso i residenti a creare una repubblica unica, una città senza cartelli stradali, leggi senza punizioni, eventi senza significato, un sole senza ombre”.

apparso su www.lankelot.com



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